No, non ti pare vero. Soltanto qualche giorno fa, l’avevi vista con il suo carrellino da Gerardino, il supermercato (a Noha molti negozi li riconosci dal nome del titolare), e poi da Claudio di Gilberto, e ovviamente a Messa. Oggi invece la Mimina non c’è più. Ha aspettato che finisse la Pasqua di tutti per poter poi celebrare la sua particolare.
A volte non si immagina la forza dirompente delle persone, pur umili, che vivono intorno a noi. Mimina era una di queste, semplice sì, ma rivoluzionaria. Figlia di un fornaio (dovevi vedere l’altr’anno come faceva il pane al presepe vivente: questione di Dna), Mimina fu la prima parrucchiera per signora di Noha, piccolo paesino rurale del Salento.
Un tempo le donne usavano il “tuppo” (che sarebbe lo chignon con fermagli, usato sin dai tempi dell’antica Grecia), da fare rigorosamente in casa, e possibilmente da sole, senza l’ausilio di alcun professionista. Ebbene, Mimina ebbe il coraggio di rompere un circuito ancestrale, fatto di sublime e costante ricapitolazione di una storia immobile, per portare (a Noha!) un epocale cambiamento di mentalità: così, nel corso della seconda metà degli anni ’60 diviene la parrucchiera di tutte. Introduce il lavaggio dei capelli, il taglio, i bigodini, la messa in piega, il phon a mano, e poi anche la permanente e addirittura il colore: insomma una rivoluzione con stile. Si direbbe che ha fatto mettere la testa a posto a un sacco di persone.
Questa è la Storia. E la Storia per definizione è viva.
Noha.it si stringe con affetto intorno a Gianni, Serena, Angelo e Antonella, ai rispettivi consorti, agli amati nipoti, alle clienti della Mimina nostra che trovavano in lei anche un’amica, e quanti (e sono tantissimi) pur non clienti conobbero e vollero bene a questa grande donna.
La Redazione
Il primo è un prato inglese in senso stretto, il secondo salentino. Uno sta bene certamente nel suo naturale habitat britannico, l’altro nella nostra terra. Del prato inglese sarebbe sufficiente una sola immagine, del salentino non basterebbe una galleria intera.
Il prato inglese è uniforme, monotono non crescente (anche nei sensi matematico e musicale della locuzione), regolare, tendenzialmente omogeneo, piatto; il prato salentino invece è irregolare, variegato, singolare, mai identico a se stesso.
Il prato inglese assorbe energia, il salentino te la restituisce.
Il primo mi dà l’idea di un elettrofono per suoni sintetici; il secondo di un organo con una miriade di canne, una diversa dall’altra per lunghezza, diametro, materiale timbrico e dunque vibrazioni.
L’inglese è un prato che va seminato; il salentino invece fa tutto da sé, aiutato dalla fauna amica sua. Le sementi del prato inglese devono essere relativamente “pure”, cioè non contenere “erbacce” superiori a un tot; nel prato salentino non si chiamano erbacce, ma miracoli.
Il prato inglese dev’essere trattato periodicamente con del concime; il salentino è di per sé un fertilizzante. Uno è sempre verde, l’altro arcobaleno, oltre che un caleidoscopio di profumi. Il primo, idrovoro, richiede frequenti innaffiature artificiali; il secondo si accontenta della pioggia quando c’è.
Il prato inglese è pettinato in un senso, è allineato e coperto, spesso falciato a fasce; il salentino è anarchico, ribelle, indomabile, esplosivo.
Il primo è borghese, il secondo proletario (chissà se non anche partigiano); uno è merce, l’altro è un bene. Il primo inneggia al capitale, il nostro al lavoro. Il prato inglese è gregge, il salentino egregio.
Uno, inospitale, propende per la purezza della razza; per l’altro la diversità è una ricchezza. Certe diciamo imprese, per lavarsi la coscienza, seminano all’interno dei propri spazi un prato inglese; il prato salentino, al contrario, può fare a meno dell’economia aziendale.
Il prato inglese vive perlopiù al riparo, sovente protetto da muri di cinta, cancellate, steccati; il prato salentino invece è esposto a tutto, anche alla mano sacrilega dell’uomo capace di coprirlo con discariche improvvisate, scarti pericolosi, combustibili indifferenziati, e a quella di un ministro logorroico, in grado di sfornare soltanto decretini diserbanti. Da far convertire immediatamente in legge da una maggioranza in parlamento possibilmente peggio di lui.
Antonio Mellone