mar192020
Per uscire un po’ dall’Argomento Unico del momento ho deciso di parlarvi di una donna sbalorditiva: Lydia, con la y, classe 1923 (la stessa di mio padre). Ora, quando si parla di Lydia Buticchi non si può non far riferimento a Roberto Franceschi, suo figlio. Voglio dire che non può esistere una senza l’altro: e non c’è Roberto senza Lydia.
Considero Roberto Franceschi come un mio compagno di Università, ma con un particolare: quando nell’87 ho iniziato a frequentarla io, la Bocconi, Roberto Franceschi era ormai il nome di una della aule più grandi del mio ateneo, nonché un megalito però d’acciaio di sette metri d’altezza, issato dieci anni prima all’angolo tra via Sarfatti e via Bocconi dove, a un fischio, precisamente al numero 12, si trovava e si trova tuttavia il pensionato universitario (che mi accolse nelle sue braccia premurose per i quattro anni della magistrale).
Quel monumentale maglio di ferro e carbonio (immagino ve ne siano di uguali solo all’Ilva di Taranto) sorge in memoriam sul luogo dove, la sera del 23 gennaio del 1973, nel corso di una manifestazione organizzata dal Movimento Studentesco, Roberto Franceschi fu colpito alla nuca da un proiettile partito puta caso da un’arma del III reparto Celere di Rumor, ministro del secondo (di una serie troppo lunga) governo Andreotti.
Roberto avrebbe potuto benissimo fregarsene, evitare di esporsi, vivere una vita agiata che la sua famiglia diciamo borghese (mamma Lydia, preside, papà Mario, dirigente d’azienda) gli avrebbe certamente assicurato, e poi fare carriera, magari nella stessa alma mater studiorum: quel ventunenne, colto com’era, aveva d’altronde tutte le carte in regola, una sfilza di trenta sul libretto, capacità di analisi e oratoria brillante.
Insomma la sera maledetta di quell’omicidio di stato Roberto aveva pure il biglietto per il teatro, con mamma, papà e fidanzata. Invece vi rinuncia. Preferisce il Comitato, l’Assemblea serale in Bocconi, la Manifestazione di studenti, operai e militanti a favore dei diritti sociali così invisi al Potere. Sì, Roberto Franceschi è così, un “diversamente bocconiano” (come dice Nando dalla Chiesa, mio prof di Sociologia), di quelli che la rivoluzione la portano nella pancia di un’università benemerita per la floridezza degli studi e la severità nella formazione, ma che ha la nomea di essere un segmento del Capitale. Ma si sappia, per inciso, che ogni rivoluzione parte da una presa di coscienza, e che il primo passo di una lotta è lo studio rigoroso di teoria e fenomeni, in qualunque sede questo avvenga.
Roberto Franceschi aveva succhiato da mamma Lydia il latte dell’antifascismo. È Lydia che gl’insegna il diritto del verbo contrario, il brio della lotta, la necessità della resistenza. Lydia prende la parola nelle assemblee studentesche (la democrazia è anzitutto discussione, mica decisionismo), spiega l’urgenza del pensiero critico, dà sempre la precedenza alla dignità e mai ai poteri (ché, si sa, non ve n’è di buoni).
Dopo la morte di Roberto avvenuta al Policlinico alla fine di una settimana di veglia continua diurna e notturna da parte dei genitori, Lydia dà l’assenso ai suoi funerali pubblici. Saranno civili, laici, silenziosi, senza la retorica dei discorsi solenni. Arriveranno poi a migliaia gli universitari, gli operai delle fabbriche, le bandiere rosse senza scritte, i pugni in aria, le mani strette le une alle altre: è la coscienza di classe che sfila a testa alta come un novello Quarto Stato in una Milano serrata, muta, agghiacciata.
Gli anni a seguire saranno quelli dei tribunali. Decenni di ritardi, rinvii, depistaggi, insabbiamenti, i “non ricordo”, e la finale insufficienza di prove. Sembra quasi che questo figlio si sia suicidato sparandosi alla nuca da lontano. Lydia, sempre presente in aula, ricorre, s’appella, chiede udienza, l’ottiene: il Diritto non può essere messo in quarantena.
Arriverà la giustizia, certo, ma sarà in minuscolo, sotto forma di risarcimento danni. Troppo poco per la vita di un uomo. Nulla per la vita di un figlio. Con questa somma Lydia darà vita alla Fondazione Roberto Franceschi.
Un modo per evitare il seppellimento di chi, grazie anche a una madre, non è mai morto.
Antonio Mellone
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