gen312023
Non sarà Dotta o Grassa, come mi pare si dica ancora di Bologna, ma almeno un po’ Rossa lo è. Mi riferisco a Noha e al fatto che alcuni fra i suoi monumenti più importanti - molti seppelliti dentro uno smisurato dimenticatoio quando non in bilico tra le due locuzioni “tienimi” e “mo’ casciu”, altri per fortuna redivivi - si presentano al pubblico con le loro facciate rubiconde, dico tinte di sanguigna, vermiglie puntualizzerebbe padre Dante, e dunque ocra scarlatto tonalità ruggine porporina, con prevalenza di rosso pompeiano, gradazione nohano.
La Casa Rossa, nomen omen, è l’aedificium paonazzo con più misteri in assoluto (avrebbe voluto progettarla Antoni Gaudì: ma l’architetto del modernismo catalano dovette accontentarsi della Sagrada Familia di Barcellona), segue la Torre Civica downtown con l’orologio più fermo al mondo e a rischio frana (qui siamo nel campo del bonus sfacciati per nuance rosso-vergogna), e quinci il Cinema dei Fiori, instradato sulla via del suo calvario, e quindi il Calvario stesso, rosso-sangue, versato per noi e per tutti.
Financo la vecchia scuola elementare di piazza Ciro Menotti era tinteggiata di rosso arroventato, emblema del fuoco di chi cercava il Sapere, concetto quest’ultimo agli antipodi di ogni forma di acculturazione (acculturare, spiace ribadirlo, è verbo da Minculpop: pur diluito nella ben più passabile Coca Cola sempre di olio di ricino si tratta). Pure la distilleria Galluccio ha frontespizio in pendant con il colore del suo brandy barricato; ora ne rimane solo lo scheletro, reliquia laica in concorrenza di degrado con le Casiceddhre collocate nei paraggi svoltato l’angolo. Dall’altra parte del paese, verso sud-ovest, c’è Levéra, baluardo di resistenza, circolo culturale con teatro, sala musica, biblioteca, palestra e scuola, vivi e vegeti nello stabile di via Bellini con il colonnato istoriato di cremisi/amaranto come l’emorragia del caposcorta Antonio Montinaro, vittima salentina nella strage di Capaci.
E infine il Castello preso per i capelli appena in tempo, anzi risuscitato dopo oltre mezzo secolo di rughe, rovine, tracolli e aristocratica sciatteria. Il suo prospetto monumentale ha ritrovato colore (e calore) per la forza dell'utopia, il volere dei nuovi proprietari, il travaglio di mani e testa degli artigiani del luogo, i saggi e i dosaggi (ben cinque) di graniglia e calce impastata di rosso antico puntualmente esaminati dalla Sovrintendenza (esami, mi pare, superati cum laude): ora è in buona compagnia con i monumenti eterni sparpagliati nel resto dell’orbe, da Roma a Mosca, da Pechino a Città del Messico.
Ma a pensarci bene Noha è anche “grassa”, non nel senso esiziale del termine, ma in quello buono: relativo cioè alle leccornie e all’arte culinaria che lascia parlare prima di tutto il vitto, e poi i personaggi e gli interpreti del progressivo passaparola. E così s’annovera un ristorante giovane tra mura secolari tra i più curati del circondario, pasticcerie delle quali non sapresti descrivere la raffinatezza delle delizie, gastronomie che sembrano produrre manicaretti fatti in casa da nonna, frutteria che è galleria d’arte vitamine e vita, pescheria che ha fatto di Noha una repubblica marinara, forno cui non occorrono insegne luminose (basta il profumo del pane), pizzerie ineguagliabili che mai renderanno pan per focaccia…
Quanto infine a quel “dotta”, parliamone. Intanto non è mai questione di titoli di studio (ché anzi diplomi, lauree, dottorati, master, specializzazioni e iscrizioni agli albi si sprecano in queste contrade, rischiando talvolta di rivelarsi aggravanti di certa autoctona ottusità), ma di cittadinanza sveglia e non manipolabile, di pensiero possibilmente divergente tutt’altro che sovrapponibile a quello egemone riportato dalle fotocopie del testo unico (gentilmente elargite da stampa padronale e televisione tutta slogan e propaganda live), di osservatori attenti della realtà complessa e collegata sopra e sottotraccia a mille reazioni (incluse le avverse), invisibili alla massa dei consumatori puerilizzati dalla fiction in programma da tempo. Ma basterebbe ogni tanto smettere di delegare le proprie scelte ai “migliori”, ai “competenti”, ai “salvatori della patria”, alla “scienza”, all’“autorità” di turno, i cui effetti sono sotto gli occhi di chi ha ancora i mano il cerino acceso della ragione: chissà che non riusciremmo a risparmiarci, dico a caso, sanzioni sadomaso, mortificazione del lavoro, scemi di guerra a gogò, genuflessioni allo zio Sam, invii di armi (soprattutto portentosi boomerang), voglia spasmodica ancorché inconsapevole del fungo nucleare, e ancora tagli ai servizi sanitari, riforme ammazza-giustizia, ospitate a festival canori di tragici guitti a capo di stati esteri, mortificazione dei parlamenti e cartigienizzazione della Costituzione.
Non mi sognerei mai di affermare che per esser dotti bisognerebbe diventare rossi dentro (come un bel Mellone). Ma continuando di questo passo, con la prostituzione del pensiero, le marchette degli storici e l’imbagascimento di questa geografia, di rosso non rimarranno che le luci.
Antonio Mellone
Commenti
Lascia un messaggio