feb012016
Ogni volta che miro e rimiro quel pezzo d’affresco antichissimo comparso sulla parete nord del muro delle cantine del castello di Noha, mi convinco sempre di più che non si tratta di uno scorcio dell’imperitura arte bizantina - come qualcuno ha pure ipotizzato -, non fosse altro che per le movenze.
L’immagine apparsa, infatti, non è quella di un cavallo fermo, imbalsamato, statico, ma quella di un corpo mosso, come in un ritmo di danza equestre o circense. Quello che sbuca dalla vetusta superficie superstite di quel muro, conservato intatto nel corso dei secoli al netto delle abrasioni causate dall’umidità e dal tempo, si presenta come un cavallo rampante, imbizzarrito, pieno di energia, più un destriero che un palafreno.
L’arte bizantina, all’opposto, non cercava l’uomo, o la natura, né emozioni e sentimenti umani: cercava l’esaltazione del pensiero divino nella forma delle icone ripetute, perfette, immobili. Il bizantino era costante e perpetua ricapitolazione; era replica di modelli ieratici, iconografie e riti per i quali non era previsto rinnovamento, né ricerca dell’uomo, né emozioni, né passioni terrene, ma soltanto perfezione degli schemi, dei tipi, stavo per dire prototipi.
Come si legge nei manuali di Storia dell’Arte, i canoni del bizantino sono “la religiosità, l’anti-plasticità, e l’anti-naturalismo”, sono “appiattimento e stilizzazione delle figure, volte a rendere una maggiore monumentalità ed un'astrazione soprannaturale” (cfr. Wikipedia).
Toccò a Giotto (1267 – 1337) fare la rivoluzione [quante volte andavo in visita alla Cappella degli Scrovegni di Padova, quando non c’era il bisogno di prenotarsi on-line come adesso e si poteva rimanere dentro anche per delle ore, incantati davanti a quella rivoluzione giottesca. Ndr.].
Con Giotto, dicevo, è la prima volta che un pittore non procede più per luoghi comuni stabiliti, appunto, dalla lunga tradizione bizantina. Con Giotto la pittura parte dall’osservazione (o dall’immaginazione) di quello che la realtà vuole dimostrare o semplicemente essere. Non mancano in Giotto certamente i soggetti religiosi (al contrario, le sue opere ne sono pervase); tuttavia le sue rappresentazioni (anche sacre) sono piene di accenti personali, di sorprese, di stati d’animo, di rimpianti, di delicatezze. E finalmente di un po’ di movimento.
All’opposto, un quasi contemporaneo Duccio di Buoninsegna (1255 – 1318/19) - non meno grande di Giotto - non vuole chiudere con la tradizione bizantina, ma celebrarla, osannarla, perfezionarla, quasi perpetuarla fino all’esaltazione dei suoi modelli. La pittura di Duccio, al contrario di quella di Giotto, consacra, non illustra, né umanizza.
Siamo allora di fronte a due mondi, a due visioni opposte, inconciliabili, ma ad una sola idea: per Duccio trovare l’umano attraverso il divino; per Giotto trovare Dio attraverso l’uomo e la sua storia.
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Detto questo, ritorniamo al nostro cavallo di battaglia nohano, a quel tocco di pennello magistrale e deciso, a quella vivacità di colore prevalente che ricorda tanto il rosso pompeiano [il che non implica che il dipinto risalga al I secolo d.C, ndr.].
Che il brano di pittura sia antichissimo, risalente al Medioevo, non ci piove (lo capirebbe anche uno studente di seconda superiore appena un po’ più diligente della media: il luogo d’appoggio, i materiali apparenti, gli strati di intonaco, lo stile sono tutti concordi nel dimostrarlo); che la mano dell’artista che lo ha effigiato sia stata spinta più dall’istinto e dalla passione che dalla ragione, pure.
Ma immaginate un po’, signori, se si dovesse trattare di un affresco del XIV secolo, di matrice laica, cioè che non riproducesse una figura religiosa, come, per dire, un San Martino o un San Giorgio a cavallo (sono i primi soggetti che vengono in mente nel guardare quel pezzo di immagine), ma una più vasta scena profana? Immaginate se si trattasse di un frammento di un più ampio quadro politico, come per esempio l’“Allegoria ed effetti del buon governo e del cattivo governo” del senese Ambrogio Lorenzetti (1290 – 1348), o qualcosa del genere? Tra l’altro, questo affresco, trovandosi oltretutto in un luogo “secolare” (vale a dire non ecclesiastico), sarebbe straordinario, di più, rivoluzionario: sarebbe la rivoluzione di un redivivo “Giotto nohano”.
Per questo varrebbe la pena di prestargli la dovuta attenzione, approfondirne gli studi, e non, come sovente capita nelle nostre contrade, lasciar correre ricoprendo il tutto con una coltre di indifferenza e trasformando il nostro destriero ritrovato nell’ennesimo cavallo di troia. Ovviamente in minuscolo.
Antonio Mellone
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P.S:
1) Forse non tutti sanno che questo cavallo non è apparso dal nulla, ma da una campagna di indagini portata avanti da due Indiana Jones alla ricerca dell’arca perduta, che rispondono ai nomi di Albino Campa e di Marcello D’Acquarica, osservatori nohani doc. Per essere precisi, come documentato, il protagonista della straordinaria scoperta è stato Albino Campa, patron di questo sito. Ora, in mancanza del nome dell’autore del dipinto medievale, credo sia giusto – come è d’uopo in queste occasioni - appellare il ritrovamento di questo pezzo di storia dell’arte nohana come “l’Affresco di Albino”. Diamo a Cesare quel che è di Cesare, e all’Albino quel che è di Albino.
2) Secondo voi, qualcuno dei politici glocal (cioè di Galatina e Noha) - nonostante le immagini su nohaweb postate dallo stesso Albino Campa, e nonostante ne abbiano parlato su Noha.it, nell’ordine, Angela Beccarisi, Marcello D’Acquarica e P. Francesco D’Acquarica - si è precipitato alla volta del Parco del Castello di Noha per informarsi della straordinaria scoperta? Secondo voi, qualcuno dei suddetti presenzialisti assenti si è fatto vivo? Ne ha parlato? Ne ha scritto o ne ha fatto scrivere sui giornali? Ne ha pubblicato da qualche parte un’immagine, un brano, un “mi piace” dal sen anzi dal dito fuggito? Ne ha informato, orgoglioso, la Sovrintendenza? Ne ha convocato una conferenza stampa presso l’assessorato della Cultura? Se sì, vi prego di comunicarmi dove e quando.
3) Infine, secondo voi – questo esula dai precedenti punti 1) e 2) ma non più di tanto - i sindaci di Galatina e di Noha, dobbiamo continuare ad invocarli all’indicativo presente o, viste le dimissioni del capobanda, ormai al passato remoto (cioè Sindacò)? Mistero della fede (politica).
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Non vorrei fare il solito polemico, ma temo che se fosse per questi “s’ignori”, la figura equina scoperta di recente dal nostro amico, più che “l’Affresco di Albino” dovrebbe denominarsi Campa Cavallo.
Mel
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