ott182010
Marcello D’Acquarica
ott142010
Il comitato di Cutrofiano (Forum Amici del Territorio) smentisce la sottoscrizione al comunicato divulgato da "Italia Nostra" e "Forum Ambiente e Salute" su Legambiente
Il "Forum Amici del Territorio", un comitato di cittadini di Cutrofiano, rappresentato dal Presidente Gianfranco Pellegrino, in merito all'articolo "Legambiente coinvolta nel business del fotovoltaico. Le associazioni denunciano", scritto in data 14 ottobre 2010, smentisce categoricamente la sottoscrizione al comunicato stampa divulgato dalle associazioni "Italia Nostra" e "Forum Ambiente e Salute" e prende le distanze sulle considerazioni ritenute personali rivolte all'associazione Legambiente stessa.
Si rende noto che il comitato, non ha ancora preso posizione sulla proposta del nuovo impianto fotovoltaico di 26 ettari a Cutrofiano, promossa da Legambiente tramite AzzeroCO2; si riserva inoltre di comunicare la propria posizione dopo aver visionato il progetto e averlo discusso nell'Assemblea dei Soci.
ott072010
Raimondo Rodia
fonte:galatina.blogolandia.it
set202010
Questa è la storia di un esproprio.
Una sentenza ingiusta, proclamata da un ignobile giudice, ci ha privato senza alcun preavviso del nostro spazio vitale, costringendoci in pochi, risicati metri quadrati. Chi non fosse a conoscenza dell’accaduto, crederebbe che queste siano le farneticazioni di un piccolo e fragile arbusto. Si sbaglia costui, perché a urlare la sua rabbia è un raggrinzito e incazzato ulivo.
Questa è la storia di un esproprio, dicevamo, ma non pensi il lettore che in codeste note si vadano a esporre le ragioni di una delle parti, quella perdente si intende. Non saremmo in grado di tenere discorsi molto lunghi allo scopo di persuadervi, non conosciamo le leggi dell’ars oratoria, né tantomeno ci intendiamo di diritto agricolo.
Il nostro è un racconto e come tale ha la sacrosanta urgenza di essere raccontato, affinché gli uomini, specie egoista per natura, si sentano in colpa in ogni singolo attimo della loro futura annaspante esistenza.
***
Albeggiava quando giunsero in sella ai loro portentosi e assordanti ronzini. La luce del sole vezzeggiava le nostre foglie argentee e la rugiada ingioiellava la fredda corteccia; una brezza leggera solleticava le nostre fronde e un brivido fulmineo, di risposta, scorreva nella linfa per tutto il tronco, portandosi sino alle radici, per poi perdersi nel terreno.
Credevo che nulla al mondo sarebbe stato in grado di dissuadermi dalla convinzione che ogni mattino è concepito nel silenzio più intimo, incontro tra la nostalgia della notte, sbiadita dalla fioca luce della luna, e la speranza del giorno, che si riflette nel nuovo sole. Quello che vidi però mi fece ricredere: gli uomini avanzavano sicuri, calpestando quella stessa natura che li aveva dato la vita, e si dirigevano proprio verso di noi.
Nel pugno di quella chiassosa offensiva venivano sbriciolate per sempre le mie certezze.
Ci guardavamo intorno, qualcuno continuava ancora a riposare indifferente ai rumori che aumentavano sempre più di intensità sino a trasformarsi in insopportabili stridori. Si fermarono davanti a me; il più anziano del gruppo senza dire una parola in quella contorta e stridula lingua umana, che ha bisogno di cambiar tono per incutere paura, fece un incomprensibile cenno con la testa. Nessuno vacillò di fronte all’incomprensibilità della richiesta: qualcosa doveva essere spostata, lì a lato, proprio accanto alla strada.
Gli ulivi tremavano nel silenzio innaturale di quell’attesa. Un albero non può piangere, bisogna avere un’anima per soffrire, e l’uomo, che il più delle volte agisce cercando di sfuggire al giudizio dei suoi pari, lo sa bene, lo ha imparato a scuola che l’albero è una “cosa”. Nessuno quindi sarà giudicato e poi condannato per aver ammucchiato una cosa.
Da inferiori entità inanimate siamo stati quindi usati, ma non è questo che fa strizzare acre olio dalle mie nere olive ribelli. Voi che ve ne state seduti, tranquilli a leggere questo mio racconto, non potete immaginare la brutalità con cui i denti di quei mastodontici espropriosauri hanno azzannato prima il terreno e poi le radici, recidendone molte, estirpandone non poche. Sentire lo scoppiettare di quelle radici che stremate abbassavano la testa dinanzi alla superiorità del loro avversario, ascoltare il pianto delle fronde degli ulivi issati come animali feriti e gettati agonizzanti in quella fossa comune, non è stata una piacevole esperienza.
Un ulivo non piange, abbiamo già ribadito, solo perché l’immaginario collettivo non glielo ha mai permesso, ma la realtà non è schiava come voi delle convenzioni umane. Poggiate un attimo l’orecchio sulla mia ruvida corteccia e sentirete il mio dolore; fermatevi anche voi a guardare la cornice decorativa di ulivi creata per ingannare voi, ma non me, e capirete la mia rabbia.
Io sono l’ultimo di una secolare famiglia di ulivi, unico superstite alla strage. Ora me ne sto dove sono sempre stato, ai margini di questo feudo, affiancato da ulivi fantocci, con lo sguardo abbassato sulle mie radici per evitare di rianimare quel fuoco che arde in ogni singolo mio vaso, alla vista di quegli stupidi alberi moderni, bassi, neri, brutti e senza frutto, che per ignoti motivi hanno rubato la terra a tanti miei simili in tutto il Salento.
Michele Stursi
set142010
set122010
set102010
NOI SIAMO PER IL FOTOVOLTAICO RAGIONATO, PER L’AUTOPRODUZIONE DI ENERGIA SUI TETTI DELLE NOSTRE CASE E PER UN VERO RISPARMIO DEI COSTI DELL’ENERGIA!
IL FOTOVOLTAICO E’ NATO PER DIFENDERE IL TERRITORIO NON PER DISTRUGGERLO, COME INVECE STANNO FACENDO NELLA NOSTRA CAMPAGNA.
NOHA dovrà sorbirsi un impianto di circa
che porterà un impoverimento del nostro territorio
E’ stata svenduta la “TERRA” di Noha, l’unica vera fonte di ricchezza per la popolazione.
COSA LASCEREMO AI NOSTRI FIGLI? Cosa mostreremo ai turisti?
I nostri padri con tanto sacrificio ci hanno tramandato fertili terre, uliveti secolari, beni culturali, vigneti, prelibatezza di prodotti, ed ora le grosse multinazionali trasformeranno tutto ciò in distese enormi di pannelli argentati!
ECCO 10 MOTIVI PER RESPINGERE L’ INVASIONE DELLA SPECULAZIONE DEL FOTOVOLTAICO AGRICOLO CHE STA PER CIRCONDARE NOHA:
1) Gli incentivi statali che incassano le società del fotovoltaico li paghiamo noi sulle bollette bimestrali della luce, senza avere alcuna riduzione dei costi dell’energia;
2) Nessuno ha il coraggio di dichiarare che estensioni così grandi e concentrate non sono dannose per la salute umana.
3) I cavi che accumulano e trasportano l’energia accumulata dai pannelli vengono interrati lungo strade e sentieri che i cittadini hanno la necessità di percorrere e sono la fonte di campi magnetici;
4) Grandi estensioni concentrate di pannelli di silicio sovvertono il microclima, disturbano la fauna e le migrazioni.
5) I costi per lo smaltimento dei materiali scaduti (gli impianti si esauriscono dopo 10-15 anni) e per il ripristino della terra sono altissimi, molto ma molto superiore all’introito economico ricavato dagli affitti.
6) Per impedire alla vegetazione di crescere avvelenano la terra inquinando le falde acquifere, l’acqua che è il nostro bene più prezioso insieme alla terra ed all’aria!
7) Grandi estensioni di pannelli di silicio concentrate in una stessa area desertificano (TIPO DESERTO DEL SHARA) le campagne un tempo rigogliose;
8) Le grandi estensioni di campi di fotovoltaico impoveriscono economicamente il territorio in quanto sottraggono terra all’agricoltura;
9) Non danno diretti posti di lavoro, ma accrescono il precariato;
10) I miseri benefici che ne derivano alle amministrazioni non sono minimamente comparabili con il sacrificio che subisce la terra e la popolazione.
Il Comitato
set062010
Tira una brutta aria eolica, per le ninfe e i fanciulli che da millenni vivono tra gli ulivi secolari del meraviglioso colle San Giovanni a Giuggianello: non hanno i timbri in regola. C' è chi dirà: ma se ne hanno scritto Nicandro e Ovidio e probabilmente pure Aristotele! Fa niente: non hanno i timbri in regola. Lo dice una sentenza del Consiglio di Stato. Secondo il quale un posto può anche essere la culla della memoria magica di un popolo ma se non ha le carte in regola, cioè un timbro della sovrintendenza che dice che effettivamente è la culla della memoria magica di un popolo, non ha diritto a tutele. Testuale: «A prescindere dal fatto che tali miti e leggende non risultano essere stati individuati da un provvedimento legislativo, non si vede come l' impianto degli aerogeneratori possa interferire su tale patrimonio culturale». Appunto: «non si vede». Nel senso che i giudici non hanno «visto» l' area in cui dovrebbero sorgere le immense pale eoliche se non sulla carta. Perché certo non avrebbero mai potuto scrivere una cosa simile se fossero saliti su queste colline dolci che hanno incantato nei secoli i viaggiatori. Se avessero visto, scavata nella viva roccia, l' antica e commovente chiesetta rupestre di San Giovanni. Se si fossero fermati davanti a questi massi enormi dalle forme incredibili che scatenarono le fantasie e la devozione dei nostri avi. Se avessero camminato all' ombra di questi ulivi grandiosi. Come può un paradiso bucolico come questo non essere devastato da 12 pale eoliche alte 80 metri cioè quanto 12 palazzine di 25 piani? Eppure questo, salvo miracoli, è il destino della Collina dei Fanciulli e delle Ninfe a Giuggianello, pochi chilometri a sud della strada che da Maglie porta a Otranto, nel Salento. Non è un punto qualunque sulla carta geografica, questa collina. Come spiega l' ambientalista Oreste Caroppo in un delizioso saggio, è conosciuto «l' Acropoli della civiltà messapico-salentina antica». Qui sono ambientate da migliaia di anni leggende riprese da Nicandro di Colofone: «Si favoleggia dunque che nel paese dei Messapi presso le cosiddette "Rocce Sacre" fossero apparse un giorno delle ninfe che danzavano, e che i figli dei Messapi, abbandonate le loro greggi per andare a guardare, avessero detto che essi sapevano danzare meglio. Queste parole punsero sul vivo le ninfe e si fece una gara per stabilire chi sapesse meglio danzare. I fanciulli, non rendendosi conto di gareggiare con esseri divini, danzarono come se stessero misurandosi con delle coetanee di stirpe mortale; e il loro modo di danzare era quello, rozzo, proprio dei pastori; quello delle ninfe, invece, fu di una bellezza suprema. Esse trionfarono dunque sui fanciulli nella danza e rivolte ad essi dissero: "Giovani dissennati, avete voluto gareggiare con le ninfe e ora che siete stati vinti ne pagherete il fio". E i fanciulli si trasformarono in alberi, nel luogo stesso in cui stavano, presso il santuario delle ninfe. E ancora oggi, la notte, si sente uscire dai tronchi una voce, come di gente che geme; e il luogo viene chiamato "Delle Ninfe e dei Fanciulli"». Un mito rilanciato, come dicevamo, da Publio Ovidio Nasone. E trattato anche nel Corpus Aristotelico dove si accenna al salentino Sasso di Eracle: «Presso il Capo Iapigio vi è anche una pietra enorme, che dicono venne da Eracle sollevata e spostata, addirittura con un sol dito». E coltivato dai contadini della zona che raccomandavano ai figlioletti di non andare a giocare alle rocce del «Letto della vecchia», del «Sasso di Eracle» e del «Piede di Ercole», spiega Caroppo, perché potevano «apparire loro le fate» e chissà quale incantesimo erano capaci di fare. Leggende. Ma nessuno, un tempo, avrebbe osato profanare un sacrario della memoria antica come questo. Così come nessuno avrebbe osato abbattere migliaia di ulivi stuprando quella che da secoli è l' immagine stessa del Salento. Marcello Seclì, presidente della sezione salentina di Italia Nostra, non si dà pace mentre ci trascina tra i viottoli delle campagne tra Parabita e Gallipoli e poi a Scorrano e a sud di Maglie e mostra come intere colline siano state tappezzate da quell' altra forma di violenza alla natura che possono essere le distese sterminate di pannelli fotovoltaici. Pannelli bruttissimi. Giganteschi. Tirati su senza rispetto per la natura. Per la fatica dei nostri nonni che piantarono gli ulivi sradicati. Per la vocazione turistica dell' area. Fa impressione rileggere oggi quel che mezzo secolo fa scriveva sul «Corriere» Alberto Cavallari parlando del Salento come del «più bel paesaggio d' Italia»: «Sorgono nel leccese i paesi più affascinanti del Sud, come Nardò, o la città morta di Otranto. Restano infatti i borghi civili, asciugati dal mare e dal vento, nitidi come la loro povertà. Le coste, spesso frastagliate nello scoglio, non sono ancora deturpate: sono piene di grotte, leggendarie e favolose, mentre lontano si vedono le "pagliare" dei pastori, e i riverberi, i luccichii dei due mari (come una volta scrisse Piovene) "sembrano quasi incontrarsi a mezz' aria" nel punto in cui l' Italia finisce, o meglio sfinisce, dentro l' atmosfera di un miraggio». Non aveva dubbi, Cavallari: «Difendere questa provincia e conservarla è così certo l' unico modo di fare della buona economia». Questo doveva fare, il Salento: puntare su «un turismo di classe, come quello che si svolge in Grecia, redditizio e ricco, e certo meglio di un' industrializzazione assurda e asfittica». I dati di questi giorni dicono che il turismo è davvero la chiave della ricchezza salentina. L' Apt gongola sventolando un aumento del 5%, che in questi tempi di magra vale doppio. E contribuisce a «collocare il Salento ai vertici della classifica nazionale». Italiani, soprattutto. Ma anche tanti stranieri. In testa tedeschi, francesi e inglesi. Vengono per vedere la cattedrale di Otranto e inginocchiarsi davanti alle reliquie dei morti nella strage del 1480 ed emozionarsi nel leggere che il corpo senza testa di Antonio Pezzulla detto il Primaldo, il primo degli ottocento martiri di Otranto a venire decapitato per ordine del Gran Visir Achmet «lo Sdentato», «si alzò e restò in piedi fino al termine della strage e non ci fu forza che valesse ad atterrarlo». E poi vengono per le orecchiette e i turcinieddhri e le ' ncarteddhrate e tutte le altre leccornie della formidabile cucina salentina e il suo olio e il suo vino. E vengono per la notte della Taranta, quando a fine agosto accorrono in decine di migliaia a Melpignano per ballare e ballare fino a uscir di senno con la «pizzica pizzica». Ma verrebbero ancora, se il Salento fosse definitivamente stravolto da una edilizia aggressiva che ha già deturpato parte delle sue coste come a Porto Cesareo, San Cataldo o Ugento? Se le distese di ulivi che costituiscono la sua essenza fossero sistematicamente rase al suolo? Se questo panorama che trae la sua bellezza non dalla vertigine delle vette dolomitiche ma dalla dolcezza delle distese appena ondulate venisse trafitto da centinaia e centinaia di pale eoliche? «Lecce, città dell' arte, / se ne infischia / di chi arriva e di chi parte», dice un vecchio ritornello usato dagli antifascisti il giorno in cui Achille Starace, il braccio destro di Mussolini che era nato a Sannicola, tornò in pompa magna della terra natia. E per certi versi la città è rimasta così come la vide Cavallari. Una città «aristocratica, spagnolesca, narcisista». In qualche modo «tagliata fuori dalla Puglia dinamica». Dove, nonostante l' orrore di certi quartieri residenziali e la bruttura della ragnatela di cavi neri che dovrebbe servire la metropolitana di superficie incompiuta da un mucchio di anni, è ancora emozionante camminare tra pietre e chiese di rara eleganza. Il problema di chi arriverà ancora e di chi se ne andrà, però, esiste. E dipende dal rischio di un' accentuazione del degrado paesaggistico. Cinquantuno anni dopo, il reportage a puntate lungo le coste scritto da Pier Paolo Pasolini per la rivista «Successo» e riproposto nella versione integrale con il titolo «La lunga strada di sabbia» da Contrasto, va riletto: «In quello slanciato ammasso di case bianche, inanellato da lungomari e da moli, la gente vive una vita autonoma, quasi ricca, si direbbe, quasi non ci fosse soluzione di continuità con qualche periodo della storia antica, che io non so, né faccio in tempo a capire: il demone del viaggio mi sospinge giù, verso la punta estrema. Ci si arriva lentamente, mentre intorno la regione si trasforma, si muove in piccole ondulazioni, si ricopre d' ulivi. Santa Maria di Leuca si stende lungo il mare con una fila di villini liberty, lussuosi, rosei e bianchi, incrostati d' ornamenti, circondati da giardinetti...» Fece una gran fatica, PPP, «nel sole feroce» ad arrivare fino alla punta estrema del tacco d' Italia, fino a questo splendido promontorio dove, come ha scritto Giuseppe Salvaggiulo nel libro collettivo «La colata» scritto con Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve e Ferruccio Sansa, «sei ancora sulla terra, ma ti senti già in mare». E forse proprio per questo tanti viaggiatori ci vengono ancora: perché non è alla portata di tutti, appena fuori da uno svincolo autostradale come tanti vacanzifici traboccanti di discoteche, bazar e McDonald. Perché arrivarci costa fatica. E questa fatica appare loro in qualche modo obbligata per assaporare il gran premio finale: la vista su un mare di una bellezza che ti mozza il fiato. Diceva il poeta e saggista Franco Antonicelli, in occasione di un lontano viaggio con Italo Calvino: «Anche Reggio Calabria è alla fine della penisola, ma subito dopo c' è l' isola e subito dopo l' Africa; non c' e tempo di perdersi. Ma a Leuca sì...» Di là del promontorio c' è il mare. Solo il mare. «Uffa!», sbottano gli «sviluppisti». E dicono che no, anche il luogo più lontano d' Italia, quello che partecipò al processo unitario solo con Liborio Romano, di cui parla Nico Perrone, deve essere collegato al resto del mondo con una superstrada. Un' arteria che dovrebbe partire da Maglie e scendere giù per 40 chilometri, con le sue 4 corsie per 22 metri complessivi e un viadotto di 500 metri su 26 piloni di cemento fino a una mastodontica rotonda del diametro di 450 metri, lunga un chilometro e mezzo, che intrappola un' area estesa quanto 23 campi di calcio. Una mostruosità, dicono gli ambientalisti. Che stanno dando battaglia a colpi di ricorsi un po' a tutto. Alla superstrada voluta da Raffaele Fitto, il giovane ministro amatissimo da Berlusconi e figlio di quella Maglie che in passato aveva dato all' Italia uomini della statura di Aldo Moro. A ulteriori cementificazioni di coste già abbruttite da lottizzazioni selvagge. Al progetto spropositato di quadruplicare il santuario di Santa Maria de Finibus Terrae svettante su Santa Maria di Leuca e farne un edificio (citiamo ancora «La colata») di «ventiduemila metri cubi eretti su una superficie grande la metà di un campo di calcio per ospitare otto celebrazioni giornaliere, presbiterio con annesso palco per quaranta sacerdoti concelebranti, penitenzieria con almeno dieci postazioni confessionali, aule per catechesi e attività connesse».. Battaglie difficili. Segnate a volte da sconfitte sconcertanti. Come quella della sentenza sulla Collina delle ninfe che ribaltava il verdetto del Tar che aveva accolto in pieno la tesi dell' avvocato Valeria Pellegrino spiegando che l' impianto eolico andava bloccato perché quei miti e quelle leggende millenarie avevano determinato «un legame tra le popolazioni che ruotano attorno all' area de qua che va ben oltre la percezione visiva e dunque fisica dei luoghi». O come un altro verdetto del Consiglio di Stato che, anche qui ribaltando il precedente giudizio del Tar che dava ragione all' avvocato di Italia Nostra Donato Saracino, ha accolto le tesi della società tedesca Schuco International. La quale aveva comprato terreni a Scorrano per metterci un mare di pannelli fotovoltaici per un totale di una quindicina di megawatt. Un impianto enorme. Frazionato in quattro pezzi diversi, con una furbizia «all' italiana», per stare al di sotto di certi limiti ed evitare la grana della Via, la valutazione dell' impatto ambientale. Vi chiederete: come mai anche i tedeschi vengono a investire nel Salento? Perché nel nostro Paese del Sole, dove fino al 2006 si produceva con i pannelli 70 volte meno che nella «grigia» Germania, è stata fatta una scoperta: il «solare» può essere una manna. I dati dicono che nel 2009 l' elettricità da fonti rinnovabili è aumentata del 13%. Ma se l' eolico ha avuto una crescita del 35%, il fotovoltaico ha registrato in dodici mesi un boom: + 418%. Tredici volte di più. Sia chiaro: come per le pale eoliche, anche per il fotovoltaico vale lo stesso discorso. C' è modo e modo, c' è luogo e luogo. Gli incentivi, qui, sono faraonici. Come in nessun Paese al mondo. In base alle regole introdotte nel 2007, per esempio, si prendono i soldi per l' elettricità prodotta anche per impianti microscopici. E tutto si scarica sulle tariffe: più energia rinnovabile viene prodotta, più le bollette sono care. La progressione è geometrica. Nel 2008 gli incentivi fotovoltaici hanno pesato sugli utenti per 110 milioni di euro? L' anno seguente sono triplicati: 344. Ovvero un sesto di quanto abbiamo speso per incentivare le fonti rinnovabili: oltre 2 miliardi di euro. Conto salito nel 2010 a 3 miliardi. «Quasi il 10% - ha detto il presidente dell' Autorità per l' Energia Alessandro Ortis -, dell' intero costo del sistema elettrico» nazionale perché «l' incentivo medio risulta pari a circa il doppio del valore dell' energia prodotta. Così paghiamo l' energia incentivata 3 volte quella convenzionale». E questo in un Paese dove già prima dell' esplosione di questo business le bollette erano le più care d' Europa. Ma è niente, rispetto alle previsioni dell' authority. La quale ipotizza, nel caso di raggiungimento degli obiettivi assegnati per il 2020 da Bruxelles ai vari Stati europei, una spesa aggiuntiva astronomica a carico di chi paga la bolletta: cinque miliardi l' anno per il 2015, sette per il 2020. Dei quali metà per i soli pannelli fotovoltaici. E questo, dice l' Autorità per l' energia, anche nel caso in cui gli incentivi vengano ridotti via via al 50%. Il guaio supplementare è che in un territorio urbanizzato come quello italiano, i pannelli finiscono per rubare terreni all' agricoltura. Alla faccia dei dubbi che già negli anni Novanta aveva manifestato Carlo Rubbia secondo il quale «per soddisfare la metà del nostro futuro fabbisogno elettrico con l' energia solare servirebbero circa 22.000 chilometri quadrati di pannelli, un' area grande più o meno quanto tutta la Sardegna». Ma sapete com' è fatta l' Italia: o tutto o niente. Così, dal totale disinteresse per le fonti rinnovabili, si è passati a un eccesso di incentivi. Mettetevi nei panni di un agricoltore: perché dovrebbe arare, seminare e trebbiare quando è molto meno faticoso e più redditizio riempire un campo di pannelli? E rieccoci in Puglia e nel Salento. Dove a chi installa meno d' un megawatt è sufficiente presentare, come abbiamo visto, una semplice Dia. Se la regione con più impianti fotovoltaici è la Lombardia (13.617), seguita da Emilia Romagna, Veneto e Piemonte, la Puglia è quella che produce di più: 295 megawatt, dei quali 239 prodotti da 497 impianti collocati su terreni agricoli, per una superficie di 358 ettari. Viene dalla Puglia il 20% circa di tutta l' energia solare italiana, pari a 1.509 megawatt: potenza che richiede oltre 2.250 ettari di pannelli. Il Salento contribuisce alla produzione pugliese col 30%: vale a dire 87,6 megawatt, dei quali ben 76,6 su 115 ettari «rubati» all' agricoltura. Ma sono dati ufficiali che per Marcello Seclì sono già sfigurati dai nuovi impianti: «Il boom è nella seconda metà del 2009. In provincia di Lecce, secondo noi, sono già stati impegnati 2000 ettari, per la maggior parte non ancora collegati». E potete scommettere che la corsa non cesserà molto presto. I nuovi incentivi stabiliti dal ministero per lo Sviluppo economico da mesi occupato ad interim da Berlusconi, variano da un minimo di 28 a un massimo di 44 centesimi di euro al chilovattora. Da quattro a sei volte più del prezzo medio (7 centesimi) dell' energia elettrica prodotta con sistemi tradizionali. Avanti così, perché un contadino dovrebbe piegare la schiena sulla terra?
fonte: http://archiviostorico.corriere.it/2010/agosto/28/
Pannelli_solari_pale_tra_gli_co_9_100828006.shtml
RIZZO SERGIO, STELLA GIAN ANTONIO
set022010