feb212018
Tre anni fa, come oggi, don Donato si congedava da questa vita quando mancava qualche mese al compimento del suo novantesimo genetliaco.
Non voglio mancare all’ormai tradizionale appuntamento nel proporvi, per l’occasione, qualche ricordo, l’immancabile aneddoto (vero), e dunque qualche flash su stile e taglio della sua personalità.
Orbene, trovandoci ora nel bel mezzo dell’ennesima campagna elettorale, mi sembra d’uopo trattare il tema dei rapporti tra l’antico parroco di Noha e la cosiddetta politica.
E qui non posso tacere un dato incontrovertibile: e cioè il fatto che nel corso degli anni cinquanta, sessanta e anche settanta del secolo scorso (e, a pensarci bene, anche degli anni ottanta e novanta) il nemico politico numero uno da battere era il Comunismo. Alla Falce e Martello bisognava contrapporre la Croce. Possibilmente quella della Democrazia Cristiana (il cui slogan era appunto: Metti croce su croce).
Nei paesi rurali del Salento la voce del parroco era la più ascoltata. L’arciprete era il consigliere, l’informatore, il tramite attraverso il quale passava tutto quanto vi fosse di “cose buone e giuste” da far sapere ai fedeli.
Tuttavia, i politici, specialmente di centro e di destra, che prima delle votazioni facevano anticamera in sagrestia nella speranza di ottenere l’appoggio del curato di Noha, spesso andavano via a mani vuote. E questo non tanto perché il prevosto nohano fosse di sinistra (figurarsi), ma perché don Donato, discreto com’era e soprattutto rispettoso del libero pensiero di tutti, fu sempre consapevole del fatto che il parroco dovesse fare solo il parroco, senza deformazioni o straripamenti nelle beghe partitocratiche o nei fatti dello Stato.
Oltretutto non era nelle sue corde fare comizi o arringhe o réclame per questo o quel candidato. Le sue omelie e i suoi discorsi [di cui esattamente dieci anni fa, all’insaputa dell’autore, curai una raccolta in una credo bella edizione, ndr.] avevano l’andatura di una catechesi, spesso arricchita da aneddotica o da esempi tratti dall’agiografia (il tutto esposto in maniera semplice, senza voli pindarici o elucubrazioni metafisiche).
Insomma voglio dire che la sua fisionomia di parroco non è mai stata deformata in quella del politicante (e men che meno in quella del faccendiere o dell’impresario rampante). Senza dubbio, i suoi più alti interventi politici furono la prudenza, la riservatezza, la sua capacità di ascoltare e soprattutto quella di tacere.
Detto questo non posso non ricordare qui, per mia testimonianza diretta, un fatto legato ad una delle storiche (riuscitissime) Feste dell’Unità nohane, sponsorizzate dall’omonimo giornale (prima che venisse definitivamente affossato da una manica di Diversamente Compagni, purtroppo nostri contemporanei, disintegratori del partito, della memoria di Antonio Gramsci, dello stato sociale e della stessa Costituzione).
Ebbene, nel corso dei primissimi anni ’80, nella domenica mattina di una di queste feste popolari, una delegazione composta da due compagni della sezione “Giuseppe di Vittorio” di Noha si presenta in sagrestia a chiedere al parroco una cosa inaudita.
Premetto che un tempo il fastigio della facciata della chiesa madre di Noha, quello che contiene lo stemma delle tre torri scolpite in pietra leccese, era illuminato per tutto il suo enorme perimetro triangolare da una serie di lampadine splendenti che davano luce non solo al prospetto del tempio ma anche a tutta l’antistante piazza.
I comunisti al cospetto del parroco, con fare titubante, biascicando quasi, dissero più o meno queste parole: “Lo sappiamo don Donato che forse stiamo per chiederti una cosa strana, insolita… non ci prendere per pazzi. Ecco… vorremmo chiederti…se fosse possibile…per la nostra festa di questa sera…che tu ci accendessi le luci della facciata della chiesa, ché noi non abbiamo troppa illuminazione”.
E don Donato, mentre uno dei due stava ancora parlando, senza esitazione disse subito: “E questo è tutto? Le accendo le luci, le accendo: non vi preoccupate. Se è festa, è festa per tutti”.
Insomma, con una battuta don Donato faceva comprendere che a Noha Peppone e don Camillo erano soltanto personaggi di un film liberamente tratto dalle pagine del Guareschi. E che il concetto di Unità, in loco, poteva assumere significati, come dire, ben più ecumenici.
Alle cronache non risultano, infatti, sgambetti, cicalecci, mormorazioni da retro-sagrestia, o topiche antipatie di sorta da parte di quei “Bravi cristiani dei comunisti” (come qualche volta ho sentito dire al compianto Don).
E’ inutile ricordare che la sezione del Partico Comunista di Noha era la prima casa a un passo dalla chiesa madre a esser benedetta allorché don Donato durante il periodo pasquale usava benedire le abitazioni dei nohani. I comunisti, che lo attendevano seduti sulla porta della loro Casa del Popolo, al suo arrivo si alzavano in piedi, si toglievano il cappello o la coppola, ma non pregavano (o cercavano di far intendere che non pregassero) quando il sacerdote con l’aspersorio dava l’acqua santa a quei locali per santificarli.
Altri tempi, altri preti, altri comunisti.
Antonio Mellone
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