Da quanti punti di vista è possibile ammirare le bellezze della nostra terra? Qual è l’altezza giusta o l’altra città da raggiungere per rendersi conto che quello che sino all’altro giorno ci circondava era unico? Qual è l’angolo giusto, il cono di luce appropriato, la giusta misura di apertura dell’obiettivo, il ritmo corretto di vibrazione delle ciglia, per riuscire a scorgerne anche gli aspetti negativi? Tanti e a tal punto sofisticati sono gli accorgimenti da adottare per un’osservazione attenta e critica di quella terra divenuta luogo della nostra esistenza.
È proprio dall’osservazione, a mio parere, che occorre ripartire per costruire un futuro diverso attorno a noi. E l’arte ci può essere d’aiuto. Vi proponiamo quindi un video in cui gli scatti dell’artista salentino Gianfranco Budano vengono sontuosamente abbinati alle note di una composizione del musicista francese René Aubry dal titolo Salento (Plaisirs d’amour, 1998). Ovviamente non poteva mancare l’estratto letterario da un’opera che racconta il Salento, questa volta attraverso la voce di chi sente il bisogno fisico del ritorno alla propria terra: parliamo di “Lecce-Ravenna Andata e ritorno” del conterraneo Maurizio Monte (pagg. 78-80, Edizioni Clandestine, 2006).
Sono cresciuto con un Dio che non era solo quello circoscritto da una religione preposta a farmelo sostenere come fosse una squadra di calcio.
Ora lo respingevo, ma in cuor mio sapevo che prima o poi sarebbero riemersi gli originari sentimenti.
Si fa fatica a non credere a qualche forma di provvidenza divina quando sei cresciuto all’ombra degli ulivi più generosi del pianeta, quando hai visto fiorire i mandorli a Gennaio, quando ti sei inebriato dell’odore di un vigneto ricchissimo, specchiandoti negli occhi di una ragazza sincera.
Ti si è rivelato tutto e delle certezze scientifiche non sai che farne…
Tuttavia, crisi mistica e frisellate a parte, di quella estate sponda sud-est ho pochi aneddoti da raccontare, trascorsa come fu fra incoscienti corse in moto su una litoranea arroventata dal vento d’Africa, gioia dei rettili che popolano i suoi muretti a secco, romantici confini di paradisiache combinazioni floreali.
Contemplando quel panorama straordinario, mescolavo il mio infinito amore per quella terra alla critica più feroce verso quanti non riuscivano ad amarla alla stessa maniera.
A ora di pranzo salutavo la campagna e rincasavo sempre, i piatti della mamma avevano priorità su tutto, per chi vive fuori sono veri e propri momenti di culto.
Parcheggiavo sul pianerottolo di casa una moto che sembrava un pit bull incazzato e il ticchettio che emetteva il metallo dilatato si protraeva per ore tra il rimuginare di mio zio, l’incredibile Ucciu, e una temperatura che di certo non favoriva il raffreddamento.
Lo zio alludeva malandrino alle mie bravate, scuotendo il capo col sorriso marpione di chi si è arroventato sotto il sole della campagna, ma ha scandito le ore della giornata tracannando il vino rosso della propria vigna.
Impersonificava perfettamente il contadino del Salento: copricapo di paglia, canotta celestina bucata qua e là e jeans tagliati ad altezza di cosce lucide e sì scolpite da richiamare quelle marmoree del David.
Agile e forte, conosceva bene quel caldo solido che mi costringeva spesso a rallentare e mandare giù a pieni polmoni, pollini miracolosi alla mia causa.
Coltivava la terra con attrezzi primordiali, reticente verso i mezzi moderni, era convinto che bastava andare a letto presto per non averne bisogno.
Mangiava le sue verdure, i suoi ortaggi e la sera passeggiava vicino casa immerso nei suoi pensieri a mo’ di digestivo, con le mani rigorosamente dietro la schiena in un tipico atteggiamento meridionale ereditato dai filosofi greci.
Non credo che l’incredibile Ucciu fosse meno felice di Rupert Murdoch o Bill Gates…
Non conosceva una parola di inglese, per lui era un’impresa anche comunicare in italiano ma non gliene importava minimamente perché sapeva che non era conoscendo il significato della parola “software” che si vive meglio.
A lui bastava il dialetto per comunicare con chiunque, se proprio era necessario farlo.
Spero che il mondo capisca presto che “allargare i propri orizzonti” non significa prendere tre lauree e conoscere sette lingue aspirando alla vita newyorkese.
Lo zio era un re: respirava la sua aria, quel mischione di pollini marini e rurali, l’odore di quel putridume di vita passata, comunemente detto terra.
Ognuna sprigiona il proprio respiro e per capirne l’importanza dell’essenza, devi allontanartene.
Quando ci ritornerai, riconoscerlo sarà il più naturale degli esercizi, nonché un piacere indicibile.
Michele Stursi