A inizio primavera dello scorso anno venivo assolto dal tribunale di Lecce nel processo durato un lustro abbondante – rito abbreviato, eh - scaturito dall’ennesima querela un tantino temeraria vergata da un personaggio politico di non so più quale partito (probabilmente un emulo del maestro matteo renzi), per via di una delle mie Fette di Mellone andatagli di traverso. Si conoscono pure le motivazioni di codesta assoluzione (in pratica il giudice sentenziò che il reato di satira non esiste né in dottrina né in giurisprudenza), ma molti ignorano il drammatico dibattimento avvenuto in aula tra le parti in causa. Soltanto di recente ho rinvenuto (invero fortuitamente) il resoconto stenografico di quell’udienza della quale, ai sensi del combinato disposto della riforma Cartabia e del decretino Nordio, sono costretto a riportare qui di seguito solo qualche stralcio preventivamente approvato dal Minculpop: pensieri, parole, papere e omissis che forse ci consentiranno di cogliere il succo di quel giudizio, passato ormai agli annali della giustizia come Processo alle Invenzioni, o più semplicemente Pro Cesso.
Giudice togato: “La parola dunque alla parte offesa”.
Parte Offesa, inscenando un attacco alla Filomena Marturano: “Signor giudice ho dovuto denunciare più volte questo deficiente, nonché stupido, perché è una persona povera, dico io, misera di contenuti, non è nessuno, ha stancato tutti, e si permette di coglionare la gente [chiedo venia per gente, ndr.]. Statti a casa tua! E poi dice che io o probblemi con la grammatica è la sintassi è pure con l’orografia. Insomma ha cercato di farmi passare per un utile idiota della politica”. Imputato: “Mea culpa, signor giudice, temo di aver esagerato con l’utile”.
Giudice: “Al di là del lessico impressionistico e di codeste comprensibili reazioni da racconto picaresco, così su due piedi darei il 41bis al qui presente imputato, non tanto per il vizio di schernire tutti, dalla A di avvocato alla Z di zampognaro passando per la S di sindaco, quanto per la prolissità del pezzo, benché a tratti addirittura erudito”. Un testimone dell’accusa: “Sissignore giudice, se io sarei in lei glielo tagliassi proprio quel dito”.
Pubblico ministero: “Spiacente, ma lei non può parlare”. Uditore giudiziario: “Ed è davvero un bel peccato, signor giudice, che a causa di questo dito abbreviato (hihihi) non possiamo ascoltare i testimoni qui intervenuti in massa (s’immagini lo spettacolo). I quali, per la prima volta in assoluto nella storia del diritto di procedura penale, avrebbero potuto testimoniare non sui fatti bensì su che cosa di preciso avessero compreso del testo incriminato. Immagino siano stati selezionati tra i migliori esegeti della piazza”. Altro teste, sovrastando tutti gli altri dall’alto del suo master in movida da centro storico: “Mo’ pure esegeti siamo diventati: secondo me ‘sti giudici sono pappa e ciccia con il malvivente alla sbarra”.
Giudice: “Silenzio o faccio sgomberare l’aula ‘sta matina!”.
Avvocato del querelante: “Signor giudice, è l’ora delle decisioni irrevocabili! È ora di smetterla. È ora di dire basta a chi non gli va mai bene niente! È ora di colpirne uno per educarne cento! È ora di mettere un bavaglio a queste voci sempre dissonanti, fuori dal coro, IR-RI-VE-REN-TI! È l’ora della censura. Vincere, e vinceremo!”. Imputato: “La solita giustizia a orologeria”.
Pubblico ministero: “C’è anche un ulteriore dato che è di fatto un’aggravante: le Fette di Mellone su Noha.it fanno più visualizzazioni di un necrologio”. Imputato: “Beh, si tratta pur sempre del de Cuius di turno (e talvolta pure di qualche de Cuiones di complemento)”.
Difensore dell’imputato: “Quindi, senza offesa per nessuno, e se ho ben capito, sarebbe il caso di raddoppiare le pene previste, anzi elevarle al quadrato, sdoganando finalmente la famosa locuzione eversiva ‘pene-pene’”. Cancelliere: “Avvocato, per favore non sia incontinente pure lei: ‘pene-pene’ è incostituzionale nella nostra repubblica politically correct delle banane. Anzi questa la devo proprio cancellare (se no che cancelliere sarei)”.
Giudice: “Mena meh: arriviamo alle conclusioni, ché oggi ho altri ventidue processi in bacheca, cioè a ruolo. Dunque la parola dapprima al pubblico ministero, e a seguire all’avvocato della parte lesa: lesa maestà, per la precisione”.
Pubblico Ministero: “Signor presidente, oggi niente requisitoria da parte mia: basta e avanza l’arringa del difensore del reo confesso”. Imputato: “Stiamo freschi, cioè al fresco. Si vede proprio che ho scelto dall’albo il principe del foro (foro nel senso di buco, vuoto, crepa)”.
Avvocato del querelante: “Io chiedo una condanna esemplare per questo avanzo di galera: dico carcere duro, daspo, pubblica gogna, e soprattutto un risarcimento a titolo di danno emergente e lucro cessante di 100.000 euro - s’intende da riportare tutti rigorosamente in dichiarazione dei redditi. Anzi, mi voglio rovinare, facciamo 30.000 e non se ne parli più”. Giudice: “Ma non è che per caso, come disse poco fa un mio collega magistrato, avete scambiato questo tribunale per un bancomat?”.
[Continua a brevissimo con la seconda e ultima parte].
Antonio Mellone