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Articoli del 08/12/2021

Di Antonio Mellone (pubblicato @ 00:13:50 in NohaBlog, linkato 1056 volte)

In una fredda serata di esattamente vent’anni fa, era dunque l’8 dicembre 2001, un anziano prete, il volto rigato da lacrime di commozione, apriva per la prima volta davanti al suo popolo il portale ligneo di un complesso monumentale nuovo di zecca. La chiave gli fu passata a sorpresa dal vescovo, intervenuto insieme ad altri per la solenne circostanza.

Quel sacerdote era la buonanima dell’allora parroco di Noha don Donato Mellone, mentre le opere parrocchiali (cioè la grande chiesa dal tetto in legno, la cappella, la sagrestia, gli uffici, il salone seminterrato che poi divenne teatro e oratorio, le aule catechistiche, eccetera) quelle dedicate alla Madonna delle Grazie, sorte su di un sito da tempo immemore pieno di cumuli di materiale edilizio di risulta. Accanto, o meglio di fronte all’ingresso della chiesa, v’era una specie di campetto in terra battuta non regolare, dove da ragazzi noialtri provavamo a simulare il gioco del calcio all’ombra di un annoso albero di fico, per fortuna superstite, e vivo e vegeto. Adesso quel terreno è un piccolo parco comunale con alberi ed erbetta, mentre il campo di calcetto (questa volta regolamentare e con tanto di illuminazione) traslocò a una decina di metri di distanza. 

Il vecchio curato (che non aveva mai posseduto ville o palazzi, men che meno appartamenti al mare, ma soltanto due stanze più servizi in piazzetta Trisciolo, eredità dei genitori) asseriva che in quell’area di forte espansione edilizia mancava proprio “la casa più importante”, e s’era impelagato, nonostante la veneranda età (“Sono ormai ai tempi supplementari”, andava ripetendo), nell’avventura del costruirne una secondo il suo personale concetto di Casa: che era dunque Domus, vale a dire Duomo. Non fu semplice, “tanto che - come rivelò dal pulpito quella stessa sera – sembrava che a una difficoltà superata ne subentrasse un’altra, e insieme a queste lo scoraggiamento. Ma oggi qui posso dire che ce l’ho fatta. Ma non da solo. […]”. Seguì così tutta una serie di ringraziamenti, a partire dalla “direttrice dei lavori” (per lui la stessa Madonna delle Grazie, compatrona del paese), fino all’ingegnere Vincenzo Paglialunga, progettista e responsabile dell’opus, dai vescovi idruntini al popolo nohano, dai chierichetti ai collaboratori vicini e lontani. Intervenne di rimando il metropolita idruntino per dire coram populo che nel novero dei benemeriti cui render grazie mancava giusto lo stesso Don.  

Anni prima, in un quaderno d’appunti, tra le altre cose, l’antico prevosto nohano aveva manoscritto: “La chiesa è la casa della preghiera, il luogo in cui la creatura incontra il suo creatore […]. Nella chiesa tutto è sacro, tutto è santo: sacre le immagini, le reliquie, sacre perfino le mura, i santi sacramenti, la divina parola, sante le funzioni che in essa si celebrano. La casa di Dio non solo deve essere rispettata, ma in essa devono essere santi tutti i nostri pensieri, tutte le nostre opere, tutte le nostre parole”. Oggi Tomaso Montanari, da laico, sembra volergli fare eco aggiungendo: “[…] Con il loro silenzio, [le chiese] offrono una pausa al nostro caos. Con la loro gratuità, contestano la nostra fede nel mercato. Con la loro apertura a tutti, contraddicono la nostra paura delle diversità. Con la loro dimensione collettiva, mettono in crisi il nostro egoismo. Con il loro essere luoghi essenzialmente pubblici sventano la privatizzazione di ogni momento della nostra vita individuale e sociale. Con la loro viva compresenza dei tempi, smascherano la dittatura del presente.” [pag. 140, Tomaso Montanari, Chiese chiuse, Einaudi, Torino, 2021].

Uno potrebbe pensare che questo prete, superando mille difficoltà, avesse architettato il tutto per perpetuare in qualche modo il nome suo fra le future genti o per ottenere finalmente una propria effigie celebrativa nei pressi della struttura: ma né qui, né invero nella chiesa di Santa Maria al Bagno (che, stessa storia, aveva costruito e inaugurato nel 1963, qualche mese prima del trasferimento a Noha) si troverà un busto scolpito, una lapide commemorativa, una stele, una pergamena incorniciata, ma nemmeno un rigo su chi ne fosse stato l’artefice principale. Probabilmente aveva ben chiara l’inutilità di certe lastre marmoree, visto quanto da un bel po’ si continui in ogni modo a brancolare in una sorta di Alzheimer collettivo pronto a strapparci ogni giorno un frammento di memoria; e non c’è santo che tenga.

O forse don Donato in vita sua è sempre stato interessato alla semina più che alla mietitura. Da lì a poco fu ben contento di passare il testimone al nuovo parroco, il giovane don Francesco Coluccia, il quale integrò l’opera sua, oltre che con il campanile, con varie aggiunte e stratificazioni successive volte a far respirare ciò che era nato ab imis fundamentis per essere un corpo vivente e collettivo.       

Il vecchio arciprete aveva molto pregato la Vergine Madre, figlia del suo Figlio, affinché gli concedesse la grazia di vedere realizzato il sogno della sua vita. Quel santuario, l’apertura giubilare della “porta santa” locale vent’anni or sono, e tutto quel che ne è seguito, anche per fatica altrui, sono la risposta alle sue preghiere.

Antonio Mellone

 

Fotografie del 08/12/2021

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