Ho avuto solo ora modo di leggere “Il confessore di Cavour”, edito dall’editore salentino Manni, serbando ancora gelosamente tra i ricordi la vampa d’orgoglio che m’investì il giorno in cui appresi della selezione dell’opera tra i concorrenti al Premio Strega 2011.
Si sa che la piccola editoria affronta un periodo, oramai un’era, di forte difficoltà, pertanto riconoscimenti di questa portata possono solo aiutare a crescere, anzi devono fungere da lente di ingrandimento, da sveglia per chi è assopito, da tocco sulla spalla a chi si volta dall’altra parte e fa finta che oltre alla Nina, la Pinta e la Santa Maria (grandi case editrici italiane, per carità) ci sia il vuoto. Chiamatelo pure vuoto, se la cosa vi può tranquillizzare, ma è un vuoto strano, anomalo, che pullula di vita e in continuo movimento.
Non dirò nulla su quell’edizione del Premio Strega, non pronuncerò il nome dell’opera vincitrice né quello della sua casa editrice (tirate ad indovinare, non è poi così difficile!), anche se la tentazione è forte non dirò nulla sulla qualità delle opere vincitrici degli ultimi anni, serbando alle prossime righe la descrizione dell’opera di Greco. Premetto di non essere un grande lettore, né di conseguenza intenditore, di romanzi storici, tuttavia questo è un genere letterario che di solito delude poche volte, soprattutto chi come me non presta molta attenzione ai particolari storici.
Nel caso de “Il confessore di Cavour” la storia è costruita sulla base di alcune note di viaggio (Notizia del mio viaggio per Roma, riproposto integralmente in appendice) appartenute a padre Giacomo da Poirino (1808-1885), francescano dei Minori Riformati. Un viaggio fisico ci conduce nella Roma caput mundi sede dello Stato pontificio e uno interiore ci porta nell’animo tormentato di un frate che si ritrova sotto processo per aver amministrato il conforto del sacramento della confessione ad un uomo in punto di morte. Quell’uomo era Cavour, colpito da scomunica papale per il suo operato contro Santa Romana Chiesa (in altre parole non andava giù il fatto che l’unificazione dovesse avvenire a spese del potere temporale della Chiesa), la colpa invece che si attribuiva a padre Giacomo era quella di aver amministrato i sacramenti ad un uomo scomunicato senza aver preteso prima una ritrattazione del suo operato per iscritto o in presenza di testimoni. Per queste ragioni l’umile parroco di campagna, nonché amico dello stesso Cavour, viene convocato e interrogato dai suoi superiori, dall’ultimo Papa Re, Pio IX, e dal padre Inquisitore e invitato a dichiarare la sua inadempienza ai doveri canonici.
Padre Giacomo porterà avanti sino alla fine la sua posizione ferma e decisa a non rinnegare il suo operato in buona coscienza e pagherà duramente, con la sospensione a divinis, lo scontro tra ragioni di Stato e di Chiesa.
Michele Stursi