Andammo dunque sul
battuto candido dell’antica via
con negli occhi
il sole della speranza.
Leggiadro e libero flirtava il maestrale
e già nel cielo s’udivano
in gran concerto fremiti e garriti
di chi s’avventurava come noi
negl’ingenui sogni della primavera.
Lo scandire di una dolce melodia
l’una e l’altra novità lodava
il tempo innocente degli
infiniti noi e il Parsifal
di quei cavalieri simili a Dei.
L’incanto del ricordo
di quel tempo è sommo,
mentre l’inganno già s’insinuava
sulle imperturbabili colonne scure
di una cattedrale simbolo
di umile preghiera.
La verità brusca, a mo’ di sparviero impavido, si staccava rapida
dalla presa incerta,
costretta nel nostro retto pedalare.
Roteando attorno a quella che
nient’altro era se non l’opera infinita,
fluttuava leggera in alto,
su nell’azzurro cielo.
Finì così per cogliere visione della
rigogliosa e verde mia campagna
e la tortuosa via che la voleva
brutalmente soffocare.
Volai anch’io sull’onda di
quel pindarico fluttuare
fino a scorgere nel prossimo
venturo lo scempio di una storia
millenaria stravolto da così tanta
crudele e ignobile irriverenza
agli avi, ai posteri e
alla Divina Provvidenza.
Marcello D’Acquarica
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