Lui è Maurizio Bianco, ma il nome d’arte, o se volete pseudonimo, è Morris, e coincide con il suo autografo vergato in calce alle sue opere.
Noi tutti, per rispetto e ormai tradizione, lo appelliamo così, come del resto avveniva per Giotto (Ambrogio da Bondone), Caravaggio (Michelangelo Merisi), Tintoretto (Jacopo Robusti), e altri suoi colleghi.
Se Morris fosse nato nel 1965, con veloce processo inferenziale, si sarebbe potuto addirittura pensare ad una reincarnazione di Antonio Ligabue (Zurigo, 1889 – Gualtieri, 1965). E in effetti è possibile intravvedere non pochi parallelismi tra una figura d’artista e l’altra. Ma Morris è nato nel 1964, un anno prima della dipartita del suo illustre predecessore, quindi niente da fare. E poi, diciamocela tutta, al di là di qualche dejà vu, o di alcune coincidenze o analogie, anche di lineamenti del viso, non si può assolutamente affermare che Morris sia un Manierista, ossia un pittore alla maniera di un Ligabue. Né invero di altri.
Morris, al contrario, è un innovatore a modo suo, nel senso che ha un suo personale modo di vedere e di rappresentare il mondo e la natura, ovvero l’uomo, il suo mistero e le sue chimere. Del resto si sa che è innovazione, originalità e genio artistico anche la figurazione inedita di elementi, tinte e forme già edite.
Morris mi dice, con la sua proverbiale pacatezza, che ha frequentato le scuole fino alla prima media, e che la disciplina che più di tutte lo appassionava era l'Educazione Artistica: “Mi è sempre piaciuto disegnare. Prima durante e dopo le lezioni. Anche quando facevo il piastrellista o l’intonacatore o il pittore [qui intende il pittore edile, cioè l’imbianchino, ndr.]”.
E ora che fa il contadino, Morris ha pure la possibilità di stare all’aria aperta, di ammirare verde e terra rossa, albe e tramonti, e soprattutto l’azzurro del cielo che spesso e volentieri prende e consegna ai suoi quadri.
Si capisce dunque quanto la “ragione dell’arte” in Morris, artista di provincia anzi di paese, sia insita soprattutto nel suo istinto che lo spinge a riportare in superficie la vita che gli scorre sotto traccia, e parimenti quanto questa “ragione” si basi su una formazione più empirica e autodidatta che colta (ma non per questo di scarso impatto visivo o meno artisticamente rilevante).
Morris incarna la figura del pittore che, proponendo un linguaggio che parla di cose semplici, è in grado di inserirsi a pieno titolo nel filone dell’arte contemporanea (e, perché no, in quella altrimenti detta Avanguardia).
In questo suo cosmo immaginifico fatto di brani di mondo circostante, ma anche di simboli e allegorie frutto di “follia creativa” [nella creatività c’è sempre un pizzico di follia, che non è necessariamente condizione di disagio ma di libertà, ndr.], non sapresti dire di preciso a quale movimento pittorico appartenga questo compaesano solitario e originale: se all’Impressionismo (cioè al mondo delle immagini della realtà esteriore ovvero della natura circostante) o all’Espressionismo (cioè alla rappresentazione dei colori dell’anima, a volte violenti, deflagranti senza contorni definiti e privi di chiaroscuri); se all’Art naïf (ma al di là dell’ingenuità, della spontaneità e della modestia esecutiva, in Morris non c’è la “consapevolezza” tipica di molti di quei furbacchioni che furono appunto gli artisti naïf, professionisti nel settore, e soprattutto del mercato dell’arte), o al Dadaismo (ma nemmeno. In Morris non c’è avversione alle usanze del passato, né rifiuto degli standard artistici: carta o tela, pennello e colori a cera, o a tempera, o ad acquerello sono infatti i “classici” materiali privilegiati dal suo estro creativo).
Ma le osservazioni estetiche sono elastiche, almeno quanto i giudizi etici. E se in questo come in altri casi ci dovessimo fermare alla tecnica renderemmo l’arte (e la critica d’arte) più fredda di alcune pagine di Statistica Descrittiva o di Ingegneria Meccanica (e stavo per dire anche di Economia).
Lo spirito, come l’intelletto, è libero creatore d’idee e non può essere prigioniero di schemi o rigidità formalistiche.
Questo ragazzo, magro, alto, andamento dinoccolato, con il suo modo di essere e di fare, spesso a zonzo nel paese a bordo della sua bicicletta, pronto a salutarti con un cordiale sorriso [sì, la qualità di un sorriso non è mai direttamente proporzionale alla numerosità dei denti a disposizione, ndr.] è un altro dei tesori seminascosti di Noha e dintorni da conoscere meglio, e magari rispettare di più.
E non importa se nel corso dell’ultima festa patronale nohana, Morris abbia fumato più pacchetti di sigarette di quanti quadri e dipinti della sua pinacoteca (una galleria nella galleria di luminarie) non abbia poi effettivamente venduto.
Ma chi se ne frega. L’arte è vita. Mica mercificazione capitalistica.
Antonio Mellone
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