ott312022
Ne avevo appena iniziato la lettura, ma poi me l’ha sequestrato la regina madre, 87, (riporto l’età di chi mi è vicino come usano fare le riviste del gossip vipparo), per riconsegnarmelo un paio di settimane dopo, vale a dire tre giorni fa, “ché mo’ lo leggo prima io, tanto tu tieni sempre qualche cosa sotto gli occhi”.
In effetti ero alle prese con l’ultimo centinaio di pagine del terzo tomo di quattro, dico di “M – Gli ultimi giorni dell’Europa” di Antonio Scurati (Bompiani, Milano, 2022, 425 pagg.): bello, non c’è che dire, e ben scritto, come del resto i primi due. Peccato soltanto per quel peana in stile “resta con noi signore la sera” vergato su Repubblica dal medesimo autore in onore di quell’altro figlio del secolo, non meno bellicista rispetto all’originale, ovverosia il Migliore fra i Migliori (a proposito di M), promosso e pluripremiato sul campo dai camerati del panfilo Britannia e giacché pure blandito da quasi tutta la stampa apologetica, ma venuto a mancare (momentaneamente) all’affetto dei suoi cari per essersela svignata dal suo stesso governo alla prima occasione utile. Ma non era di Scurati o della sua opera o dei fuggitivi ministeriali che avevo in mente di discettare questa volta, ma del volume scritto dalla dottoressa Enrica Mariano, nohana, 47, dal tutt’altro che ermetico titolo “La malattia è solo la punta dell’iceberg”, con sottotitolo “La cura inizia dall’ascolto” (Mind, Milano, 2022), recapitatomi in dono dal di lei padre, il geometra Biagio, 81.
Avevo già avuto modo di vergare parole sul conto dell’Enrica Mariano esattamente quindici anni fa, e precisamente sull’Osservatore Nohano (n.7, anno I, 7 ottobre 2007, pag. 13), nella rubrica denominata C.V., condensando in poche battute il curriculum vitae della mia concittadina, sin da allora di un certo spessore, fatto di diploma al Classico e poi di laurea in Medicina con il massimo dei voti e la lode, e successivamente di pubblicazioni, di assegnazioni di non so più quanti premi di laurea, e dunque del conseguimento di abilitazioni nell’arte medica, fino alla specializzazione in Cardiologia (anche questa ovviamente con voti stratosferici). A quel curriculum iniziale bisognerebbe aggiungere ora tre lustri abbondanti di Ricerca, e centinaia, ma che dico, migliaia di interventi chirurgici (un tempo a cuore aperto, ora non più), nonché la docenza di Cardiologia all’Università di Tor Vergata di Roma. Ultimamente, grazie anche a questo coso che sto sfogliando, vi sarebbe altresì da includere l’attività di scrittrice (nella dedica al sottoscritto – che non riporto in quanto non meritata – la Mariano parla di “prima opera letteraria”: ergo non siamo che all’inizio dell’n-esima sua avventura), e più di un Master, tipo il MICAP, acronimo con lemmi o locuzioni in rigoroso idioma anglosassone, visto oltretutto che quella I sta per internazionale. Ma a ogni titolo, gallone o pennacchio l’Enrica sembra preferire l’attestato di “idraulico delle coronarie”, di quelli d’urgenza, e ci conferma che sì, è importante il corpo, ma forse anche (e soprattutto) qualcosa d’altro.
Tu all’inizio ti aspettavi un sostanziale predicozzo da parte del professorone di turno che, dall’alto della sua cattedra, pontifica sulle magnifiche sorti e progressive della Medicina tutta fatta di regole e dogmi imposti dalla esimia società scientifica (mentre i profitti delle società del farmaco sarebbero soltanto trascurabili dettagli), e invece qui si narra di un’esperienza personale e un destino a tratti burlone con la provvida sventura dell’inversione di ruoli: una cardiologa che si ammala di pericardite in tempi non sospetti, costretta a dismettere temporaneamente il camice del medico per indossare il pigiama del paziente: “Un dolore che mi trapassava il petto. Avevo l’affanno, non riuscivo neanche a portare una busta della spesa senza avvertirlo. […] E quella fastidiosa sensazione del cuore in gola”, scrive.
Una pagina via l’altra e il rafforzamento di alcuni dubbi, suoi e nostri, invero covati da sempre, e di alcuni punti di vista che il tifoso di turno oserebbe considerare tutt’altro che “ortodossi” se non addirittura “antiscientifici”, ma che ormai non si possono più tacere, dacché esiste in natura un punto oltre il quale la verità, volenti o nolenti, comincia a brillare della sua stessa perspicuità. E qui la Mariano ti apre tutto un mondo fatto di spirito e non solo di corpo, di cervelli (ne abbiamo tre, lo sapevate?) e di un cuore che ha una memoria ed è la sede dell’anima (lo scrive nero su bianco un medico, eh), di dialoghi interiori e di autoascolto, di colloqui tra mente e intestino (chi l’avrebbe mai detto), e di meditazione e preghiera, di tango argentino e musicoterapia, insomma di punti di incontro mai di scontro tra medicina orientale e medicina tradizionale, tra olismo e separatismo.
Mi piace infine che uno specialista, come l’Enrica nostra, si compiaccia nell’autodefinirsi una Curandera [“Ebbene sì, non lo sapevo, eppure ero già una moderna curandera”, così a pag. 95].
Però, Enrica, per favore, la prossima volta tu e i tuoi colleghi cercate un sinonimo meno ostico e più immediato al lemma che vorrebbe sintetizzare tutte queste cose qua, vale a dire Psiconeuroimmunoendocrinologia: nel provare a pronunciarlo con una sola emissione di voce, per ipossia, caddi come morto corpo cade.
Antonio Mellone
apr142020
All’inizio fu il prete Pantaleone (XII secolo) a comporre tessera dopo tessera il mosaico di Otranto. Nove secoli dopo è Paolo Ricciardi, monsignore, a continuare in un certo qual modo l’opus tessellatum che rese ancor più celebre la città martire. Con la differenza che il materiale del primo mosaicista era costituito da lacerti lapidei policromi, marmo, ceramica, e altri frammenti duri; quello del secondo da tarsie coriacee, non meno resistenti, ergo niente affatto arrendevoli: i libri. Non so più quanti ne abbia scritti, don Paolo. Ho perso il conto.
Quest’ultimo volume, ancora caldo di pressa dell’Editrice Salentina (Galatina, gennaio 2020), ha per titolo “Dieci battaglie leali” e, stante il blocco delle visite di cortesia a causa dell’epidemia, mi è pervenuto per posta ordinaria. Ora, quando mi giunge un libro di don Paolo mi viene automatico sospendere la lettura di tutto il resto per immergermi immediatamente in quella degli scritti ricciardiani, tanto so che dura poco per via della scorrevolezza del testo, ecco appunto, lapidario e granitico. Il “rito”, quindi, si è ripetuto anche questa volta.
Insomma, fin dalla prima facciata l’autore parla di “battaglie”, vale a dire di lotte non più rinviabili per il futuro della sua bella Hydruntum, purtroppo spesso devastata, nella sua storia e nella sua geografia, da un capitalismo famelico e senza scrupoli al cui confronto l’invasione dei turchi del 1480 fu una passeggiata (monsignore mi assolva).
Non so perché, o forse sì, le parole di don Paolo a tratti mi ricordano il flagello fatto di funicelle sparse di nodi con le quali il Maestro sferzò i mercanti del tempio, rovesciando le loro bancarelle, e provando una buona volta a bandirli. Ed ecco dunque il battagliero arcidiacono del capitolo cattedrale che non le manda a dire: denuncia la gentrification del centro storico idruntino, trasformato ormai in “Centro Commerciale”, con la conseguente decimazione delle famiglie locali, le sole a tener veramente vive quelle antiche strade; querela il turismo, ormai iper-turismo o ouvertourism, che sembra aver disneyficato una città d’arte così singolare e delicata come la sua e nostra Otranto; accusa la quantità che ammazza la qualità, e dunque non potrà avere respiro lungo (gli economisti seri queste cose le sanno e le dicono); addita le antenne, gli alberi e le vele delle imbarcazioni dei diportisti, “gente facoltosa”, che disturbano invadenti la Torre Matta e il Bastione dei Pelasgi; dice senza mezzi termini, in controcorrente rispetto alla vulgata, che i pontili del porto non possono superare i limiti “consentiti dalle leggi naturali e positive”, anzi di più: dice che la collocazione dei relativi sostegni e impalcature, con l’aggravante dei macigni impiantati nei pressi di Pietra Grande, hanno rimpicciolito oltremodo quello specchio di mare che “incantava per la trasparenza delle acque”, rendendolo lacustre (sicché bene han fatto sovrintendenza e magistratura a ordinarne a suo tempo la rimozione); rimpiange i tempi in cui il porto era appannaggio dei piccoli pescatori, le cui rade barche erano manovrate dai remi, non da “motori a nafta, inquinanti”; mette nero su bianco quanto sia “amorale” il “sistema degli affari, del guadagno, del denaro, con le conseguenze di assalto al territorio sfruttato e deturpato”; si lamenta di talune autorità nazionali e locali, uomini di palazzo e singoli cittadini, credenti e non credenti, refrattari ai “dettami delle Leggi della Natura, che è nostra madre e alle prescrizioni delle Leggi divine”, e “che si ritengono padreterni e padroni assoluti del mondo”; si rammarica, infine, della carenza di “voci sane, libere, anticonformiste, forti, di profeti che dovrebbero aprire uno spiraglio di luce e di speranza”.
“Vox clamantis in deserto”, questa di don Paolo, che fa eco alla Laudato si’ del 2015 di papa Francesco: ma utile, utilissima all’amplificazione per contagio della “buona battaglia” (2 Tm 4,7), e tessera importante per la riscoperta della sacralità della creazione e dell’archetipo del Cristo Cosmico dei teologi.
In fin dei conti, per il bene di Otranto e del mondo intero, meglio riappropriarsi della tradizionale locuzione “Cristo regni” che rincitrullirsi nei lidi briatoregni.
Antonio Mellone
[Articolo apparso su: il Galatino, Anno LIII, n. 7, 10 aprile 2020 – numero in edicola]
feb252019
Per l’esposizione dei fatti Pietro Ratto, autore de “L’Honda anomala – Il rapimento Moro, una lettera anonima e un ispettore con le mani legate” (Bibliotheka Edizioni, Roma, 2017) usa il dialogo fra i due protagonisti principali della storia, un docente universitario e il suo allievo. Quindi ad un certo punto del racconto, fa esordire cosi il docente: “Lo Stato che uccide i suoi servitori. Che schifo!”
Il libro è incentrato su una lettera anonima, in cui si fa riferimento alla strage di via Fani, 16 Marzo 1978. La lettera arriva dopo oltre un anno dalla data di emissione sul tavolo di un ispettore della Digos a Torino. Si è tanto parlato e scritto sulla faccenda che riguarda l’omicidio di Aldo Moro, ma non si è mai fatta completamente luce sull’esatto percorso delle vicende e di tutte le persone coinvolte.
Mediante questa nuova testimonianza, vengono alla luce nuove prove certe, da collegare a quelle già esistenti.
Viene fuori un quadro generale sconvolgente, enti e persone impensabili sono coinvolte nell’eccidio: lo Stato rappresentato dal governo in carica, personaggi collegati con Mani Tese, Comunità di Emmaus, la Giovane Europa, esponenti dell’alta gerarchia delle Forze Armate, la Digos, l’Fbi, il Vaticano, la famigerata organizzazione militare denominata Gladio, un’organizzazione parallela ai servizi segreti, mai autorizzata da alcun Parlamento, finanziata e voluta dagli Stati Uniti per tener lontana l’Italia dal rischio del comunismo. Si parla di Trilatero, un’associazione privata con sede in America, ci sono invischiati personaggi di alto livello, tipo Henry Kissinger, David Rockfeller, Brzezinschi e Nixon. Insomma America, Giappone ed Europa, tutti preoccupati di gestire il capitalismo avanzante in funzione antisovietica.
Ciò che si teme è che troppa democrazia possa nuocere alla governabilità di un paese come l’Italia. Il sessantotto è ancora molto vicino e i suoi effetti si fanno sentire. Praticamente ci fanno andare a votare, e poi tutto finisce lì.
Quello che sorprende è venire a conoscenza del fatto che quasi tutti crediamo di vivere in uno Stato democratico, non immaginiamo minimamente che invece esiste uno Stato ed un sotto Stato altrettanto potente, che non si cura degli interessi delle persone, ma fa gli interessi di chi impone in modo subdolo il proprio predominio sul mondo intero. E per fare questo non bada a sacrifici, fino ad uccidere tanti servitori dello stato ed un personaggio di alto livello come Aldo Moro. Allora dovrebbe venirci da pensare che se per mettere a tacere Aldo Moro hanno scomodato l’Fbi, la Digos, il Sismi, le BR, la ‘Ndrangheta, e tutte quelle associazioni di cui fa riferimento l’autore, ed ora per realizzare la TAP, predispongono l’esercito e la Digos in numero esuberante rispetto alle poche decine di contadini e onesti cittadini disarmati, vuol dire che sicuramente abbiamo a che fare con qualcosa di molto pericoloso.
Quindi è facile comprendere che se si vuole almeno essere invitati ad un tavolo di confronto per questa opera molto discutibile sia in utilità che in modalità costruttive, non bastano quattro convegni, non bastano quattro cortei, non bastano dieci, cento, un milione di associazioni che dicono di lottare ma che di fatto non sono unite in un unico corpo, come invece è il nemico che ci sta davanti. Abbiamo sul tavolo un grosso problema, che evidentemente non è solo Tap, Ilva, Cerano, affare Xylella, Discariche, ecc. ma è la decisione che questa territorio debba morire, che interessa solo per crearvi opere distruttive che portano utili ad altri e altrove.
Conclusione: abbiamo il problema, abbiamo un nemico organizzatissimo e potente, siamo anche in tanti e abbiamo le competenze, occorre solo metterle insieme in modalità organizzata in modo da essere altrettanto “potenti” perlomeno da essere ascoltati. Correndo da soli rischiamo di smuovere solo aria e polvere.
Marcello D'Acquarica
giu162018
“Lento all’ira e grande nell’amore”, era il verso di un salmo responsoriale (allora non sapevo fosse a cura del re Davide) che da giovane imberbe chierichetto ero chiamato a leggere, guarda un po’, nei matrimoni, subito dopo la prima lettura che in genere era di spettanza della sempre commossa sposa.
E “Lento all’ira” (“grande nell’amore” è sottinteso) è l’ultimo lavoro letterario del mio amico Alessandro Romano (edizioni Esperidi, Monteroni di Lecce, 2017).
Per come l’ho visto io, “Lento all’ira” (ma veloce nella lettura: 123 pagine, note dell'autore incluse) non è la semplice opera romantica di un viaggio nella storia e nella geografia della terra nostra, e dunque non necessariamente la ricerca delle radici, del diritto di cittadinanza, delle tradizioni e della cultura della terra che fu dei Messapi; sì, ci sta anche tutto questo per carità (e addirittura ancora una volta – che goduria – anche la leggenda trasposta di Cosimo Mariano da Noha e le sue Casiceddhre che stavolta sono la riproduzione in miniatura di Masseria Tridente), ma qui siamo di fronte al dialogo profondo tra Leonida Karydis, archeologo alla Schliemann (quello della città di Troia e delle altre civiltà sepolte) e il buon Donato Zappo (un cognome che è anche voce del verbo).
Questo dialogo, che avviene anche attraverso la lettura del diario dello Zappo, è il vero scavo archeologico nelle viscere di un’anima lenta all’ira per formazione, e grande nell’amore per indole. Spesso Donato Zappo finisce per essere lo specchio nel quale si riflette l’archeologo ricercatore venuto dalla Grecia dei miti, sicché Zappo e Karydis sono alla fin fine due personaggi in cerca del loro autore.
nov012017
Lo leggi tutto d’un fiato, questo libro meraviglioso ricevuto direttamente dalle mani degli autori una bella serata di fine agosto trascorsa a Castiglione d’Otranto in mezzo a tanta cultura, musica, un po’ di convegni, bei filmati, svariati semi viaggiatori e grandi utopie (le uniche in grado di cambiare il mondo).
Quando hai terminato di divorare il tutto - dal catalogo delle antiche varietà agricole a quello dei produttori, inclusi i loro recapiti telefonici, la bibliografia essenziale e ovviamente il manifesto per l’agricoltura naturale - ti viene d’istinto di pensare un po’ anche alla tua storia, quella che per studio e lavoro t’ha visto girovago in posti sovente piazzati a svariati chilometri di distanza dalla tua terra.
Anche tu, come molti altri, hai bazzicato per anni nella folta gradinata del Nord (che t’ha dato tanto, lo riconosci), ma con lo sguardo sempre puntato verso la curva Sud. L’ago della tua bussola, ribelle, fu sempre pronto a voltare le spalle all’eterna legge del magnetismo terrestre (e forse anche a quella del carrierismo pedestre).
Sì, hai sempre voluto far tendere a zero quei mille e passa chilometri di strade ferrate o autostrade o rotte aeree. E alla fine, da un pugno d’anni, ci sei pure riuscito. Non a tutti è concesso il dono della forza di gravità permanente verso una patria che ha la pazienza di aspettarti, talvolta senza cambiar nulla di quello che un tempo hai lasciato; spesso purtroppo cambiando tutto e in peggio.
Ma non fu vana la tua odissea (nessuna lo è). Lontano dal borgo natio hai iniziato a intuire i limiti di chi non si avvia, di chi si trattiene imbullonato a casa precludendosi il fardello della lontananza e i graffi della nostalgia. Lì, fuori dal guscio capisci invece che sovente non parte chi parte, parte chi resta. Chi resta, forse per troppa abitudine, non sempre riesce ad afferrare il valore di un complemento di stato in luogo sicché la sua terra non più promessa si trasforma in polverone informe, senza valore, pronto a cadergli di mano, e a diventare bersaglio immobile di soprusi e vili oltraggi.
Non tutti hanno la possibilità di azzerare i chilometri ripercorrendo la strada del rientro verso quella calamita (si spera senza accento finale) che è la terra del Salento. Per tanti (peccato, non per tutti) questa terra è diventata miraggio, stella cometa, segnale stradale di un rimpatrio, percorso inverso, retromarcia da ingranare finalmente per poter andare avanti.
apr152017
Sei andato di corsa alla ricerca di questo libro, dopo averlo visto nascere sulla seguitissima bacheca face-book dell’autore che è Alessandro Romano. Non vedevi l’ora di leggere l’opera letteraria di un amico che conosci da oltre un lustro, e certamente da molto prima dell’iscrizione tua e sua al popolare social network.
Fu tuo ospite a Noha, e più volte, insieme alla stupenda Giuliana Coppola.
Girovaghi per il paese (tu come guida, Giuliana come cronista e Alex come cameraman – sì, l’ufficio ce l’ha praticamente in spalla) andaste insieme a zonzo a scoprir meraviglie. E ne rinveniste più d’una. Ma ora è d’uopo lasciar perdere questo filone, ché rischieresti di non finirla più e magari di uscire fuori dal seminato.
Dunque. Hai dovuto gironzolare non poco per librerie, dapprima alla Dante Alighieri di Casarano, successivamente alla Feltrinelli e poi alla Liberrima di Lecce, e finalmente alla Palmieri della stessa città dove con letizia, dopo le comunque piacevoli peripezie bibliofile, hai potuto recuperare una copia de “L’alba del difensore degli uomini” (Altromondo Editore, Fano, 2016): locuzione invero un po’ lunga e quasi ermetica che rievoca vagamente anche quelle che adopera la Lina Wertmüller per intitolare i suoi film. Ma alla fine della storia, come per “Il nome della rosa”, coglierai eccome il senso del tutto.
nov282016
Non è la prima volta che Gianluca Virgilio mi fa dono di uno dei suoi libri.
Ecco. Quando succede sospendo quasi automaticamente la lettura dell’altro che ho per le mani per buttarmi a capo fitto e con gran diletto in quella del suo testo. La “parentesi virgiliana” di solito non dura più di un paio di giorni, al massimo tre, tanto scorrevolissimo e vorace, come sempre, è quel che egli scrive.
Stavolta la strenna è il suo “Quel che posso dire”, ancora caldo delle rotative di Edit Santoro di Galatina (settembre 2016); mentre l’Altro che avevo per le mani - e che ha dovuto attendere il suo turno - era un classico della Naomi Klein, “No logo” (Bur, Milano, 2015), insieme al centesimo volume di Andrea Camilleri, “L’altro capo del filo” (Sellerio, Palermo, 2016). Sì, in genere me ne porto avanti un paio per volta, quando non di più.
lug082016
I libri che vale la pena di leggere son quelli che fanno incavolare.
Tutti gli altri, sì, vabbé, potrebbero essere pure interessanti, magari scritti anche bene, ma se non provocano un pizzico di stizza, di tormento interiore, di cruccio o di revisione di un paradigma al quale s’è pur sempre creduto servono a poco.
E questo non dipende dal genere. Anche i romanzi d’amore, per dire, se in qualche loro parte non suscitano forme di sdegno, risentimento o di rabbia potrebbero rischiare di diventare una gran perdita di tempo.
Ma se ci pensate bene non esistono libri che non fanno incavolare.
Anche “I Promessi Sposi”, per esempio, in qualche brano, anzi in più di qualcuno, creano inquietudine, rancore, irritazione (pensiamo alle pagine su don Abbondio, o a quelle su don Rodrigo, o alle figure sinistre del conte Attilio o del dottor Azzeccagarbugli, o il racconto dell’assalto al forno delle grucce e l’arrivo di Antonio Ferrer). Ma il discorso varrebbe anche per “Anna Karenina”, per “I Malavoglia” o per “Il nome della Rosa”…
gen132016
Franco Berrino, Il cibo dell’uomo - La via della salute tra conoscenza scientifica e antiche saggezze, Franco Angeli, Milano, 2015
Nella lettura di questo testo, anche solo in modalità superficiale, si scoprono tanti rimedi naturali, come per esempio quelli contro le afte in bocca, la stitichezza, contro le angine o le otiti dei bambini, e molti altri disturbi.
Pur con i limiti di chi come il sottoscritto non conosce i termini tecnici, specifici degli addetti ai lavori, e che per approfondire, dovrebbe leggersi almeno tutti i testi elencati nella bibliografia, comunque la sua lettura lascia intendere che alla base di tutto è necessario conoscere i fabbisogni essenziali dettati anche dal Dna individuale e soprattutto sapere cosa stiamo ingerendo e per cosa. Poiché “mangiare” non dovrebbe essere il soddisfare la fame bensì prevenire le malattie, e cioè utilizzare il nutrimento come terapia per la nostra salute.
Per esempio, il sale in eccesso è causa di ipertensione, ma ridurlo eccessivamente è pericoloso. Molti studi hanno dimostrato che la mortalità è più alta in chi assume molto sale ma anche in chi ne assume molto poco (pag. 49). Non si danno grassi a chi è gonfio o sale a chi è già contratto.