Aveva ragione il mio compianto amico, il prof. mons. Antonio Antonaci, quando mi diceva: “Chi scrive e pubblica, in un certo qual modo rischia di diventare come certe donne di strada: non sa mai in che mani potrebbe andare a finire”. Le peggiori sono quelle di coloro che sentono su di sé tutto il peso di una scuola fatta male. E non perdono occasione di dimostrarlo senza ritegno.
Fra questi s’annoverano quelli che non solo non sanno scrivere, ma soprattutto non sanno leggere: e chiosano di conseguenza, con le solite elucubrazioni oltretutto sgrammaticate e insolenti.
Ora, nessuno, a meno che non sia paranoico, può pretendere che gli altri leggano tutto quello che scrive, ma almeno può sperare che non gli facciano dire il contrario.
Per quanto ovvio, non è mai il caso di prendersela, nell’un caso o nell’altro; né di ribattere o confutare o litigare oltremodo regredendo al livello del marciapiede. Ci mancherebbe altro. Del resto, come diceva Oscar Wilde, mai discutere con un idiota, ti trascina al suo stesso piano e ti batte con l’esperienza (e poi, detto tra noi, la gente potrebbe non notare la differenza).
Si sa che in Matematica più per più fa più, più per meno fa meno, meno per più è meno, e meno per meno è più. Sono nozioni basilari, diciamo da seconda media (chi l’avesse scordato è pregato di andarsi a rileggere i libri di testo dopo preventiva opportuna spolverata; chi, invece, non ne avesse punto voglia e non sapesse nemmeno di cosa si stia discettando può terminare qui la lettura di questo pezzo e darsi, come suole, alle chat di fb).
Orbene, trasponendo questi concetti elementari di logica ed epistemologia nel campo degli eventuali insulti e/o dei complimenti che ad ognuno di noi può capitare di ricevere, applicando il criterio razional-matematico di cui sopra, ed utilizzando mutatis mutandis le medesime categorie semiotiche impiegate da Umberto Eco in un suo memorabile articolo pubblicato nel 1997 su “L’Espresso” (cfr. U. Eco, Come prepararsi serenamente alla morte, in “La bustina di Minerva”, L’Espresso, 12 giugno 1997), sicuri di non scandalizzare nessuno se non il solito perbenista di facciata, diciamo che potremmo trovarci di fronte ai seguenti quattro casi o combinazioni:
a) se una persona in gamba, degna di stima, colta (concetti a valenza positiva) ti rivolge dei complimenti (segno positivo) non puoi che esserne contento (più per più infatti fa più);
b) se la stessa valorosa persona (segno più) invia al tuo indirizzo degli improperi, degli insulti, dei giudizi poco lusinghieri (segno negativo) c’è di che preoccuparsi (più per meno dà un risultato negativo);
c) se un coglione (accezione ovviamente negativa) ti adula, ti ammira, ti loda (segno positivo), parimenti c’è poco di che rimaner compiaciuti (in quanto meno per più è ovviamente meno);
d) infine, se un coglione (segno meno) ti biasima, ti denigra, ti disprezza e addirittura prova a diffamarti (sempre segno meno), il poveretto - a digiuno delle suddette elementari classi della Filosofia pura anzi applicata (e cioè che meno per meno fa più: vale a dire che due negazioni affermano) – non sa di averti in un sol colpo rivolto un grande complimento, appuntato al petto una medaglia al valore e concesso un attestato di benemerenza.
Dunque, sì, bisogna tenere in debita considerazione che cosa si afferma, si giudica, si dice, si considera, ma anche da chi proviene l’affermazione, il giudizio, l’espressione, la considerazione o l’epiteto.
Questo è quanto. Ora, signora mia, vuoi vedere che il coglione di turno mi darà, appunto, del coglione?
Antonio Mellone