Sabato 21 febbraio, ore 21:50, ho ricevuto una telefonata alla quale non ho potuto rispondere. Alle ore 21:58 ecco vibrare nuovamente il telefono; un sms: ‘morto don Donato’. Una fortissima fitta di dolore mi ha stretto il cuore come in una morsa e, quelle tre parole, una affianco all’altra come nessuno avrebbe mai voluto leggere, mi hanno fatto cadere una lacrima. E in quella goccia salata, tanto densa da far fatica a percorrermi tutto il viso, c’era tutta l’amarezza e il dolore nell’aver perduto una persona che ho sempre considerato a me cara, più di tante altre. Io ho perso un amico, come ha detto anche padre Francesco, ma ho anche perso una persona buona e fedele, un ispiratore, un pensatore moderno, un filosofo d’altri tempi, un moderatore d’animi, la linea di partenza dalla quale ho dato il via allo sprint più lungo della mia vita. Ho perduto, insieme a te, il significato della satira, la sempreverde luce della speranza e il sorriso celato nelle pieghe più cruente della vita. Ho perso uno che oggi definirebbero ‘opinionista’, uno stravagante abitudinario, uno che insegna metodo, un vero giornalista. Non ho mai capito, infatti, il perché tu mi facessi tante domande.
Don Donato, mi hai sempre interrogato, sin dai primi anni di catechismo. E hai continuato a farlo anche dopo, mentre frequentavo il liceo, quando ho lasciato Noha, quando mi sono sposato e anche quando sono diventato padre. Forse eri uno al quale non bastavano mai le risposte. In un certo senso eri un bambino ansioso di stupirsi. Non potrò mai dimenticare le tue espressioni di stupore quando ricevevi una risposta solo all’apparenza inattesa. E lo sapevo che le tue erano sempre finte reazioni. Tu conoscevi già le risposte che cercavamo di dare alle tue domande. Era una delle cose che avrei voluto chiederti prima che te ne andassi il perché ponevi così tanti interrogativi. Volevi sapere cosa pensassi dell’attuale politica, mi incalzavi affinché esprimessi il mio parere sulle mosse della CEI, chiedevi il mio giudizio sull’operato di un Vescovo o di un altro sacerdote, chiarimenti sul pettegolezzo cittadino. Insomma volevi pareri su tutto, tu che ti eri sempre ostinato a non sbilanciarti su un giudizio personale, perché per te la cosa fondamentale era il conoscere e non il giudicare. Non ti ho mai sentito soppesare nessuno eppure chiedevi sempre pareri. E chissà che cosa darei per tornare, anche solo per un attimo, in quello che tu chiamavi il tuo studio, don Donato, quando si sentiva la nostra cara Antonietta chiedere il permesso per entrate e interrompere i nostri discorsi con il suo vassoio di thè fumante. E su quel vassoio c’erano sempre due tazze, una per te e una per me perché ho passato tutta la mia infanzia in quella sagrestia. E mi ritorna il pensiero su quei grandi registri sui quali mi facevi annotare battesimi, cresime, matrimoni e funerali. E mai avrei pensato, in quel lontano passato, che ci sarebbe stato scritto anche il tuo nome sulle pagine di quello che non avrei mai voluto aprire.
Chissà in quale cassonetto è finito quel piccolo quaderno sul quale annotavamo i nostri compensi da chierichetti. Il sabato giornata di paga del più simpatico tariffario della mia vita: 500 lire per una messa, 1500 lire per un matrimonio, 1000 lire per una processione e 2000 lire per un funerale. E sapevo già allora perché la paghetta per assisterti durante la celebrazione delle esequie era la più cospicua: perché per noi bambini, quali eravamo allora, era una dura prova guardare giornalmente la morte in faccia. E per me, che di facce funebri nella mia infanzia di chierichetto ne ho viste a migliaia, la morte mi era divenuta familiare, tanto da farne l’abitudine.
Non so quanti chilometri abbiamo percorso insieme in processioni, quante volte ti abbia legato i lacci delle scarpe quel giorno del Corpus Domini, non so quante prime letture, salmi responsoriali e preghiere dei fedeli tu mi abbia fatto leggere. Non so quante novene, quante partite a calciobalilla, quanti foglietti della messa distribuiti, quanti rosari recitati, quante ampolline versate e calici tersi sotto il tuo occhio vigile. Volevi anche insegnarmi a suonare l’organo, caro prete caparbio, proprio a me duro di comprendonio. E te ne sei andato così, ancora facendomi una domanda: “Mo si benutu d’estate. Quandu torni, a Pasqua?”. Non torno a Pasqua, caro don Donato, perché troverei la porta del tuo ufficio di casa chiusa. Non tornerò perché dietro quell’anta vetrata non ci saresti tu, col tuo Popotus. Non tornerò perché non mi farai più accomodare sulla tua poltrona di pelle nera mentre tu, richiudendo nel mio ricordo il tuo breviario, ti diverti ancora una volta a prendermi in giro. Non posso tornare se non potrò ancora sentirmi rivolgere una domanda delle tue. Tornerò un giorno per venirti a visitare in quel campo del quale tu dicevi “tantu tutti ddai imu scire”. E la mia più grande tristezza è non averti salutato per l’ultima volta perché ti avevo promesso che ci saremmo rivisti per Natale. E io, alla mia promessa, sono venuto meno perché tu eri già in terapia intensiva quando sono arrivato a Noha. Eppure tu, prete caparbio, la tua promessa l’hai mantenuta perché, forse sapendo che non mi avresti rivisto, mi hai lasciato un messaggio vocale per il mio compleanno, dicendomi che avresti voluto vivere fino a centottant’anni per veder me compierne novanta. Io no credo di osare così tanto da poter arrivare vivo sino ai novanta, ma se il Signore mi concederà di vivere, sappi che anche tu compirai almeno centosettanta primavere (visto che ti conosco da quando di anni ne avevo solo dieci), se non in vita terrena, almeno nel mio ricordo. Non dovevi andartene senza dirmi il tuo ultimo dialettale “Nà, mo!” Nel frattempo, nonostante tu sia impegnatissimo nel lodare Dio che ti sorride, ricordati di pregare per me e di dare, di tanto in tanto, un’occhiata qua giù, dove mi hai lasciato vagabondo nei ricordi.