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Articoli del 31/08/2020

Il primo settembre del 1920, otto pionieri fondatori - cui si aggiunsero immediatamente i primi trenta soci ordinari - diedero i natali al Circolo Cittadino di Noha. Dopo aver approvato lo statuto all’unanimità, ne inaugurarono la sede in due ampi locali con volta a botte al piano terra del “fortissimo Castello di Noha, posto in forte loco”. Tutti si strinsero le destre e bevvero un bicchiere di vino locale alla salute del novello sodalizio, ripetendo nei loro prosit la frase attribuita a Giulio Cesare dal suo biografo Svetonio: “Alea iacta est” (il dato è stato lanciato): questo motto, insieme allo stemma civico delle tre torri, e ad altre immagini allegoriche, fu effigiato in un bel quadro da Michele D’Acquarica (1886 – 1971), che da quel dì ha campeggiato solenne nella diciamo aula magna dell’associazione, oltre che sul suo vessillo. 

Fu denominato Juventus, questo cenacolo, vale a dire la Gioventù, senza alcun riferimento né alla squadra di calcio (la quale, benché fondata nel 1897, era allora sconosciuta perfino agli Agnelli), né alla prosopopea fascista (ché i suoi apologeti, più o meno consapevoli, sembrano più numerosi oggi di quelli di cent’anni fa): ma sin da subito fu da tutti conosciuto come il Circolo. Quando si dice l’antonomasia. 

All’epoca regnava ancora casa Savoia nella persona di re Vittorio Emanuele III (e non si capisce perché l’odonomastica da nord a sud sia ancora così indulgente con il sovrano “sciaboletta”); il presidente del consiglio era Giovanni Giolitti, mentre al di là del Tevere indossava la tiara di pontefice massimo Giacomo Paolo Giovanni Battista della Chiesa che la cristianità cattolica onorò con il nome di Benedetto XV. Sulla cattedra di Nardò, cui la chiesa particolare di Noha apparteneva fino al 1988, sedeva il biscegliese Nicola Giannattasio, intanto che sindaco di Galatina era il dottor Vito Vallone, medico del popolo, dimissionario nel 1923, quando ormai il fascismo aveva preso piede, e ben altre famiglie alto-borghesi, come i Bardoscia, i Venturi, e il ramo di Domenico Galluccio avevano in pugno città e frazioni.

L’arciprete di Noha – che allora annoverava poco meno di 2000 anime -  rispondeva al nome di don Vito Antonio Greco (parroco, costui, del rifacimento della facciata della matrice di San Michele Arcangelo, inaugurata nel 1901), coadiuvato da don Pippi Piscopo, don Ippazio Apollonio e don Isaia Blago e, a partire proprio dal 1920, anche da don Paolo Tundo, suo sostituto ed economo curato, poi monsignore, che gli succederà nell’archipresbyteratus nohano nel 1934. 

Il Novecento fu un secolo così breve che non basterebbe un’enciclopedia intera per abborracciarne una sua pur stringata epitome. Ma non si può omettere il fatto che il 1920 fu l’ultimo anno della Spagnola (iniziata due anni prima), definita dagli storici come la più grave forma di pandemia dell’umanità, più mortale della peste nera del XIV secolo. Nonostante tutto, codesti soci coraggiosi, stanchi di “peste fame et bello”, decisero di dar vita a un diciamo assembramento, e questo fu così solido e longevo che proprio oggi taglia il nastro del secolo di vita.

Del ventennio fascista e del tramonto della libertà cittadina non è il caso di parlarne oltremodo (tanto chi sa sa, mentre chi non sa crede agli asini volatili e vota di conseguenza), ma sul tema non posso non uscirmene - sperando non mi si tacci di ermetismo - con uno degli epigrammi del Manzoni, ma al rovescio, e cioè dal manzoniano: le cappe che s’inchinavano ai farsetti al melloniano: all’orbace s’inchinava la lana di capra (capre che, sopra o sotto i palchi dei comizi, erano e sono tuttavia ancora maggioranza).       

La Storia (come la natura) non fa salti, ma grandi falcate sì, sicché tra sopruso e manganello, il duce e i suoi ducetti portarono l’Italia in guerra: la seconda mondiale. Noha, che dopo la prima non s’era mai ringalluzzita (nonostante appunto i Galluccio, o forse anche a causa loro), ripiomba nello sconforto e nella miseria determinati anche dalla partenza verso il fronte prima e verso la prigionia poi delle sue braccia più forti e delle sue menti più vivaci, forse le migliori, certamente le più giovani. Il Circolo ne risente eccome, e in questo periodo, come molte altre istituzioni, più che vivere sopravvive.

Gli anni ruggenti a Noha iniziano finalmente nel secondo dopoguerra. Si riprende l’agricoltura (che era, e non potrà che esser sempre il settore primario, quello senza il quale nessuno di noi esisterebbe), la pastorizia, l’allevamento, l’artigianato, la piccola industria (vinicola, conserviera, la fabbrica del Brandy), e ovviamente il micro-commercio, e quindi di pari passo anche il numero degli iscritti al Circolo Cittadino.

Le regole del circolo prevedono la laicità, ma nel senso più ampio del termine, soprattutto nel senso dell’apartiticità, per cui s’è spesso ripetuto: “Qui non si parla di politica” (che poi è il modo migliore per parlarne quasi sempre), onde le discussioni avvenivano in gruppo, spesso seduti a ronda, magari afferrando una sedia per la spalliera e girandola in modo da sedersi con il petto contro la stessa spalliera (come fa nella foto il piccolo Simone).

Nei primissimi anni del secondo dopoguerra si sottoscrive l’abbonamento alla Gazzetta del Mezzogiorno, e non era infrequente la sua lettura ad alta voce, con conseguente commento di alcuni brani. Quasi di pari passo si acquista una bella radio nuova di zecca: una scatola di legno enorme con i riquadri luminosi e i nomi delle stazioni (Milano, Stoccarda, Vaticano, Istanbul…), gialli per le onde medie, rossi per le onde corte e verdi per le lunghe. La radio trasmetteva musica operistica, ovviamente la melodica, le commedie e il giornale radio e, fin dai primissimi anni ’60, “Tutto il calcio minuto per minuto” che teneva incollati letteralmente all’apparecchio tifosi e giocatori di schedine.

La TV a 27 pollici non tarderà ad arrivare, e con lei per fortuna anche un abbonamento pluriennale a L’Espresso (quante Bustine di Minerva di Umberto Eco ho letto da piccolo, allorché mio papà Giovanni mi dava “lu ‘ntartieni” in quel circolo di cui era socio – oggi, pare, il più anziano).

A proposito di televisione non si può non menzionare “Alla conquista del west”, la serie televisiva americana andata in onda nel 1979 che riempiva il salone di soci e loro accompagnatori fino all’inverosimile con l’epopea della famiglia Macahan [leggi Mechèin, ndr.], il cui capostipite Zeb “Mechèin” veniva da tutti appellato (ormai famigliarmente) Zi’ Micheli.

Insomma, mentre oggi gli uomini sembra non smettano di inventarsi nuovi metodi per vedersi quanto meno è possibile (dai social network al lavoro da casa), i soci del Circolo Cittadino sentivano invece il bisogno quotidiano di incontrarsi, guardarsi negli occhi, raccontarsi le storie, parlare di campagna, di vino e di tabacco, e magari di scambiarsi i semi delle piante migliori, e perché no d’estate degustare insieme qualche bella fetta di Mellone.

Da un paio d’anni, il circolo cittadino ha lasciato la sua sede storica per trasferirsi in un’altra più piccola proprio in piazza San Michele, a poche decine di metri dalla precedente. Il suo nuovo presidente, nella persona di Antonio Idolo (Papa ‘Ntoni), sogna il ritorno in massa dei soci, pronti, come allora, a discutere di fatti, a giocare a carte e a scacchi, a solidarizzare e ad abbracciarsi anche nei momenti tristi (come la dipartita di un socio o di un suo famigliare, allorché, prima di questo virus, la bandiera del circolo era la prima a sfilare in corteo): in breve, spera, e noi con lui, nella fine di questa, purtroppo ancora in corso, terza guerra mondiale.

* * *

Ai soci era sufficiente esserci, e non era necessario fare chissà quali discorsi, ché le parole a Noha, specie in passato, non si sono mai sprecate. Si racconta che una volta, al rinnovo di un consiglio direttivo, il presidente Gerardino Specchia invitasse il neo-eletto vice presidente Ninetto (la buonanima di Santo D’Acquarica, titolare del bar di piazza San Michele) al tavolo della presidenza per un “breve intervento di ringraziamento”. Orbene, Ninetto, si alza in piedi, prende il microfono, ci soffia dentro, dà due colpetti sulla capsula per provarne il funzionamento, un rapido sguardo alla platea, raccoglie i pensieri, prende fiato, e con la sua voce tonitruante, fa: “Crazzie!”.

Fine della dissertazione. Applausi.

Antonio Mellone

 

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