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Di Albino Campa (del 14/09/2007 @ 23:47:09, in NohaBlog, linkato 5289 volte)
"Questo - Scritto in memoria di Zeffirino Rizzelli - di Antonio Mellone è il testo integrale dell'articolo del quale su "il Galatino" del 14 settembre 2007 è apparso un ampio stralcio. Rendiamo omaggio anche noi del sito www.noha.it alla memoria del prof. Rizzelli che tanto amò anche Noha e la sua Storia".

Scritto in memoria di Zeffirino Rizzelli

Zeffirino RizzelliHo incontrato il prof. Zeffirino Rizzelli per l’ultima volta il 14 luglio scorso. Conobbi di persona il professore nel corso dei primi anni ’90 del novecento (di fama però lo conoscevo da sempre). E negli ultimi, diciamo, quindici anni, mi incontravo volentieri con lui e con una certa continuità. Soprattutto per consegnargli brevi manu (prima dell’avvento nella mia vita della posta elettronica) i miei articoli che (tranne uno, come dirò) il direttore pubblicava sempre integralmente sul suo il Galatino. Ci incontravamo di sabato al Convitto Colonna presso il distretto scolastico, prima che questa istituzione chiudesse definitivamente i battenti; qualche volta nella sede del giornale in largo Bianchini; negli ultimissimi anni invece più frequentemente a casa sua, in un salottino, quando non nella sua bella biblioteca, in un altro lato dell’abitazione. Era sempre gentile con me il professore, come credo lo fosse con tutti quelli con i quali aveva commercio di pensieri e parole.
Parlavamo di tutto. Ma non era uno scambio alla pari; la partita doppia non poteva essere applicata a quegli incontri: tra i due chi si arricchiva era il sottoscritto. Ero al cospetto di un gigante della scrittura (e non solo della scrittura), eppure quel titano ti metteva a tuo agio non facendoti sentire un pigmeo.
L’ultima volta, dunque, nel luglio di quest’anno andai pimpante per consegnargli, fresco di stampa e di tornio, il mio libello di “Scritti in Onore di Antonio Antonaci” per il quale il professore aveva steso un bel saggio introduttivo (saggio che mi aveva consegnato verso la fine del mese di febbraio di quest’anno 2007, allorché mi invitò anche a tenere – come tenni - una lezione sulla Storia di Noha all’Università Popolare “A. Vallone” di Galatina presso il Palazzo della Cultura: il che per me era, ancora una volta, un inaspettato onore).
Ebbene, Zeffirino Rizzelli mi ha onorato molte volte: con il pubblicarmi sul suo giornale, con lo scrivere saggi introduttivi ai miei scritti, con l’invitarmi a tenere una lezione all’Università Popolare, con il recensire sul suo giornale qualche mio libercolo. Un paio di volte mi onorò ancora invitandomi anche a “scendere in politica”; ma declinai questo invito preferendo essere a tutt’altre faccende affaccendato. Mi onorò della sua presenza allorché lo invitai presso il circolo culturale “Tre Torri” di Noha, dove tenne una magistrale lezione sulla antica e nobile famiglia “De Noha”, e quando venne a casa mia nel maggio del 2006 allorché in forma privata ed in maniera molto semplice si festeggiò, insieme ad altri, la nuova edizione del mio libro “Noha, storia arte e leggenda”, scritto a quattro mani con il p. Francesco D’Acquarica (libro del quale il professore aveva pure stilato una generosa presentazione). Insomma: il prof. Rizzelli mi onorava della sua amicizia.

*

Una volta, era il 1996, il professore si rifiutò di pubblicare un mio articolo, l’unico che venne, diciamo, “censurato” dal direttore: era un articolo che decantava le opere del Rizzelli, sindaco di Galatina. Così mi scrisse in una sua garbata lettera di spiegazioni: “… Non posso pubblicare sul mio giornale il tuo articolo. Questo non perché falsa modestia mi induce a rigorose valutazioni, ma perché siamo in campagna elettorale, tempo in cui si arriva a strumentalizzare anche ciò che strumentalizzabile non è. […]  Chi lo ha scritto è, certamente, lontano le mille miglia da sentimenti di riverenza o peggio ancora di servilismo…”.
C’era in quelle parole anche e soprattutto ritrosia ed umiltà. Chiunque altro, trovandosi nella sua stessa posizione, e non solo per mania di protagonismo, avrebbe pubblicato in grassetto o a caratteri cubitali quelle considerazioni!
Scritto in onore: quell’articolo era redatto ad  honorem.
Ho, in effetti, il pallino degli scritti in onore, che mi sembra abbiano un valore incommensurabilmente più grande degli scritti in memoria. Non è questione di consecutio temporum: è che tra una strada facile ed una difficile mi hanno insegnato a percorrere quella più difficile ed impervia (non fosse altro che per allenamento). Lo scritto in memoria è di gran lunga il più facile da redigere, ma quello che forse ha minor valore.
Si scrivano allora dieci, cento, mille “Scritti in Onore” (in onore di chi è ancora fra noi e lo meriti, s’intende), si riempiano le biblioteche e le librerie, ma non siano scritti di circostanza, o peggio ancora di celebrazioni servili.
E’ molto più difficile scrivere in onore, cercando di essere comunque liberi da “servo encomio” come pure servi “di codardo oltraggio”, che scritti in memoria.
Gli scritti in memoria li sanno fare più o meno tutti. Dopo, però.
Sicché dedicai al professore un articolo intitolato appunto: “Scritto in Onore di Zeffirino Rizzelli”. L’articolo con qualche piccola variante era proprio quello nato dieci anni prima, e rimasto per volontà del direttore pro-tempore nel cassetto. Quell’articolo attese così 10 anni al buio, ma vide finalmente la luce sul numero de il Galatino del 15 settembre 2006, il primissimo a direzione piena di Rossano Marra che stavolta non indugiò nemmeno un attimo a pubblicarlo. Quell’articolo certamente è nulla in confronto all’onore che Rizzelli mi aveva riservato in più occasioni. Era ed è quel brano - ed in fondo anche il presente, steso questa volta purtroppo in memoria - solo un tassello che dimostrasse (se mai ce ne fosse stato il bisogno) la grandezza dell’Uomo ed il lustro dato dalla persona e dall’opera di Zeffirino Rizzelli alla città di Galatina e a tutto il Salento.

*

Come dicevo, ho incontrato il prof. Zeffirino Rizzelli per l’ultima volta la mattina di sabato del 14 luglio scorso. Era a casa sua, seduto sulla sua poltrona; in ordine, sul tavolino del soggiorno, i suoi giornali, freschi di stampa, pronti per esser letti per filo e per segno.
Era consapevole della sua malattia e dell’ora alla quale andava incontro.
Io cercai di dirgli: “Ma professore, non dica così: noi tutti abbiamo ancora e sempre bisogno di Lei”. Mi rispose con uno sguardo sereno che non dimenticherò mai più. Fu un’altra lezione di dignità.
Ci salutammo, dopo un po’. Ma non mi accompagnò all’uscita come aveva sempre fatto. I dolori glielo impedivano. Mi strinse ancora una volta con vigore la mano. La sua mano; quella mano di scrittore! Sembrava mi dicesse in quel saluto: “tutto è compiuto”.
Mi voltai per vederlo un’altra volta ancora, e poi me ne andai. Il mio spirito era greve…
La notizia della sua morte, giuntami a Putignano, dove lavoro, per il tramite di un amico, la mattina del 29 agosto scorso, non mi colse di sorpresa. In un certo qual modo ero preparato. E sereno. Di quella serenità d’animo che solo il professore sapeva trasmetterti.

Antonio Mellone

 
Di Albino Campa (del 12/03/2008 @ 23:36:13, in Eventi, linkato 4435 volte)

Dall’alto di un traìno
un giorno nella città dei cavalli

di Valeria Nicoletti

Non parte chi parte. Parte chi resta. Sembra recare con sé questo sussurro la tramontana che accarezza le case infarinate di Noha e solletica i pini e gli aranci. In realtà, è un nohano, puro fino al midollo, a ribadire questo singolare assioma. Antonio Mellone, che tornando in terra natia solo il sabato e la domenica, si riscopre sempre più legato alle strade ariose e alle piazzette assolate della sua Noha. E, per un giorno, con l’entusiasmo di chi è partito lasciando un pezzo di cuore nel suo paese, diventa guida insostituibile per le vie nohane.
Nessun treno arriva a Noha. Tappa obbligatoria è la vicina Galatina, la città “che ci ha inglobati e, soprattutto, dalla quale ci siamo fatti inglobare”, dice Antonio con tono amaro. Bastano poche centinaia di metri, infatti, e ci si lascia alle spalle la città per giungere nella piazza di Noha, frazione dal 1811. Piazza San Michele, cuore pulsante del paese, con il bar Settebello, la chiesa, la Torre dell’Orologio che, forse per un inconsapevole rispetto ai ritmi lenti di Noha, non sfoglia le ore ma si limita a dominare la piazzetta, e poi le voci, le notizie, i cappelli abbassati su volti rugosi immobili sotto il sole, e, proprio dietro l’angolo, lo studio d’arte di Paola Rizzo, pittrice e insegnante. Qui il profumo dei pasticciotti caldi, l’aroma del caffè, la sigla de “L’osservatore nohano”, gazzettino della frazione, ma soprattutto il sapore della genuinità e la sete di cose vere, sono solo l’inizio di una mattinata tutta nohana, all’insegna del suo spirito autentico, in questa che ormai, nonostante il disinteresse dell’amministrazione locale, inizia ad essere conosciuta come la “Città dei Cavalli”.
Proprio dalla bottega d’arte di Paola, infatti, redazione e fucina di idee, nacque l’idea di aggiungere sul cartello alla scritta Noha il degno sottotitolo di Città dei Cavalli, trovata che, nonostante il pieno consenso dei nohani, è andata ad ingrossare la pila di scartoffie impolverate su chissà quale scrivania.
Ma a dispetto della burocrazia la definizione ha iniziato a circolare, di voce in voce, di articolo in articolo, varcando i confini angusti della provincia. Così Noha per due volte all’anno si trasforma nell’ombelico del mondo per chi ama i cavalli. A settembre, durante i festeggiamenti della Madonna delle Grazie, e il giorno del Lunedì dell’Angelo, i prati fioriti che incorniciano il piccolo centro diventano il campo, di gioco e di battaglia, per decine e decine di eleganti destrieri, robusti cavalli da tiro e tenerissimi pony. Tutte le cavalcature dei dintorni si danno appuntamento nella frazione per celebrare una ricorrenza che, se non ancora nella storia, è entrata ormai di diritto nella tradizione pugliese. Sotto gli occhi incuriositi dei viandanti e degli stessi abitanti di Noha, cavalli di ogni razza e colore, addobbati con bardature preziose e ridondanti al limite del barocco, trottano e si sfidano nelle prove di forza, in una manifestazione dagli echi spagnoli ma dall’anima tutta salentina, dove lo spirito di competizione non riesce mai a vincere sulla voglia di stare insieme e passare una pasquetta lontana dai nevrotici imbottigliamenti e diversa dalle solite gite fuori porta.
Ma non è solo in virtù delle due tradizionali fiere che Noha merita l’epiteto di patria del cavallo. Di fronte al bar Settebello, ogni domenica, i tanti “cavallari” di Noha si danno appuntamento per un caffè e una passeggiata per le vie e i prati nohani, e, se una domenica di fronte al bar centrale, ci capita uno straniero, ti spiegano che i cavalli loro ce l’hanno nel sangue e non esitano a trascinarti sul calesse e a mostrarti una Noha che, dall’alto di un traino, appare diversa anche a chi da qui non è mai partito.
È così che, aggrappati a una mano forte e sicura e finalmente saliti sul traìno, si parte per un singolare giro, lungo le strade larghe, dove si respira un silenzio interrotto solo dagli zoccoli dei cavalli e da un continuo salutarsi, costume usuale in un paesino di circa 3.800 anime dove tutti si conoscono. Fischi e risate cadono dai balconi dove la gente è affacciata per godere del primo sole invernale e timidi cenni fanno la loro comparsa dietro le persiane. Pochi pedoni, rare biciclette, troppe macchine per un paesino dove a piedi si raggiunge il capo opposto, ma i nohani sembrano essere pigri. Pigri sì, ma, in compenso, di un’allegria contagiosissima mentre da ogni macchina si sbracciano per salutare e c’è anche chi tira il freno in mezzo alla carreggiata per scambiare quattro chiacchiere.
Fermi, all’incrocio principale, sul calesse dondolante, guardando verso la strada che porta verso Galatina, si vede già, a pochi chilometri di distanza, il profilo dell’imponente e scomoda vicina, la dirimpettaia la cui presenza ingombrante si avverte quotidianamente, a partire dalla mancanza di un comune, di un’amministrazione tutta nohana, disposti ad ascoltare più che a finanziare. Tra il comune madre e la frazione, forse per una natura conflittuale congenita ai rapporti gerarchici, infatti, non corre buon sangue.
Con Aradeo, invece, l’altra vicina, i rapporti sembrano diversi, migliori, forse perché la placidità degli aradeini, che scorrazzano in sella alle biciclette, rispecchia la mentalità nohana, una mentalità essenzialmente rurale, che ripone nella frugalità e nella semplicità il segreto di una vita serena che basta a se stessa. “Noi il turismo non lo vogliamo”, spiega Antonio, “ci piace trovare parcheggio quando torniamo a casa, ci piace la calma, l’aria pulita, le quattro chiacchiere tra di noi”. Ma questo voler preservare un clima terso e mite, pur segnato dalle piccole baruffe di paesino, non si traduce in una chiusura rigida e totale verso l’esterno ma, anzi, in una larghezza di orizzonti talmente rara da non essere sempre compresa.
Sì, perché i nohani non fanno dei loro piccoli tesori uno specchietto per allodole, esche per turisti assetati di folclore e, dalle pagine dell’Osservatore, i solerti redattori non mancano di tuonare contro chi arriva a Noha con la pretesa di trovare una cittadina turistica. Riuniti ogni sabato pomeriggio nello studio di Paola, all’ombra degli ulivi nodosi che ammiccano dai suoi quadri, Marco, Antonella e gli altri, capitanati dal direttor Mellone, seduti sui divanetti del laboratorio danno forma a sogni di pennelli e idee di carta, alla ricerca di quella Noha ancora da esplorare, e da far riscoprire, soprattutto agli stessi nohani.
Arrivati al crocevia principale, i cavalli non sono ancora stanchi, i campanelli ritornano a tintinnare e il giro continua per la strada adiacente alla piazza dove, solo in compagnia di un nohano che ti invita ad alzare lo sguardo, si scorgono tre casette misteriose appollaiate sull’alto bordo del muro del vecchio palazzo baronale. Sull’origine delle tre lillipuziane costruzioni, ricche di particolari dettagliatissimi ma che non riproducono nulla di questo paese, ancora si discute. Come su ogni creatura dell’ignoto, anche sulle tre casette di Noha circolano favole e leggende. Come quella di “Sciacuddhri”, l’anima bella di un bambino che si dice le abbia abitate. Non è una leggenda, invece, l’indifferenza che le ha colpite, scardinando il campanile di una delle tre, che giace riverso nella parte interna della piccola costruzione. Un danno invisibile agli occhi dei più, ma evidentissimo per chi, proprio per non coprire quel campanile, ha meticolosamente potato le cime dei pini che ne impedivano la vista. Ma insieme ai rami dei pini, cresce anche l’abitudine a non alzare più lo sguardo, a non guardare più in là del proprio naso, e questo solo perché tanto “a Noha stamu”, frase tanto ordinaria quanto odiata da chi, proprio della piccola straordinarietà di Noha, vuole fare tesoro e sottrarla al menefreghismo, anche di chi, in virtù di una dissennata discendenza, si ritrova in possesso di gioielli che sempre più raramente possono brillare per tutti.
È il caso dell’altrettanto misteriosa Casa Rossa, una costruzione a ridosso della strada che porta a Galatina, alle spalle del vecchio (e dismesso) stabilimento del celebre brandy Galluccio. La strana casupola è circondata da un meraviglioso giardino selvatico, dove svettano le zagare, i boccioli di rosa insieme ai più comuni “zangoni” e, tra i cespugli di bacche e gli alberi di arance, strisciano lucertole curiose. All’interno, le pareti ondulate, quasi spugnose, di pietra rossastra, le volte concave, morbide, costellate di dune e rientranze, danno alla casa un senso di effimero e di fresco, le porte a scomparsa, i vetri colorati - o quello che ne resta - le finestre a oblò, i caminetti dai contorni imprecisi alimentano questo gioco di vuoti e pieni ma anche le voci e le leggende che vogliono questa casa infestata dalle streghe o, maliziosamente, vecchia casa di tolleranza. La Casa Rossa è proprietà privata, ma, nei giorni propizi, il suo cancello si schiude. Ciò non accade invece con la recinzione in muratura che vieta a chiunque l’ingresso nel profumato aranceto che avvolge l’antica torre medioevale. Infatti, a guardia della bellissima torre, con il ponte levatoio dove prima si facevano transitare i cavalli, con l’arco a sesto acuto e gli aranci tondi e pieni che ti strizzano l’occhio dal muro di cinta, brillano minacciosi e appuntiti i cocci di bottiglia da un lato, mentre dall’altro il filo spinato incupisce lo sguardo e il paesaggio, sgraziato avvertimento a chiunque non si accontenti di ammirare solo attraverso un provvidenziale foro nel muro di cinta, questo tesoro costantemente sotto chiave.
Vetri taglienti e filo spinato, però, non fanno parte della natura allegra e accogliente dei nohani, ben contenti di mostrare quello che pochi conoscono del loro paese e soprattutto di rivelare il proprio atavico amore verso i cavalli, dando vita ad una piccola Città dei Cavalli anzitempo. La piazza, solo per gli occhi di pochi forestieri, s’improvvisa teatro di una festa di cavalli bardati e calessi dipinti a mano, un brulicare di speroni, voci, nitriti, code intrecciate che si agitano e crini solleticati dal vento, con il beneplacito di San Michele, patrono di Noha, che dall’alto del cielo, dalle due statue conservate nella chiesa e dalle edicole affrescate ai crocicchi delle vie, sorride e si compiace della natura dei suoi protetti, così inclini alla convivialità e sempre pronti a fare festa. A spasso sul traino, con Totò, Peppino, Emanuele, Igor, Rubino, lo splendido Kibli e gli altri cavalli, tutti disciplinati che si lasciano tentare dai grandi spazi, solo arrivati presso gli sterminati prati in fiore, si schiude piano un mondo sparito, che sonnecchia sotto il sole caldo sui tetti bianchi delle case mentre dalle finestre appena socchiuse si diffonde il profumo di cose buone. È quasi mezzogiorno, infatti, l’ora di pranzo qui. I carretti, però, trottano ancora, lungo la piccola Noha sempre diversa e che, dall’alto di un calesse, sembra davvero infinita.

(fonte http://www.quisalento.it/pagine/luoghi68.html)

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Di Albino Campa (del 21/05/2009 @ 23:19:52, in S.Maria della Porta, linkato 4658 volte)

pisanello-2.jpg S. Maria della porta nell’antico casale scomparso di Pisanello ed i suoi segreti. Pisanello fu un casale bizantino come si evince da un documento risalente al 1427 ed era ubicato tra Noha, Sogliano, Galatina, in una favorevole posizione viaria. La sua fondazione corrisponde alla tipologia insediativa “basiliana” che presuppone un ruolo di polo attrattivo svolto da un luogo di culto come appunto quello di S. Maria della Porta, di altre cappelle come S. Anna, presso il casale vicino di Pisano, S. Antonio, S. Maria di Cantalupo, S. Nicola, S. Eulalia, S. Maria della Candelora e di altre chiese rurali ormai scomparse che crearono nella zona una vasta trama di sedi di culto.
Una stele con una iscrizione messapica del IV secolo a.C., trovata nel 1882 ed attualmente visibile al museo civico Cavoti di Galatina, i resti di vasi in terracotta rinvenuti nella zona e la presenza di frammenti di ceramica risalenti allo stesso periodo ritrovati in un campo posto ai confini di ponente della contrada di proprietà della famiglia Giannini, ci possono far pensare ad un insediamento messapico nella zona. Infatti l’enorme quantità di frammenti, la varietà delle fatture dei vasi, la loro concentrazione fanno presumere che in questa zona poteva esistere una fornace con centro di vendita oppure un grosso centro commerciale distrutto per cause ignote . pisanello-1.jpg
Una leggenda vuole il passaggio di S. Pietro in questa contrada. L’apostolo, provenendo da Otranto, avrebbe sostato e riposato su di masso esistente nella zona. Anche le leggende, però, vanno alimentate, così il celebre vescovo di Otranto, ma dimorante a Galatina, Gabriele Adarso De Santader nel 1670 trasferì questa pietra dalla contrada dove si trovava alla chiesa matrice dove attualmente è conservata, lasciando sul posto una colonna con l’iscrizione memoriale ” hic S. Petri defessi levamen ” qui riposò le stanche membra l’apostolo Pietro.
Il De Giorgi inoltre attribuisce la distruzione del casale ai soliti saraceni; interessante a questo proposito una graziosa filastrocca raccolta dal Casotti nel libro “Opuscoli rari” edito a Firenze nel 1874, ed alludente alle “acchiature “ cioè i tesori nascosti del territorio: ” Pisano e Pisanello distrutti fur dai mori sotto l’altar maggiore si trovano i tesori “. Questo episodio può essere avvenuto nel V secolo con le guerre gotiche oppure nel 944 per opera di pirati algerini, oppure di mori che altro non sono che i turchi i quali, conquistato Otranto nell’ agosto del 1480, rivolsero le attenzioni con brevi scorrerie all’interno del territorio salentino. In una di queste incursioni, in cui perse la vita il conte Giulio Antonio Acquaviva di Conversano il 7 Febbraio del 1481 , vennero messi a fuoco non solo Soleto e Galatina, ma anche tutti quei piccoli casali senza mura che, da quel momento in poi, rimangono disabitati. Non a caso dalle visite pastorali e dai sinodi otrantini che vanno dall’inizio del XV secolo fino alla fine del XVII il casale Pisanello è riportato come loco inabitato.
Dai registri angioini il casale risulta infeudato fin dal tempo di Carlo I d’Angiò che lo aveva concesso a Boemondo Pisanello e che alla sua morte era passato al figlio Guglielmo il 13 Settembre 1275. Succeduta al padre Guglielmo, Caterina Pisanello nel 1329 porta in dote al marito una vasta baronia che oltre a Pisanello comprendeva Alliste, Felline e quote di Carpignano, Tutino, Puzzomanno, Pisignano ecc.. Durante il XIV secolo Pisanello era incluso nei territori di Gualtiero VI di Brienne conte di Lecce, nel 1353 fu infeudato a Filippo di Altomonte, successivamente nel XV secolo agli Alami. Nello stesso secolo passò a Luigi Dell’Acaia poi a Vincenzo e Antonio De Noha, anche se nel 1489 Antonello De Noha, indebitato per oltre 104 ducati verso i fratelli Zaccaria di Venezia, subisce il pignoramento di Pisanello e Noha . La famiglia d’Acaya lo possiede fino al 1525.
Le nozze tra Adriana De Noha e Girolamo Montenegro mutarono l’intestazione feudale a nome dei Montenegro. Dopo un breve possesso di Orazio Guarini, che aveva acquistato Pisanello nel 1606, il territorio entrò a far parte della vastissima baronia degli Spinola con Galatina , Soleto, Noha, ecc. Da un documento presente nell’archivio di stato del notaio Emilio Arlotta del 22 Luglio 1906, registrato al n° 93 del repertorio generale ed al n°610 dello speciale, relativo alla domanda di separazione di Noha dal comune di Galatina, risulta che Noha ebbe autonomia comunale fino al 1811, quando venne fagocitata dalla potente Galatina. Dal documento si evince anche che Pisanello, suffeudo di Noha sin dal 1200 fino all’epoca catastale, ha gli stessi diritti del feudo di Noha a cui era legato. Infatti molti documenti del casale di Pisanello sono legati alle vicende del feudo di Noha, come risulta da un documento di un contratto del 1439 con il quale Boezio De Noha compra dal principe Giovanni Antonio Orsini Del Balzo i possedimenti di Sava e Giurdignano avendo già Pisanello, Villanova, Alliste, Felline ecc. e in questa direzione vanno fatte le prossime ricerche. Passando ora alla descrizione della cripta di S. Maria della Porta faremo alcune congiunture che sono ancora da verificare. La cripta situata lungo una strada campestre a pochi centinaia di metri dalla strada statale 476 è di proprietà delle sorelle Gaballo, ha l’invaso originale non più visibile. Questo invaso si potrebbe trovare sotto od attorno all’attuale complesso architettonico, costituito da un chiostro scavato e da una chiesa in muratura, datata 1889, con copertura a cupola di forma circolare. Sicuramente il chiostro di quello che doveva essere un cenobio basiliano scavato nel tenero tufo sul finire del XIX, secolo come abbiamo visto dall’iscrizione presente sul mosaico della chiesa circolare, diviene un cosiddetto giardino di delizia, prova ne sia appunto il mosaico che ricopre non solo la chiesa ma anche il chiostro con la presenza di gradino sedile, fontane e ninfei fatti con le conchiglie. Il cenobio basiliano era nell’attuale zona della chiesa che stranamente ha una forma circolare che ben si adatta alla zona dell’ingresso dell’antico monastero. Attualmente rimangono a testimoniarlo tutt’intorno alla chiesa un’intercapedine che, dietro all’altare, sembra portare ad un corridoio o “dromos” ed alle cellette dei monaci. L’antica cripta doveva avere tre navate divise in nove campate da quattro pilastri come nella cripta di S.Salvatore a Giurdignano. Inoltre la cripta, come altre chiese di rito greco, doveva essere triabsidata e con un’esposizione est-ovest.
Non ci sono tracce di arredi litoidi, iconostasi od altro tra “bema” e “naos”. Il chiostro con la chiesa si trova cinque metri sotto il piano della campagna e con l’edificazione del complesso edilizio di cui abbiamo riferito ha subito notevoli trasformazioni e, purtroppo, danni da parte di vandali o tombaroli poco attenti verso questo bene storico.

autore: Raimondo Rodia
Fonte: http://galatina.blogolandia.it

 

Checché se ne dica in giro e nonostante i correnti festeggiamenti d’ordinanza, Dante Alighieri non è scomparso dalla circolazione settecento anni fa.

Vero è che ci han provato in tutti i modi - a farlo fuori, dico - ma il tipo è duro a morire.

Ultimamente ce la stiamo mettendo tutta (riuscendoci senza tante difficoltà) non solo a botte di incendi alla selva oscura e al giardino dell’Eden, ma anche con il politically correct, la satira degradata a barzelletta, l’ideologia imperante che non prevede l’uso del No ma solo teste in continua annuenza, l’illusionismo dello sport (tipo calcio e olimpiadi: il famoso oro alla patria), l’eclissi di pensatori, intellettuali e filosofi in grado di immaginare un’alternativa al solito andazzo, l’ostracismo nei confronti di chi osi formulare un pensiero autonomo, la criminalizzazione del dubbioso, del disubbidiente e (dio ce ne scampi e liberi) addirittura del critico di tecnici, comitati, competenti e migliori, spesso autori dei più leggendari fiaschi della storia.

Si sa che l’Alighieri non aveva peli sulla lingua e non le mandava a dire, tanto che (semplifico) fu costretto a svignarsela in esilio per sottrarsi a una condanna a morte causata dalle sue idee politiche. Per la cronaca codesta condanna rimase diciamo in vigore fino al 2008, allorché il consiglio comunale di Firenze, bontà sua, pur con qualche secolo di ritardo, gliela revocò.

È inutile qui riaffermare quanto Dante fosse poco o punto incline al Dolce stil novo quando aveva da mandare al diavolo qualcuno: le sue invettive sono ormai proverbiali e ne sparpagliò a bizzeffe in molti suoi scritti, inclusa dunque la Commedia. Chi non ricorda quella contro la “serva Italia di dolore ostello”, il violento attacco nei confronti di Pisa e dei pisani “vituperio delle genti”, e la filippica addosso ai genovesi “d’ogne costume e pien d’ogne magagna”; per non parlare di critiche e atti d’accusa verso papi, ordini monastici, personaggi politici, e le sempre numerose pecore in gregge, ammassate, credule e imbelli nella (vana) attesa di una qualche immunità.

Ed eccovi allora un brano dell’Inferno - il canto XXXIII per la precisione - girato nel perimetro delle mura del Castello di Noha: è quello nel quale il Poeta fa raccontare al conte Ugolino della Gherardesca la sua tragica storia, quella della morte per fame prima dei suoi figli e poscia sua, avvenute nell’antica torre della Muda. In questo pezzo sentirete parlare di tradimento (il peccato più grave in assoluto) e di traditori, e quindi di accuse, incriminazioni e sfuriate.

Ora non vorrei, dal mio canto, aver assestato il colpo di grazia all’ancor vivo ghibellin fuggiasco; voi, dal vostro, siate indulgenti con me, evitando per una volta di spedirmi all’inferno.

Antonio Mellone

 
Di Redazione (del 26/04/2021 @ 23:01:56, in Lettere al direttore, linkato 1489 volte)

Oggi voglio raccontare una storia, una storia di ordinaria ingiustizia, una delle tante, non la mia, ma quella di mio padre, classe ’48. Oggi, a distanza di un anno dall’inizio di questa pandemia finalmente, seppur in ritardo, è il suo turno per la somministrazione della prima dose di vaccino. Oggi 26 aprile 2021 alle 9,50 siamo in fila insieme per raggiungere quel diritto così tanto atteso. Un diritto che ad oggi sa più di abbracci mancati a nipoti e figli,  di telefonate lontane che non hanno il dono della presenza, un diritto che sa che di paura, reclusione e dolore, per chi come mio padre ha perso un fratello in dieci giorni a causa del Covid. Siamo lì insieme al centro polivalente in via Don Bosco a Galatina e sin da subito capisco che non sarà un buongiorno il nostro.

“Mi scusi Signora, ma suo padre non risulta in elenco, deve tornare in farmacia dove ha fatto la prenotazione e lì le diranno cosa fare”. Insieme al volto sgomento di mio padre, tanti altri volti in fila come il suo sono nella stessa situazione, il più dei quali soli, non tutti hanno la fortuna di aver figli disoccupati come il mio.

Torniamo in auto, mio padre inizia ad agitarsi, lo sono anch’io, ma bisogna rimanere calmi, un diritto è un diritto e tutto si risolverà, gli dico. Di corsa arrivo in farmacia, lui mi aspetta in auto, o meglio ci gira intorno per tutto il tempo. Verifico la prenotazione. “È tutto ok signora, ritorni al centro polivalente, non si capisce perché rimandano indietro le persone con tanto di prenotazione, noi dai qui più che stamparne un’altra identica non possiamo fare”.

Torniamo al centro, nel frattempo la protezione civile fa su e giù per cercar di risolvere il problema, i prenotati non in lista aumentano e inizia il malcontento e lo sgomento generale. “I prenotati non in lista da questa parte”, su e giù di gambe e poi, “i prenotati non in lista vengano con me,  un medico li attende per parlarci”. Inizia la processione dei disperati al seguito dell’operatore di protezione civile che ci conduce in una stanza.

“Guardate sarò franco con voi, stanno combinando un casino con queste vaccinazioni, perché l’unica cosa che conta e far passare il messaggio che le vaccinazioni stanno procedendo. Non siete in lista perché le vaccinazioni si stanno sovrapponendo, non ci sono dosi previste per voi, ma ci sono 100 dosi di AstraZeneca che se volete possiamo farvi. Proprio stamattina abbiamo ricevuto una circolare che la classe 60-70 anni”, bla bla bla… non presto attenzione, la rabbia prende il sopravvento, mio padre ha 73 anni, diabetico, cardiopatico, ex soggetto oncologico, assume farmaci anticoagulanti e non può fare l’AstraZeneca. Chiedo parola, comunico quanto appena ho riportato al medico e il suo sguardo appena capisce che non può fare quel vaccino volge altrove, avanti il prossimo, caso risolto, grazie e arrivederci. Nessuno in quella stanza ha detto Signor Bellone, prendo nota del suo nominativo, la richiameremo a breve per fissare un altro appuntamento e ricevere la dose di  Pfizer a cui ha diritto, ci scusi per il disagio, ma il suo diritto è al sicuro.

Usciamo da quel centro, il volontario della protezione civile ci scorta mortificato, rientriamo in auto e mio padre inizia a piangere e mi dice ”portami a casa, non voglio fare più niente” e lì mi dico “ecco questa è la risposta che il 99% dei “bravi” cittadini davanti alla violazione di un diritto hanno, l’impotenza, la rinuncia, ma io sono o no una disoccupata per giusta causa, sono o no  parte di quell’1% che non ci sta più a subire le ingiustizie senza dire nulla. Quel “così vanno le cose” impotente, sordo,  oggi non sarebbe stato muto, perché siamo noi a scegliere di subirlo, novantanove volte su cento.

Lo riporto a casa e inizio a muovermi, chiamo il medico di famiglia, racconto l’accaduto alla segretaria che mi dice, “non è possibile, io prendo il nominativo di tuo padre, ma non  so se e quando riuscirà a fare il vaccino, lui per età e patologie ha diritto a Pfizer e noi per ora abbiamo ultimato le liste di prenotazione e non so se ce ne saranno altre, ci sarebbe da chiamare i carabinieri”.  Carabinieri, parola sentita già più volte nel corso della giornata. Torno al centro polivalente, scettica, ma convinta di volerci veder chiaro. Chiamo tre volte il 112 per richiederne l’intervento, nessuna risposta. Mi rimetto in auto e vado alla stazione dei carabinieri di Galatina, trovo ascolto e comprendo di non esser la prima ad esser ascoltata lì per questioni legate al vaccino, ma l’unica strada percorribile con loro è la denuncia, il coinvolgimento di un avvocato e probabilmente alla risoluzione dell’ingiustizia mio padre sarà già morto di  morte naturale. Oppure, altra strada proposta dai carabinieri,  è scrivere il mio reclamo nella sezione online prevista dalla Regione Puglia relativa ai disservizi sanitari. Uno di quei servizi in cui nella migliore delle ipotesi la risposta è “Gentile cliente, attualmente tutti gli operatori sono occupati la preghiamo bla bla bla…”

Ci sarà un garante per il diritto alla salute? Inizio a cercare informazioni e scopro che esiste. Wow esiste! La figura del Garante per il Diritto alla Salute è stata istituita nel nostro ordinamento dall’art. 2 della legge 8 marzo 2017, n. 24 “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, meglio nota come legge Gelli, non Licio Gelli, che quella pure è un’altra storia tutta italiana.

Il difensore Civico, nella sua funzione di garante per il diritto alla salute può essere adito gratuitamente da ciascun soggetto destinatario di prestazioni sanitarie per la segnalazione di disfunzioni del sistema dell’assistenza sanitaria. Sale quel minimo di entusiasmo necessario, ma prima di cantar vittoria, cose del tipo basta un poco di zucchero e la pillola va giù, scopro che tale figura, quella del Garante, è nella realtà un centauro, un ippogrifo, una creatura leggendaria annoverata nella mitologia classica, giacchè solo 3 Regioni su 20 risultano aver dato attuazione a tale figura. E la Puglia? No, in Puglia per inciso pare non sia operativa neanche la funzione del Difensore Civico, pur istituito da legge regionale nel 1981. Pare non sia necessaria, pare che il principio  del “così vanno le cose”, di cui sopra, sia un ottimo regolatore delle controversie e che questo basti a sentirsi tutelati nei propri diritti.

Volete sapere com’è andata a finire la storia per ora?

Mio padre, risulta formalmente rinunciatario del vaccino, non può richiedere un’altra prenotazione in farmacia e, a meno che il medico di famiglia non riapra la sua lista interna quando e come non si sa, sarà l’ennesimo caso di privazione di un diritto. Ma è un uomo fortunato, ha una figlia disoccupata che aveva tempo da perder per raccontare questa storia, per lui e per tutti quelli che come lui conoscono solo il verbo del “così vanno le cose e così devono andare”

Mariangela Bellone

 
Di Redazione (del 07/06/2020 @ 22:39:58, in NohaBlog, linkato 1207 volte)

Tanti auguri, P. FRANCESCO D'ACQUARICA per i tuoi primi 85 anni di vita da parte dei tuoi "colleghi" della Redazione di Noha.it.

Continua a scrivere pagine di storia, arte e leggenda della tua e nostra Noha. Che Dio ti benedica.
 

La redazione

 
Di Albino Campa (del 26/02/2012 @ 22:15:23, in S.Maria della Porta, linkato 4811 volte)

Poco distante dal centro abitato di Galatina, lungo una stradina di campagna, ecco apparire d’un tratto una cupola. Una visione indubbiamente strana per la nostra vista, abituata al più a scorgere la pietra irregolare dei “furneddhri”. Maggiormente insolita perché da lontano appare poggiata sulla nuda campagna, al riparo dietro un muretto un secco.

Avvicinandosi l’arcano si svela e il mistero lascia spazio allo stupore. Un ampio e profondo incavo di forma quadrangolare, scavato nella roccia, accoglie al suo interno la chiesa di Santa Maria alla Porta la cui cupola, e solo questa, è quanto appare all’esterno alla vista di chi procede lungo la strada che attraversa quello che una volta era l’antico e ormai perduto casale di origine basiliana, Pisanello.

Una zona di Galatina, quasi al limitare di Sogliano, che richiama antiche presenze nella storia della nostra terra; echi di un tempo in cui l’attuale centro era ancora ben lontano dall’essere eretto.

Nei pressi, nel 1882 venne ritrovata dall’archeologo galatinese Luigi Viola un’antica stele messapica (del II – III a.C.), conservata ora nel Museo cittadino Cavoti, e attribuita ad una statua di Afrodite.
Da lì passò il santo pescatore Pietro mentre attraversava il Salento nel suo viaggio verso il luogo del suo martirio. E la tradizione racconta che il sant’uomo stanco del suo viaggio si ebbe a riposare, a trovare sollievo, sedendosi su un grosso masso. Difficile dire se effettivamente Pietro passò per i quei luoghi. Certo è che se una tradizione del genere si ebbe a tramandare per secoli, questo può essere stato possibile solo grazie alla presenza in quei luoghi di un sito popolato sin dai tempi di antichi.

Tradizione così viva e duratura tanto da dare al nascente antico centro il nome del santo, Sanctus Petrus de Galatino. Nel 1665 “questa” pietra venne solennemente prelevata dal vescovo Gabriel Adarzo e portata in Chiesa Madre e a ricordo di quell’evento venne eretta, come si racconta, una colonna. Ora vi è un’edicola votiva con l’iconografia tipica con cui viene raffigurato Pietro e riportante alla base la seguente dicitura latina – “Hic S. Petri defessi levamen 1665”.
Anticamente da quei luoghi passava un importante asse viario che conduceva verso S.Maria di Leuca, indicato nel 1400 come “viam publicam qua itur de Sancto Pisanellum”.
Come se non bastasse, lungo la strada comunale S.Vito, ove è situata l’edicola votiva di San Pietro, si incontra una zona coltivata che presenta una particolarità. Ai lati della strada si possono trovare numerosi frammenti di argilla, pezzi di vasellame, mischiati al normale pietrame delle nostre campagne. Difficile dire di cosa si tratta e datarli, ma il contadino mi dissi – “cose de l’antichità!” – ogni tanto arando trova ancora qualche “petra vecchia”.
La prima volta che una persona di Galatina mi ha accompagnato in questi luoghi, che conosceva bene dai tempi dell’infanzia, per strada mi parlava di pietre di dimensioni significative, di lastroni, quello che poteva esser traccia di antiche dimore. Arrivati sul posto, dopo anni e anni che non vi faceva ritorno, ha visto lo stato dei luoghi completamente mutato, ville e villette a destra e a manca, e delle antiche tracce che lui ricordava, assolutamente nulla.

Quest’insieme di informazioni, seppur frammentate, lasciano presagire che la storia di questi luoghi e dell’antico sito di Santa Maria alla Porta sia alquanto più complessa di quanto sia oggi possibile ottenere leggendo la scarna documentazione disponibile.

Quanto appare oggi nell’incavo roccioso è ben diverso rispetto allo stato originario del sito prima che venisse profondamente rimaneggiato nel corso dell’800. La documentazione ci racconta ben poco. In un disegno A. Abate riproduce quello che poteva essere la struttura originaria.

Originariamente non vi era una chiesa, bensì una cripta, che nelle attestazioni di visite pastorali nel ‘500 viene già segnalata come inabitata.
Può darsi che la volta della cripta fosse crollata o seriamente danneggiata e quindi si sia provveduto a sbancare completamente la zona interessata, scavando nella roccia un emiciclo all’interno del quale è stata poi successivamente costruita in muratura l’attuale chiesa.
Sarà stato veramente così? A chi di competenza, o meglio a chi ne ha le competenze la risposta.
Seguendo questo ragionamento, l’attuale complesso, ultimato nel 1899, dovrebbe sorgere su i resti dell’antica cripta, presumibilmente basiliana, ma della quale non vi sono alla vista elementi architettonici per individuarla.

L’attuale chiesa e il chiostro si trovano a circa cinque metri sotto il livello stradale. Vi si accede grazie un ampio cunicolo gradonato scavato nella roccia che porta all’interno dell’incavo.

La bellezza del sito che traspare dall’esterno è ben poca cosa rispetto alle meraviglie, seppur vetuste, che si possono ammirare all’interno.

A destra e sinistra del cunicolo di accesso si aprono due stanze scavate nella roccia. Forse dei ripari per coloro che popolavano quel sito o utilizzate come deposito.

Lungo tre dei quattro lati, la roccia è stata incisa in profondità andando a formare un chiostro che conduce, percorrendo il perimetro dell’incavo, verso la chiesa. Massicce colonne costruite in muratura che sorreggono la roccia e la volta arcuata sovrastante.

Ma le sorprese sono appena all’inizio. Mossi i primi passi lungo il chiostro, tracce di colori e quel che sembrano decorazioni attirano il mio sguardo verso il pavimento, discretamente sporco e ricoperto di terra. La pavimentazione è costituita da uno splendido mosaico ancora sostanzialmente intatto.
Percorrendo il chiostro, all’incirca a metà della lunghezza dell’incavo, il mosaico pavimentale si arricchisce di ulteriori motivi floreali con una piccola vasca d’acqua, ora colma di terra, decorata con conchiglie.

Qui il corridoio si allarga e lungo la parete semicircolare vi sono tre sedili, con quello centrale decorato anch’esso con conchiglie. Un bellissimo, seppur piccolo, Ninfeo.

Infine si giunge dinanzi alla porta di ingresso della chiesa. Un ingresso semplice ma impreziosito alla sua base da un bellissimo mosaico che raffigura un leone accovacciato con il capo rialzato a guardare chi vi accede. Un custode, quasi una sorta di monito rivolto a chi entra nell’edificio sacro, affinché si predisponga con il giusto animo e intenzioni.

L’attuale chiesa a pianta circolare è costruita interamente in muratura. Non è addossata alla roccia, ma vi è un’intercapedine larga poco meno di metro che corre lungo l’emiciclo scavato nella roccia e ricoperto esternamente da una copertura in “chianche” chiaramente visibile sia dall’interno che dall’esterno.

Anche il pavimento interno alla chiesa è costituito da un mosaico, i cui si motivi decorativi definiscono un intreccio di linee e di curve che sembrano pronte a catturanti. Nel centro il simbolo mariano dell’Ave Maria.

Un unico arredo sacro all’interno. Un turrito altare in pietra. Alcuni dei decori sono conservati dalla proprietà.
A sinistra vi è una porta da cui parte una scala in mattoni che conduce all’esterno, ai bordi della cupola.

A destra, una piccola stanza da cui è poi possibile accedere all’intercapedine che corre tra la muratura e la roccia.

La chiesa appare molto semplice, non vi sono tracce di affreschi o decorazioni paretali. Ma basta alzare lo sguardo verso la cupola per essere colti da nuovo stupore. Ci si accorge di essere sovrastati da un bellissimo cielo stellato in cui la vista si perde, dando a chi l’osserva un senso di infinito rispetto alla caducità delle cose terrene.

Uscendo dalla chiesa e inoltrandosi lungo il sentiero centrale, anch’esso pavimentato con un mosaico, che attraversa in tutta la sua lunghezza l’incavo, ci si immerge nelle bellezze del giardino.

Un giardino di delizie, costituito in particolare da alberi di arancio. Lungo questo sentiero era presente un tempo un colonnato di cui rimangono, come uniche tracce, i basamenti delle colonne in pietra leccese; purtroppo le colonne sono state nel tempo trafugate.

Ma non sono gli unici danni compiuti, seppur fortunatamente contenuti, visto che la leggenda di antichi tesori ha condotto malintenzionati a scavare anche nella roccia alla ricerca di fantomatici antichi tunnel e stanze del tesoro. C’è un antico detto che riguarda quest’antico casale – “Pisano e Pisanello distrutti fur dai mori sotto l’altar maggiore si trovano i tesori”.

Ma su questo sito non si raccontano solo storie di antichi tesori. C’è, forse, anche qualcos’altro. Quando tempo fa pubblicai le foto di questo sito, montandole a mo’ di video, dopo qualche giorno un carissimo amico mi telefonò dicendomi che alcuni suoi amici lo avevano contattato chiedendo informazioni sul sito e sul sottoscritto. Tra le immagini pubblicate avevano rintracciato in alcuni elementi architettonici l’uso di simboli massonici.

Dopo qualche giorno mi disse che questi suoi amici appartenevano ad una loggia massonica.

Massimo Negro

PS: Il sito è passato di proprietà qualche anno fa. Dopo anni di abbandono ed incuria la nuova proprietà ha dapprima recuperato l’annesso palazzo, all’interno dell’area in cui si trova l’incavo e la chiesa, e con l’accordo della Soprintendenza ha iniziato il percorso, per ora solo burocratico, per recuperare anche questo bellissimo e suggestivo luogo.

 
Di Albino Campa (del 07/02/2012 @ 22:13:55, in Necrologi, linkato 5404 volte)

Ieri a Milano ha cessato di battere il cuore grande di Michele Tarantino, nohano purosangue. E' stato "editore a perdere" (senza cioè alcun obiettivo di profitto) del monumentale volume "Noha, storia, arte e leggenda" scritto a quattro mani da P. Francesco D'Acquarica e Antonio Mellone.
Fu il primo a sostenere ed a volere su carta l'avventura fantastica de "L'Osservatore Nohano", la rivista on-line che per cinque anni ha  sollecitato nel bene o nel male l'elettroencefalogramma di molti nohani.
Secondo le sue disposizioni, le sue spoglie mortali ritorneranno, per rimanervi per sempre, nella sua amata antica terra di Noha.
Tutti i collaboratori di questo sito - e, siamo certi, numerosissimi altri concittadini - ricordano la figura di questo benefattore, e affettuosamente abbracciano la sig.ra Rossana, ed i suoi due figli, Federica e Dario.

 
Di Albino Campa (del 25/03/2013 @ 22:00:00, in I Beni Culturali, linkato 4125 volte)

L’altro giorno m’è arrivato per posta da parte della Fidas di Noha - tra i cui soci s’annovera ormai da qualche decennio anche il sottoscritto - l’invito graditissimo a partecipare alla festa del trentennale del gemellaggio tra l’associazione dei donatori di sangue Fidas di Vicenza e quella Leccese.

Il calendario dell’iniziativa, che verrà pubblicato anche su questo sito, è ricco di eventi, incontri, momenti formativi e conviviali, donazioni del sangue presso la nostra Casa del donatore di Noha (una delle più attrezzate, accoglienti e confortevoli d’Italia), ed, infine, visite guidate nei centri storici di Galatina, di Gallipoli, e, non ultimo, quello di Noha.

Che bello - ho pensato – trecento amici vicentini verranno nel Salento e addirittura a  Noha per godere della nostra ospitalità, del nostro ambiente, delle nostre ricchezze storiche, artistiche, culturali, eno-gastronomiche…

E mentre riflettevo su tutto questo già mi prefiguravo il gruppo di turisti vicentini che passavano dal loro centro storico (che ho più volte visitato tempo addietro) ricco, pulito, intonso (come se il Palladio vivesse ancora), ben illuminato, chiuso al traffico, al nostro, ancor bello, a misura d’uomo, particolare nella sua morfologia e nel suo mistero.

*   *   *

I nostri compagni di avventura potrebbero incominciare il percorso turistico nohano con la visita alla nostra piazza San Michele, il salotto buono, quello sul quale si sporgono da un lato la maestosa facciata della nostra chiesa madre (sul cui fastigio scolpito a tutto tondo in pietra leccese campeggia l’antico stemma di Noha con le tre torri e i due velieri, sormontato dalla corona baronale e abbracciato quasi dai due rami rispettivamente di arancio e di alloro) e dall’altro, di fronte, come se da tempo immemorabile dialogassero del più e del meno, la torre dell’orologio del 1861 (o quel che ne rimane). Potremmo raccontar loro che purtroppo l’orologio è fermo da un quindicennio se non di più, che le campane sono mute, che i loro battagli o martelli sembrano svaniti nel nulla, che però il meccanismo interno dell’antico cronometro a corda è esposto nell’atrio delle scuole di Noha. Arrampicandoci sugli specchi potremmo pure raccontar loro la palla megagalattica secondo cui la torre e il balcone civico verranno restaurate “quanto prima” secondo le intenzioni dell’amministrazione comunale. E che s’è anche pensato di chiudere finalmente al traffico il nostro centro storico, liberandolo una buona volta da auto in transito, parcheggiate, o spesso fermate a casaccio. Mica possiamo dir loro tutto, ma proprio tutto, come per esempio il fatto che i nostri rappresentanti politici, inclusi gli attuali, non ci sentano da un orecchio, e dunque preferiscano costruire circonvallazioni interne e discutere di nuove aree mercatali da cementificare in quattro e quatto otto, ma anche di comparti e di centri commerciali food e non food da far nascere in mezzo alla campagna di Collemeto, sempre in nome delle “ricadute sull’occupazione e lo sviluppo”, il ritornello buono per ogni occasione, ripetuto a mo’ di un salmo responsoriale un po’ da tutti i pecoroni di destra e manca.

Ma ci converrebbe tirare innanzi, senza indugiare più di tanto su certi argomenti: i nostri amici vicentini potrebbero accorgersi del nostro imbarazzo e magari smascherare così su due piedi le nostre magagne comunali.

Potremmo poi condurli in via Pigno per far loro ammirare il nostro orgoglio, la torre medievale nohana - che rispetto a quella di Pisa ha solo il decuplo del rischio crollo - con quel grazioso motivo di archetti e beccatelli quale corona alla sommità, con il ponte levatoio, con le catene tiranti, e con il passaggio segreto. Tutta roba che però i nostri ospiti potranno solo immaginare, senza poter vedere né toccare, perché la torre, il ponte, la vasca ed il passaggio, che stanno in piedi da oltre settecento anni quasi per quotidiano miracolo, sono – oltre che privati - nascosti dietro un alto muro di cinta, il muro di Berlino di Noha mai abbattuto però (arricchito ultimamente anche da un murales policromo). Continuando nella nostra pantomima potremmo insistere nel dire ai vicentini che siamo certi che nei prossimi settecento anni qualcosa si muoverà. Ma non diciamo loro cosa, se la torre, il ponte, il muro dei Galluccio, o finalmente qualche neurone nohano.

* * *

Sconsolati appena un po’ potremmo proseguire oltre, portandoli di fronte al palazzo baronale, anzi, forzando un po’ la mano, addirittura prima nell’atrio e poi nel cortile o piazza d’armi del castello. Il che è il massimo che si riuscirebbe ad ammirare di quest’altro bene culturale nostrano: da quando sono state sfrattate le gentili signore che vivevano al piano nobile del palazzo sembra che se la siano svignata anche i fantasmi del passato aggrappati alle sue chianche oltre che alle volte dei secoli, lasciando il posto alle tarme, all’umidità, alle muffe, e a qualche altro verme solitario o in colonia.

Ma poi, lasciandoci alle spalle cotanto oltraggio (e sottacendo accuratamente il fatto che sotto i loro piedi si cela un grande antico frantoio ipogeo visitabile soltanto dagli speleologi coraggiosi, mica dai turisti) potremmo riuscire a riveder le stelle o le stalle conducendoli nei pressi delle famose casiceddhre e raccontare loro la storia dello sciacuddhri. Però, ahimè, anche qui, i nostri poveri viaggiatori, pur a bocca aperta, dovrebbero rimanere a debita distanza da questa meraviglia per il pericolo di caduta massi in testa. Anche qui i nostri amici avrebbero a che fare con rovine e stupidità: ultimamente anche il campanile è crollato, ridotto ad una piccola torre mozza, una montagna spaccata, un rudere, uno sgorbio, mentre il resto delle casiceddhre, ridotte a poco più che macerie allo stato puro, sembrano quelle stesse che ancor oggi si contemplano nel centro storico de L’Aquila, “ricostruito” dal governo del cavaliere mascarato. Soltanto che qui a Noha non c’è stato il terremoto, ma probabilmente qualcosa di peggio.

Poi chiuso questo capitolo, li indirizzeremo da lì ad una cinquantina di metri verso la “casa rossa” (magari nel frattempo li avremo bendati ben bene, come al gioco della mosca cieca, per non fargli scorgere il sito archeo-industriale scoperchiato e diruto del Brandy Galluccio).

Eh già, eh sì, la leggendaria casa rossa, la casa pedreira nohana che sembra disegnata e fatta costruire dall’architetto spagnolo Antoni Gaudì, ricca di cunti e storie, e destinata a diventare poco più o poco meno che la dependance di un paio di casini (in minuscolo, e non nel senso volgare del termine).  Ma forse sarebbe meglio stendere un velo pietoso anche su quest’altra roba che non sapremmo più come definire. Meglio non nominarla invano facendo finta di nulla? Come se non esistesse? Forse sì. Se sapessero e vedessero in che stato versa l’interno e l’intorno di quello che un tempo era uno splendore gli amici vicentini potrebbero risponderci con degli insulti se non con degli improperi espressi con altrettante sonore pernacchie.

*   *   * 

Non so se sarebbe il caso di andare oltre conducendo il gruppo dei malcapitati nei pressi della masseria Colabaldi ancora una volta messa in vendita dagli acchiappagonzi con tanto di comparto approvato da chissà quale illuminata maggioranza di consiglieri comunali per la costruzione di una ottantina di villette a schiera acquistabili con comode rate cinquantennali. Ma forse no, meglio lasciar perdere anche qui e cambiare itinerario, meglio accompagnare i donatori (di pazienza) nella nostra amena splendida fertile multicolori campagna nohana, per esempio verso lu Runceddhra.

Ma a pensarci bene purtroppo anche là ad attenderci non ci sarebbero che scempio e tristezza, come quei quaranta e passa ettari di impianto fotovoltaico, inutili o di certo non utili alla popolazione o al comune (come invece tanti allocchi - inclusi i nostri rappresentanti politici - credevano dapprincipio o temo credano ancora).

No, no, come non detto, meglio ritornare alla casa del donatore, senza nemmeno dirgli che quell’edificio color rosa antico adiacente è il vecchio cinema paradiso di Noha, il nostro “Cinema dei fiori”, ormai in balia di funghi, muschi e licheni.

Però, se non per rifarci, almeno per darci un tono, potremmo dire che abbiamo oltretutto anche un centro sociale nuovo di zecca, con tanto di funzionalissima sala convegni, come quella della vecchia scuola elementare di piazza Ciro Menotti ristrutturata un paio di anni fa ed inaugurata in pompa magna il primo dicembre scorso. Il fatto che sia ancora chiusa al traffico dei pensieri e delle opere è una quisquilia: manca ancora l’elettricità come Dio comanda, anzi come comanda la legge. Embè? Cosa vuoi che sia. Inezie, dettagli. Prima o poi l’Enel allaccerà ‘sto benedetto cavo e tutto potrà partire secondo i programmi. Quali, non si sa ancora. Ma i nostri rappresentanti “disponibilissimi e preparatissimi” ci hanno assicurato: “tutto secondo i programmi”. Punto.

*   *   *

Forse sarebbe meglio abbassare la cresta e l’enfasi sulle nostre meraviglie: rischieremmo che i nostri ospiti, gli amici donatori di sangue venuti dal nord, turisti per caso o loro malgrado, affranti di fronte a tanta bellezza spriculata, esprimendosi in vicentino stretto, rivolgano a noi queste semplici ma significative parole a mo’ di giusto guiderdone per la nostra responsabilità - fosse anche solo quella di esserci voltati più volte dall’altra parte: “Nohani, cu pozzati buttare lu sangu!”.

Antonio Mellone
 
Di Redazione (del 11/01/2017 @ 21:57:03, in Comunicato Stampa, linkato 1822 volte)

Visita guidata di Galatina + degustazione presso Ristorante Anima&Cuore

Che effetto fa gustare qualcosa di buono in un pezzo di storia, un luogo leggendario per tutto il Salento?

Per scoprirlo venite con noi domenica 15 Gennaio 2017 per le vie del centro antico di Galatina, tra vicoli, corti e piazze, terminando il tour guidato presso il ristorante Anima & Cuore, sito all’interno di palazzo Tondi-Vignola, il settecentesco edificio che ingloba la cappella di San Paolo. È da qui, dal pozzo dove le donne (solo donne?) morse dalla tarantola si recavano per bere l’acqua guaritrice, che racconteremo suggestioni d’un tempo ormai lontano, tuttavia oggetto di indagini per antropologi e studiosi di musica mentre la pizzica è diventata negli ultimi anni la colonna sonora di un Salento che, forte della sua identità, di un patrimonio culturale e naturalistico vastissimo e del folklore, rapisce il cuore dei suoi visitatori.

Arte, storia e territorio. Eccola, in tutto il suo splendore, Galatina.

C’è tanto da vedere, l’incanto degli affreschi della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, il barocco nelle chiese piccole e grandi, nei conventi, nelle cappelle. Un’incursione al Museo Civico “Pietro Cavoti”. Riaperto al pubblico il 19 giugno 2016 il museo è allestito nelle sale del piano superiore del Palazzo della Cultura “Zefferino Rizzelli”, già Convento dei Domenicani - ex Convitto Colonna. Custodisce reperti archeologici – degna di nota la lastra con iscrizione messapica –, frammenti lapidei provenienti dai palazzi aristocratici e dalle chiese di Galatina, una pinacoteca, gli acquarelli di Pietro Cavoti (1819-1890) e le opere di Gaetano Martinez (1892-1951).

Per info, costi – prenotazione obbligatoria

IAT Informazione e Accoglienza Turistica

GALATINA, c/o Torre dell’Orologio - via Vittorio Emanuele II, 35

T. +39 0836 569984 - +39 392 9331521 – E: iat.galatina@gmail.com

 
Di Albino Campa (del 11/12/2006 @ 21:55:45, in Racconti, linkato 4927 volte)

Il nostro amico Marcello D'Acquarica che si trova a vivere nel grande freddo del Nord - stamane alle 8.00 a Torino, la sua città d'adozione, la temperatura era di 2 gradi sotto lo zero - ci ha inviato la bella leggenda che proponiamo ai nostri affezionati ospiti. Le leggende, si sa, sono parte essenziale della storia e dell'arte di una comunità. E Noha non è da meno! -Gigetto e Tonio-, i fratellini della novella che ha per titolo "Tra sogno e realtà", come capirete, sono i -Romolo e Remo- di Noha. D'altronde ognun sa che tutte le strade portano a Noha!

TRA SOGNO E REALTA’

(come e prima di Roma)

di
MARCELLO D’ACQUARICA

Sembrava uno dei soliti temporali di mezza estate. Quelli che all’improvviso inondano le vie scoscese di  NOHA (le scise) e, come torrenti in piena, apportano un “mare” d’acqua a valle, trasformando, a volte, la campagna in un grande lago.
Come ogni pomeriggio, dopo l’ora del pranzo (allu schiaccu), ai bambini, veniva “comandato” di mettersi a dormire (“cu dafriscanu nu pocu”).
 
D’estate, l’ora della “canicola” era ed è consigliabile trascorrerla riposando al fresco delle case.
Così, essendo tempo rubato al gioco, i due fratellini, Gigetto e Tonio sgattaiolavano in strada a divertirsi.
Il  temporale era finito ma l’acqua scorreva ancora veloce lungo gli angoli dei marciapiedi: agli occhi dei bambini,  sembravano i flutti di un mare in tempesta.

Costruirono delle barche di carta e delle zattere con  dei  pezzi di corteccia di pino.  Con queste simularono battaglie navali e gare di velieri.  Giocarono per molte ore rincorrendo i loro giochi  nell’acqua a  piedi nudi fino alla periferia del paese.
Così  stanchi e sazi di gioia sedettero a ridosso  dell’uscio  di una casa a riposare e ad  osservare  le loro barche che filavano lontano trascinate dalla corrente. Sempre più lontano…

Quando finalmente si svegliarono si accorsero di essere naufragati su di una spiaggia deserta e costellata  da dune verdi e rigogliose, profumate dall’incenso dei  cespugli di pini marittimi.
Alle loro  spalle, della piccola flotta, vi era l’unica barca rimasta integra, incagliata sul fondale sabbioso e trasparente come lo smeraldo.

Le dune risalivano dolcemente dalla  spiaggia  verso l’interno e sullo sfondo scuro si parava una grande foresta di  antiche querce.
Lo sciabordio del mare e lo stridio incessante dei gabbiani, creavano tutto intorno un’atmosfera quasi surreale, magica. Perfino il vento della tempesta si era ammutolito ed aveva trasformato l’aria tutto intorno in una soave e materna carezza.

Ripresisi dal torpore causato dal lungo sonno e dal naufragio, decisero di inoltrarsi verso l’interno di quell’incantevole angolo per scoprirne ogni possibile nuova meraviglia.
Attraversarono campi infiniti e dolci e basse colline, e quando il sole fu finalmente alto, giunsero in prossimità di un altura. Da qui, voltandosi indietro,  poterono scorgere le cime montuose di una terra lontana, e tutto intorno con lo sguardo, poterono spaziare verso l’infinito.
Desiderosi di vivere in quel posto scelto loro dal Destino, vi costruirono le case e, sul punto più alto delle mura eressero il loro vessillo: uno scudo con  tre torri.
Quando il loro tempo giunse al tramonto, vennero sepolti all’interno delle mura del villaggio che da allora si chiamò Noha (cioè semplicità e gioia).
Ed i Nohani delle nuove generazioni per millenni vissero il sogno dei loro antenati.

 

 
Di Redazione (del 17/05/2016 @ 21:44:21, in Comunicato Stampa, linkato 2008 volte)

Con una giornata di anticipo il Circolo Tennis Galatina può festeggiare l'accesso ai play-off  per la serie A2.Un grandissimo risultato quello ottenuto da questo gruppo fantastico formato da un giusto mix tra esperienza e gioventù.Il risultato di 4-2 in trasferta a Finale Ligure garantisce l'accesso ai play off ma solo l'ultima partita del girone quella in casa di Domenica 22 Maggio contro il Reggio Emilia(un punto dietro noi)consegnerà la classifica definitiva con i relativi accoppiamenti.Ora il match di Finale Ligure.Formazione tipo quella mandata in campo dal capitano Mario Stasi con il numero 3 Jesper De Jong che si sbarazzava in meno di un ora del suo avversario il 2.7 Davide Sergo mentre Filippo Stasi usciva vincitore dopo una battaglia di tre ore contro Giorgio Ghigliazza(2.7).Grande prova di cuore per Filippo che sul 5-5 del terzo set 40-30 subiva un infortunio alla caviglia che lo costringeva a chiedere le cure con il medical timeout.Ripreso il match vinceva il parziale per 7-6.Pierdanio Lo Priore faceva sognare la squadra portandosi al match point nel terzo set contro Emanuele Molina(2.3) prima di cedere 7-5.La sorpresa più grossa della giornata è stata la sconfitta di Tomas Gerini contro Lorenzo Apostolico(2.5).Impressionante il numero di vincenti giocati da Apostolico da ogni posizione del campo.Sul risultato di parità entravano in campo i doppi.La coppia Gerini-Giannini(al suo secondo doppio stagionale) superavano la coppia ligure formata da Apostolico-Vicini(giocatore di San Marino che vanta il più alto numero di presenze in Coppa Davis superando una leggenda come Nicola Pietrangeli) in due set.L'altro doppio è stato giocato da Lo Priore-De Jong contro Molina-Ghigliazza  e vinto dal coppia galatinese con un Jesper sugli scudi.
 
FILIPPO STASI-GIORGIO GHIGLIAZZA 6-3 3-6 7-6
JESPER DE JONG-DAVIDE SERGO  6-1 6-1
PIERDANIO LO PRIORE-EMANUELE MOLINA  6-2 3-6 5-7
TOMAS GERINI-APOSTOLICO LORENZO 6-7 5-7
GERINI/GIANNINI-APOSTOLICO-VICINI 6-1 7-5
LO PRIORE/DE JONG-MOLINA-GHIGLIAZZA 7-5 6-2

Mario Stasi

 
Di Antonio Mellone (del 16/11/2013 @ 21:44:15, in Fotovoltaico, linkato 3839 volte)

Ci sarebbe molto da elencare a proposito dei danni derivanti dall’obbrobrio rappresentato dal mega-porco fotovoltaico di contrada Roncella (ma il discorso rimane valido anche per tutti gli altri campi trafitti da queste corone di spine, ferro, silicio, e giacché ci siamo anche cemento, che intasano a chiazze vaste aree del Salento).

Questi mali incommensurabili – elenchiamo a caso - vanno dalle variazioni del microclima all’inquinamento elettromagnetico; dall’energia prodotta in eccesso che si disperde in rete al tema dello smaltimento dei pannelli una volta terminato il loro ciclo “vitale”; dalle famose “ricadute occupazionali” pari a zero ai danni all’immagine di un habitat intonso fino a qualche lustro fa; dagli effetti nefasti provocati sulla salute dei salentini a causa del fatto che queste “energie alternative” non hanno fatto altro che aumentare la produzione di energia da combustibili fossili (vedi Cerano) - grazie alla truffa dei cosiddetti “certificati verdi”, come già spiegato altrove - alla sottrazione di terreni all’agricoltura, finiti per definizione; dal depauperamento economico-finanziario della nostra terra considerata dai conquistadores di tutto il mondo come un bancomat da assaltare al lavoro nero, alle mafie, al riciclaggio di rifiuti nascosti in questi “parchi”, al giro di soldi e mazzette e truffe di vario tipo ai danni dello Stato (che ogni giorno stanno intasando la cronaca nera locale, come se già il resto non bastasse)…

Ci sarebbe in effetti molto altro da dire, argomentare, chiosare sul tema. Ma temiamo che i nostri interlocutori vengano colpiti da ictus cerebrale per troppo stress da concentrazione. E quando diciamo “interlocutori” vogliamo includere oltre all’ex-sindaco di Galatina, anche il suo successore e attuale primo cittadino, con tanto di curie e codazzo al seguito (in effetti non c’è soluzione di continuità tra la padella e la brace), ed una marea di concittadini in pantofole, sedotti e abbandonati su comodi divani & divani.  

*

Tutto questo cercavamo di comunicare ai tempi in cui scendevamo in piazza per spiegare ai cittadini a cosa si andava incontro, per raccoglierne le firme di protesta e proposta, per distribuire sacchettini di terra benedetta (benedetta direttamente da Dio, s’intende)…

Ma in quel tempo tanto le “autorità” civili che quelle religiose, non solo mostravano orecchio da mercante non solidarizzando con te e la tua lotta contro gli inganni travestiti da “energie alternative”, ma facevano a gara per far fare il turno di riposo alle rispettive intelligenze. Sicché l’una ti dava della “vittima della calura estiva”; l’altra del “profeta di sventura”. E tu a continuare a combattere contro il vero micidiale spread che purtroppo continuerà ad assillarci per un bel po’: quello culturale.

Risultato?

Panorami di ferro e silicio. Distese enormi di pannelli fotovoltaici entrati per sempre nei paesaggi delle nostre campagne, come novelle cartoline da inviare ai tour-operator del resto del mondo. Specchi riflettenti che affiancano ulivi e fichi d’india, e spesso si sostituiscono ad essi, mangiandosi la terra rossa e l’orizzonte. E noi altri, nel mentre ammiriamo queste prospettive, dobbiamo pure ricordarci ogni bimestre di pagare la bolletta, il dazio ai signori dell’“energia alternativa” che vengono da lontano.   

*

Salento, mare, sole e vento sono ormai una leggenda, una fola, un luogo comune, una corbelleria. E solo chi credeva nelle favole poteva pensare che questa fosse la realtà.

La verità, invece, brilla della sua stessa perspicuità. Sicché il resto della storia è oggi espresso da un altro slogan un po’ meno ipocrita e più empirico: Salento, male, fole e cemento. Il tutto avvolto dalla tormenta infinita (come quella del V canto dell’Inferno dantesco) prodotta stavolta dal vento sinistro degli insipienti e degli ottusi.

 Antonio Mellone
 
Di P. Francesco D’Acquarica (del 13/10/2013 @ 21:40:10, in Cultura, linkato 3836 volte)

Nel 1973, esattamente 40 anni fa, veniva alla luce il volumetto “Storia di Noha” edito da “Grafiche  C.Borgia” di Casarano. E’ opportuno ricordare quell’evento, anche per verificare il cammino che si è fatto e non spegnere l’entusiasmo che aveva creato.

Ero da poco rientrato in Italia, dopo 5 anni di Missione in Canada, e per motivi di salute mi fermai a Noha oltre il previsto. Fu così che, tanto per passarmi il tempo, cominciai a curiosare nell'archivio parrocchiale di Noha. Trovai un libretto di una cinquantina di paginette intitolato: “L'Università e il Feudo di Noha - Documenti e Note” scritto da un certo prof. Gianferrante Tanzi, ed edito nel 1906 da Tipografia Cooperativa a Lecce. Questo scritto prezioso, essendo ovviamente fuori catalogo, non è facilmente reperibile.

Le mie ricerche su Noha partirono proprio da lì. Mi resi conto, leggiucchiando il libriccino del Tanzi, che Noha aveva avuto una storia molto antica e molto ricca di notizie, anche se quello che leggevo in quel libercolo a volte era vago e impreciso. Mi venne voglia perciò di fare ricerche più accurate.

Mi misi a intervistare testimoni qualificati e informati su alcune notizie e tradizioni di Noha. Cominciai a consultare anche altri documenti di storia locale, arrivai all'archivio vescovile di Nardò, di cui ab immemorabili Noha aveva fatto parte, consultai l'archivio di Stato di Lecce e la biblioteca comunale di Galatina. Negli spostamenti sovente mi guidava don Donato Mellone, in quel tempo Arciprete di Noha, a cui devo tanta gratitudine sia per la sua grande disponibilità ad accompagnarmi e sia per avermi permesso di consultare l'archivio della Parrocchia.

Dopo circa un anno di ricerche (1972-1973), per la prima volta davo alle stampe la prima edizione. Di Noha e della sua storia nessuno conosceva le antichità, nessuno ne parlava, nessuno sapeva, neanche a livello di istituzioni o di cosiddetta gente di cultura.

Il libro di appena 90 pagine fu stampato a Casarano dall’editrice Borgia; mi sovvenzionò la stampa un'amica dei Missionari della Consolata che avevo conosciuto durante la mia permanenza a Salve, un comune vicino Santa Maria di Leuca. Furono stampate 300 copie, arricchite da una mappa del paese che avevo fatto io stesso in maniera molto artigianale, senza essere né un tecnico né un geometra, tracciandone il disegno delle strade che percorrevo con la mia Bianchina. Anche le foto le avevo fatte io stesso in bianco e nero. Il volumetto fu messo in vendita a 1.000 Lire la copia e andò letteralmente a ruba, soprattutto perché l'avevo arricchito con una raccolta di proverbi dialettali e di alcune mie poesie in dialetto che suscitarono (finalmente) la curiosità dei nohani. Quell’edizione si esaurì in men che non si dica.

Pubblicato e venduto quel libro, le mie ricerche non finirono più. Per me era naturale continuare ad approfondire le ricerche su Noha (che, voglio dirlo con determinazione anche ai giovani, danno sempre grandi soddisfazioni).

Dopo 15 anni, scoperti nuovi documenti, nel 1989 chiesi al Sindaco di Galatina, che in quel tempo era l’On. Beniamino De Maria, se valeva la spesa stampare i miei aggiornamenti. Fu così che l’Amministrazione Comunale si prese cura del mio scritto, approvò e sovvenzionò completamente la stampa della nuova opera con 4 milioni di Lire. L’Editrice Salentina di Galatina stampò così la seconda edizione della mia “Storia” in mille copie, questa volta arricchita dalle foto in bianco nero dello studio fotografico Mirelfoto- Pignatelli di Noha, oltre che quelle del mio archivio.

Feci la “presentazione” della nuova edizione alla scuola media di Noha dove fu adottata come testo di cultura locale: l’edizione era più ampia della prima per i contenuti ma anche più elegante nella forma.

Intanto io continuavo le mie ricerche (le notizie sono come le ciliegie: una tira l’altra) e scoprivo altre notizie sempre molto interessanti. Trovai per esempio una relazione sullo stato della parrocchia da parte di Don Michele Alessandrelli, arciprete di Noha dal 1847 al 1882, che, in occasione della visita pastorale del Vescovo di Nardò, aveva compilato con molta precisione di particolari preziosissimi. Trovai anche una relazione ricchissima di informazioni del “primo” Vescovo di Nardò che ritenevo molto interessante.

Inoltre analizzando meglio tutti i documenti dell'archivio parrocchiale, che lessi e trascrissi in “file digitali” per scoprire i miei antenati (ho potuto costruire cos’ il mio albero genealogico fino al 1500), trovai notizie abbondanti sulla situazione sociale, religiosa, economica e politica della gente di Noha. Erano tutte notizie preziose che meritavano di essere pubblicate.

Erano passati trent’anni dalla prima edizione. La seconda edizione era ormai esaurita. Valeva la pena far conoscere al pubblico le notizie di cui ero venuto a conoscenza. Cercavo il modo di stampare una terza edizione, ma come tutti sanno, la difficoltà principale in questo settore dell’editoria locale era proprio quella di reperire i fondi, o comunque trovare un mecenate che si prendesse cura della cosa.

La mia destinazione a Galatina nel 2003 in qualità di parroco della Parrocchia Cuore Immacolato di Maria e l’incontro con il Dott. Antonio Mellone fu provvidenziale. Fu Antonio che venne a cercarmi in parrocchia per propormi di stampare i miei aggiornamenti con una nuova edizione elegante, bella, ricca, di lusso, direi anche spettacolare e impensabile e degna di stare nelle migliori biblioteche nazionali ed estere (come di fatto mi risulta essere) e nacque così il volume Noha, Storia, Arte, leggenda. Grazie all’editore-mecenate, il compianto Michele Tarantino, l’edizione venne alla luce nel 2006. In quella occasione Michele ebbe a scrivere: “Questo libro è a tutti gli effetti un bene culturale, un dono, un regalo che ho voluto fare innanzitutto a me, ma anche a mia moglie, legata, come me, alla terra dei nostri genitori; e - consapevole del fatto che i buoni frutti nascono da alberi che hanno coscienza delle loro radici - ai miei figli, nati e cresciuti nell’Italia del Nord, affinchè conoscendo la Storia di quello sperduto paese di provincia che risponde al nome di Noha, imparino sempre più ad amare e a rispettare le loro stesse origini; ai miei conterranei salentini ed ai miei amici sparsi in ogni parte d’Italia, e a tutti quanti si degnino di leggere e consultare questo volume, perché, benché a volte mute, anche le piccole realtà locali possono essere importanti testimoni della Storia”.

Grazie Michele Tarantino per questo messaggio così caldo e sentito! Oggi anche tu sei una pagina bella della Storia di Noha.

Ma le mie ricerche sono sempre continuate (secondo quel saggio proverbio nohano secondo il quale: fino alla bara sempre s’impara). Oggi a 40 anni da quella prima edizione posseggo notizie e scoperte che quarant’anni fa erano impensabili e sconosciute a tutti. Tante sono state rese pubbliche sul nostro giornalino on-line l’“Osservatore Nohano” di felice memoria.

Ma a questo punto sarebbe opportuna una pubblicazione nuova “ordinata e completa” di come avevo immaginato che fosse la storia del mio paese, quando, esattamente quarant’anni fa, resi pubblica la mia prima edizione della “Storia di Noha”.

P. Francesco D’Acquarica

 
Di Redazione (del 09/08/2016 @ 21:37:19, in Comunicato Stampa, linkato 2653 volte)

In Puglia ogni angolo, ogni paese, è l’occasione per scoprire la straordinaria ricchezza di un patrimonio musicale unico. Ritmi che parlano un linguaggio semplice, ma incredibilmente affascinante. Una terra che può essere percorsa seguendo i flussi della musica, fuori dalle consuete indicazioni turistiche. Dove non esiste alcuna differenza tra il musicista e l’ospite. Dove il turista è immediatamente uno del posto. Non rimane che lasciarsi andare al piacere della musica e della scoperta, farsi travolgere dalle note che raccontano questa terra e la sua gente, contagiati da una frenesia che sembra non finire mai. Uno spettacolo che ci farà entrare, sempre più, nel cuore autentico della Puglia.

Basta il suono di un tamburello per evocare riti antichissimi e per entrare in quel miscuglio di sentimenti autentici che vive nel Salento più profondo; il set perfetto, quello originale, per storie di tarantate e di donne morsicate dal ragno maculato, di antiche abitazioni dove andava in scena il rito della guarigione.

Cercatene le tracce a Galatina, un posto al di fuori dei più battuti circuiti turistici, un luogo di misterica suggestione, con uno splendido ed esteso centro storico e la suggestiva piazza San Pietro, tripudio di barocco e rococò. Luogo simbolo del tarantismo – la Cappella di San Paolo –, nel tempietto a navata unica le devote ammorbate dal veleno dal ragno venivano a chiedere la grazia e a bere l’acqua del pozzo che zampillava nell’androne del palazzo. Dopo un lungo restauro, la pala di Francesco Saverio Lillo è tornata a vegliare dall’altare e a preservare il ricordo delle sorelle Farina, immortalate ai piedi del Santo. leggenda narra che le due donne erano note in tutto il circondario per i loro poteri taumaturgici. Non avendo figli a cui passare questa eredità, le sorelle sputarono nel pozzo di palazzo Tondi-Vignola, dando così origine alle ben note processioni delle “tarantolate”. Ma forse, osservando la tela, sarebbe il caso di declinare al maschile il sostantivo: tra le braccia delle due donne non giace infatti una giovane, bensì un uomo.

Un itinerario guidato alla scoperta di suggestioni d’un tempo ormai lontano, tuttavia oggetto di indagine per antropologi e studiosi di musica mentre la pizzica è diventata negli ultimi anni la colonna sonora di un Salento che, forte della sua identità, di un patrimonio culturale e naturalistico vastissimo e del folklore, rapisce il cuore dei suoi visitatori.

 

16 AGOSTO 2016 | 10:30 - 11:30 - 16:30 - 18:30

 

Meeting point:

IAT Informazione e Accoglienza Turistica

GALATINA, c/o Torre dell’Orologio - via Vittorio Emanuele II, 35

T. +39 0836 569984 - +39 392 9331521 – E: iat.galatina@gmail.com

Prenotazione obbligatoria

#VisitGalatina

 
Di Marcello D'Acquarica (del 11/12/2013 @ 21:27:19, in NohaBlog, linkato 3504 volte)

In principio fu il re dei colori. Avvenne quando l’uomo primitivo perse il pelo e scoprì il fuoco. Poi scoprì l’arte e dipinse la sua caverna con il nero dei tizzoni e il rosso della terra. Da lì in poi divenne il colore per antonomasia. Fu scelto dagli incoronati e dagli stessi incoronanti. Col passare del tempo, divenne il colore di molti stemmi di città e di bandiere, del Corsaro Rosso e delle favole, dei garibaldini e delle toghe, degli abiti di vescovi e cardinali e degli addobbi natalizi, delle lotte degli operai e dei cortei della sinistra, per finire nel tifo sfegatato di molte maglie di serie A. Una simbologia contraddittoria, certo, ma a tutto c’è una ragione. Di sicuro il rosso è stato ed è ancora la tinta per eccellenza. Con l’aumentare del prestigio del rosso, soprattutto porpora, nacque una vera e propria malattia, la porporomania. Insomma il rosso con il tempo è divenuto una specie di status symbol, e quindi esclusiva di porporati e potenti. Solo con l’avvento delle rivoluzioni liberiste è passato in uso anche nelle categorie sociali più modeste. E quindi noi nohani, il colore rosso ce lo portiamo dentro ovunque si vada perché è legato all’immagine della nostra terra e alla bellezza della natura che essa stessa genera con i suoi colori e frutti. Terra che ha dato da vivere per secoli a tante famiglie e che invece da qualche tempo stiamo maltrattando ricoprendola di pattume, spacciato a volte per tecnologico, da piattaforme di cemento e da nastri chilometrici di bitume. Nel lasso di tempo di pochissime generazioni abbiamo sepolto più terra che miliardi di uomini in migliaia anni. Fino a poco tempo addietro (i nohani della mia generazione ne sono testimoni), le cappelle di S. Antonio, della Madonna di Costantinopoli e del Buon Consiglio, segnavano il limite dell’area urbanizzata di Noha. Superandole si era in aperta campagna. Il che voleva dire estensione di verde e terra rossa, tracciati di carrarecce e profumi di fiori. Oggi quel limite non esiste più. E’ fuso in egual modo ai medesimi dei paesi limitrofi. Un unicum indefinito di case, strade e mega-porcate di vario genere. Così mentre obbediamo all’incitazione del progresso, la terra si ammala, e noi dietro ad essa. In compenso i nostri figli continuano ad emigrare per cercare altrove ciò che potremmo avere in casa. Un’altra storia questa, ma sempre tinta di rosso, rosso- rabbia. Gli unici beni che ci restano e che per fortuna non possono essere de localizzati, come si usa fare di questi tempi con il lavoro, sono appunto la terra e i nostri beni culturali.

Come le emissioni di gas nocivi devono essere ridotte oggi e non domani, così anche la copertura eccessiva della terra deve essere fermata oggi e non quando il suo recupero sarà irreversibile. Se non decidiamo al più presto che il trend di avanzamento di questa tragedia deve finire, ci vuol poco a immaginare quale rosso vedranno i nostri nipoti guardandosi intorno. Non certo il rosso di vergogna che dovrebbe bruciare sulle facce degli attuali responsabili di questa tragedia, che siamo noi tutti, nessuno escluso, bensì il rosso della loro (dei nostri nipoti) stessa collera per aver ereditato (non certo meritato) un disastro senza pari.

Forse l’unica memoria prestigiosa del rosso che resterà, anche se sbiadito (perché a quanto pare non frega niente a nessuno, politici compresi), è quello della torre dell’orologio, dei sotterranei del castello adiacenti all’ipogeo, della casa rossa, dell’ex cinema dei fiori, degli affreschi nascosti sotto la calce delle colonne della chiesa matrice realizzati da Cosimo Presta, pittore nonché stuccatore della chiesa madre e di una prestigiosa casa privata di Noha, di ciò che resta delle casette che forse qualcuno aspetta che vadano in frantumi per costruirci al loro posto due piani di appartamenti. Forse possono essere salvati solo più da un miracolo del nostro San Michele Arcangelo, come avvenne nella notte del 20 Marzo del 1740, evento miracoloso riportato nel libro della storia di Noha (“Noha, storia, arte e leggendadi P. Francesco D’Acquarica e Antonio Mellone, Milano, Infolito Group Editore, 2006), allorquando il nostro San Michele fermò l’uragano con un semplice cenno del suo mantello rosso.

Ecco, questo è quanto chiedo come regalo per il Natale in arrivo: la salvezza dei nostri unici beni culturali che, ahimè, gridano vendetta, compresa la terra che ancora si oppone alle colate delle nostre mega-porcate.
E perché no, aggiungo anche la preghiera per una valanga di rosso che si riversi sulle facce di certi pseudo-elargitori di politica, che hanno perso il pelo, sì, ma non il vizio di fingersi sordi, accecati come sono dall’ignoranza, dagli imbrogli e dalla mancanza di rispetto per Dio. Barcollanti senza mèta, se non la fame di una banale onnipotenza.

Marcello D’Acquarica
 
Di Raimondo Rodia (del 07/01/2020 @ 21:02:17, in NohaBlog, linkato 3213 volte)

Era da molto tempo che volevo raccontare lo stemma di Noha, tra i più originali e particolari tra i tanti presenti in terra d'Otranto, con simboli che secondo me hanno poco a che fare con la storia del luogo. Allora passiamo a descrivere direttamente lo stemma iniziando proprio dalle tre torri che rivedo nell'affresco della basilica di Santa Caterina della " Pentecoste " presente nel deambulatorio di destra, dove cinquanta giorni dopo la Pasqua si vede lo Spirito Santo discendere su Maria ed intorno a lei i dodici apostoli ed alle sue spalle le tre torri che come nel nostro stemma rappresentano la Maria moglie e non madre come raccontato in molti vangeli apocrifi. Sono proprio le tre torri a rappresentare Maria Maddalena o di Magdala traduzione di " Torre " sia in aramaico, che in ebraico. Migdal era un paese sulle sponde del lago di Tiberiade conosciuta anche come Genezaret.  Noha è un sito archeologico, che conserva questo toponimo da tempo immemorabile.

Noha era uno snodo cruciale di una strada che in epoca pre-romana collegava San Cataldo, sul mare Adriatico, a Torre San Giovanni, sul Mare Ionio. Che è come dire Felline, o meglio, il porto di Felline chiamato Posto Rosso a ricordare le origini Fenicie. Se Magdala significa " Torre " il nome Maria potrebbe significare “ribelle”, “amara” o “forte”, ma anche “colei che si innalza” o che “è innalzata” oppure ancora “profetessa” o “Signora”. La tradizione cristiana di San Gerolamo la fa derivare dall'ebraico “mar yam” (goccia di mare), in latino Stella maris, “stella del mare”, con cui viene pure indicata la madre di Gesù, chiamata Maria Vergine. Stella Maris era pure il nome di una nave templare che solcava la rotta di “Ofiuco”, legata alla storia oppure alla leggenda come molti ritengono delle sette sorelle, alle quali si deve collegare la fondazione dell’Ordine delle sorelle di Maria Maddalena (anno 1224), ad opera del Cavaliere Templare Rodolfo di Worms.

Quindi nello stemma di Noha ritroviamo la torre ad indicare Magdala la Maddalena che rappresenta in alcuni racconti gnostici le varie dee tipicamente rappresentative dell'amore di tipo sessuale come Ishtar, Astarthe, Afrodite o Venere che hanno come parallelo la figura dell'Immacolata concezione con la falce di luna sotto i piedi. Proprio qui a Noha all'interno della stessa matrice lo stemma che troviamo all'esterno fu ripreso da quello esistente sull'organo a canne, che si presume sia del 1723, costruito insieme all'altare maggiore  dall'allora arciprete di Noha Don Nicola Antonio Soli. Di quel periodo anche il quadro dell'Immacolata concezione che custodisce un particolare piccolo, ma significativo, che ho voluto ingrandire ed immortalare nella foto si tratta di una sirena con due code.

Da sempre l’uomo ha trovato nei simboli sessuali degli elementi apotropaici forti e capaci di allontanare le forze maligne ed assicurare, ad una famiglia, alla costruzione di una casa, di una città, per ottenere fertilità, procreazione e rinascita. Da qui l’usanza di rappresentare queste strane forme ed oggetti sessuali su luoghi di culto nelle altre foto alcuni esempi vi sono in due chiese di Galatina, presenti nel centro storico a pochi metri uno dall’altra S. Luigi e la chiesa della SS. Trinità meglio conosciuta come quella dei Battenti. Questi simboli, ben lungi da esser gesti osceni e blasfemi, vennero nel tempo esorcizzati dalla Chiesa che le collegò al peccato universale, ma questi simboli altro non erano che il ricordo di culti millennari e rituali antichi mai scomparsi e fin troppo radicati nella tradizione popolare. In realtà la tradizione vuole l’ostentazione di tali simboli legati agli organi genitali maschili e femminili presenti sulle mura dei palazzi o luoghi sacri. Numerosi i casi di ostentazione dell’organo sessuale femminile, vi sono infatti molte chiese romaniche e gotiche dove su capitelli, e bassorilievi, sono raffigurate figure femminili che, con le mani, divaricano le gambe mostrando così la vulva, simili raffigurazioni le troviamo ad esempio nella cattedrale di Otranto, dove la nostra sirena con due code si trova tra i sedici tondi del presbiterio accanto a Re Salomone.

Quindi ricapitolando il tutto nello stemma di Noha si ricorda con le tre torri Maria di Magdala ( torre ) il mare in tempesta l'arrivo della Maddalena in occidente via mare ma anche ricordare le antiche origini del luogo che potrebbero essere fenicie, lo stesso nome Noha potrebbe derivare da origini semitiche o cananee. Infine fuori dallo stemma a completare l'opera un rametto di quercia a destra, che piantato accanto ad una fonte proteggeva dalla siccità. La quercia sacra a Giove, era una tra le piante di buon auspicio, simbolo di virtù, forza, coraggio, dignità e perseveranza. A sinistra invece un rametto di arancio da sempre simbolo di purezza, felicità, prosperità e abbondanza non a caso simbolo eterno i suoi fiori nel matrimonio, entrambi i rametti legati con un fiocco che forma un otto coricato simbolo dell'Infinito. Interrompo qua ma vi assicuro che c'è tanto ancora da scoprire e spero di aver dato un piccolo contributo anch'io a svelare il mistero che si cela nello stemma di Noha.

Raimondo Rodia 

 

* La foto in bianconero contenente l'altare maggiore non più esistente dal 1970 proviene dall'archivio personale di Marcello D'Acquarica.

* Le notizie dell'organo a canne del XVIII secolo con la presenza del primo stemma comunale e dell'arciprete Soli provengono dal libretto : Curiosità sugli arcipreti e persone di chiesa a Noha di  padre Francesco D'Acquarica edito da l'Osservatore Nohano.

 
Di Albino Campa (del 27/08/2006 @ 20:46:16, in Eventi, linkato 3242 volte)
Ricorre nel 2006 il centenario della fondazione della CGIL, sindacato dei
lavoratori. Anche Noha ha avuto protagonisti importanti nella storia di quel
glorioso sindacato. Sarebbe proprio il caso di celebrare l'evento storico
del centenario attraverso l'uso della memoria collettiva. Ci stiamo
riferendo alla sig.ra Isa Palumbo "la Isa" (1920 - 2003), cittadina di
Noha, battagliera esponente di quel sindacato di sinistra nel corso degli anni
ruggenti delle lotte per la conquista dei diritti dei lavoratori.

La memoria si  può esercitare, ad esempio, leggendo quanto fu scritto su "il
Titano" n. 12 del 27 giugno 2005 (articolo riportato nel libro "Noha.
Storia, arte, leggenda", pg. 366 -370); visionando il film - documentario di
Luigi del Prete, "Le tabacchine", ed. Easy  Manana, e, non ultimo,
intestando in maniera ben visibile una strada, un quartiere, un giardino,
una sala, ecc. di Noha.
I buoni frutti nascono da alberi che hanno coscienza delle loro radici.

Gli internauti di Noha.it esprimano il loro accordo o disaccordo su questa
iniziativa....
 

Lo spettacolo ripercorre la leggenda dell'uomo "vestito di nero", The Man In Black, come fu definito per via del suo abbigliamento, attraverso storie, aneddoti ed i migliori brani della sua intera carriera.

Il repertorio ripercorre la carriera della leggenda del country dall'esordio con la Sun Record del 1955 con il classico sound "Boom-Chicka-Boom", passando per alcuni celebri Talking Blues e per il Rockabilly di fine anni '70, fino agli ultimi album.I grandi classici come "Ring of Fire", "Walk the line" e "Folsom Prison Blues" saranno alternati ad alcune delle cover registrate negli ultimi album della sua carriera ("Hurt", "Solitary Man", "She Used to love me alot").

Durante la serata ci sarà la possibilità di ordinare delle pizze per una piacevole cena conviviale.

Arci Levèra Noha

 

Tre giornate programmate dalla Città di Galatina, Assessorato alla Cultura, con il contributo della Regione Puglia, Assessorato Mediterraneo, Cultura e Turismo, e la collaborazione del Club UNESCO di Galatina, ricche di appuntamenti per promuovere interesse, studio e ricerca intorno all’unicità della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria e del suo ciclo di affreschi.

Il 21, 22 e 23 novembre la Chiesa - per vastità dei suoi cicli pittorici seconda solo alla Basilica di San Francesco d’Assisi - e i suoi affreschi, che da tempo attirano l’attenzione di importanti critici e storici dell’arte, saranno al centro di una serie di azioni il cui obiettivo fondante, nelle intenzioni del Comune di Galatina e del locale Club UNESCO, è promuoverne non solo la conoscenza presso il più vasto pubblico, ma soprattutto promuoverne lo studio, primo passo del complesso iter necessario per ottenere il riconoscimento internazionale UNESCO e la sua iscrizione nella Lista dei Siti Patrimonio dell'Umanità. Non solo, le iniziative previste – mostra, installazione virtuale, lectio magistralis e ricostruzioni storiche – intendono agire a sostegno della prossima creazione di un Centro Studi sulla Basilica di Santa Caterina d'Alessandria presso il Polo Biblio-Museale Comunale.

La manifestazione avrà inizio venerdì 21 novembre alle ore 18:00 con una tavola rotonda presso la Sala “Celestino Contaldo” del Palazzo della Cultura in Piazza Dante Alighieri. L’incontro avrà come oggetto lo studio della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, simbolo della forte presenza della famiglia Orsini nel nostro territorio. Al dibattito, moderato dall'Assessore alla Cultura del Comune di Galatina Prof.ssa Daniela Vantaggiato, partecipano i Proff. Giancarlo Vallone, Benedetto Vetere e Loris Sturlese dell’Università del Salento e il Dr Antonio Cassiano direttore emerito del Museo Provinciale di Lecce . L’appuntamento, che registra la presenza di un’ospite d’onore, la Prof.ssa Maria Paola Azzario, Presidente della FICLU (Federazione Nazionale dei Centri UNESCO) e Membro della Commissione Nazionale UNESCO del Ministero degli Esteri, rappresenta una tappa del progetto di valorizzazione di S. Caterina, elaborato dal Comune di Galatina e sostenuto dalla Regione Puglia, che si è avviato negli ultimi mesi con la collaborazione di altri studiosi, della stessa Basilica e del Club UNESCO di Galatina.Alle ore 20:00 sempre all’interno del Palazzo della Cultura verrà inaugurata "Di cieli e di mondi: tra Medioevo e Rinascimento in Terra d'Otranto", mostra di documenti e libri rari a cura del dott. Luca Carbone, in collaborazione con le dott.sse Beatrice Chezzi ed Elisa Moro e con la partecipazione delle cooperative "Libermedia" e "Le pagine". La mostra si articola su più livelli: come in un viaggio nel tempo, i volumi esposti, incunaboli e cinquecentine di uno dei più ricchi e preziosi repertori di Puglia, si propongono di riesplorare i territori di studio e d'interesse che sono maturati in lunghi secoli, nel Salento ed a Galatina in particolare, grazie alla confluenza di molteplici influenze: ebraiche, greco-bizantine, arabe e latine; da qui anche il titolo della mostra che rimanda alla molteplicità di visioni del cosmo e dell'uomo, che si sono confrontate, scontrate, amalgamate tra medioevo e rinascimento. All'esposizione dei volumi si affiancheranno, grazie alla collaborazione dello spin-off dell'Università del Salento AVR-MED (Augmented Virtual Reality for Medicine), due postazioni in cui viene utilizzato un prototipo sperimentale per sfogliare i volumi pregiati, e digitalizzati, senza usare supporti fisici. Sempre grazie a questa applicazione verranno per la prima volta offerti alla consultazione di un più vasto pubblico anche quaderni e registri dove lo studioso Pietro Cavoti ha raccolto relazioni, corrispondenze, mappature e disegni concernenti la Basilica di Santa Caterina. E poi ancora alcune delle pergamene originali di età orsiniana custodite dal Museo Cavoti, e per la consultazione, uno scaffale degli studi orsiniani e cateriniani sinora prodotti, disponibili nei Fondi della Biblioteca Siciliani, il tutto accompagnato da materiali illustrativi e didascalici; la mostra sarà visitabile fino al 6 dicembre.La seconda giornata del weekend Orsiniano, sabato 22 novembre, si aprirà con Philippe Daverio, insigne storico dell’arte, il quale a partire dalle 17:30 sarà a disposizione nella Sala del Sindaco a Palazzo Orsini per un incontro con giornalisti (è richiesto l’accreditamento), studenti ed addetti ai lavori. A seguire, alle 19:00, il Prof. Daverio terrà all’interno della Basilica, una Lectio Magistralis sulla Basilica di S.Caterina d'Alessandria a Galatina, “una meta leggendaria".

 A seguire, sempre all'interno della chiesa, si potrà fruire dell'installazione "Virtual Reality Experience" conla visita allo spazio Dune Cube del consorzio CETMA di Brindisi, per fare una singolare esperienza della Basilica e dei suoi affreschi; grazie alla collaborazione sinergica tra ingegneri, architetti, informatici, modellatori 3D e professionalità accademiche, come storici ed archeologi, il dispositivo Dune Cube permetterà di fare una esperienza di realtà virtuale in ambito culturale,  grazie a scenari e soggetti 3D ad alto impatto visivo e scientificamente validati.

Il weekend si conclude domenica 23 novembre con i festeggiamenti civili e religiosi: in Piazzetta Orsini, nelle Corti e nelle vie del Centro Storico i cantastorie di “Raccontami Sherazade” reciteranno racconti ed aneddoti del ‘300 e ‘400 galatinese; saranno inoltre disponibili visite guidate presso la Basilica.La manifestazione è patrocinata dal Ministero dei Beni Culturali , dalla Federazione  Nazionale dei Centri UNESCO (FICLU), e dalla Federazione Europea dei Clubs e Centri UNESCO (FEACU), ed è stata organizzata in collaborazione con l'Università degli Studi del Salento, l'Accademia Belle Arti di Lecce, la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, il Club UNESCO di  Galatina,  la Sezione di Storia Patria di Galatina,  iI Centro di Studi Orsiniani,  il Centro Studi Salentini.

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Di Albino Campa (del 10/12/2006 @ 20:17:23, in Racconti, linkato 4238 volte)

Da 'il Galatino', anno XXXIX, n. 21, dell'8 dicembre 2006, per la solita penna di Antonio Mellone, leggiamo la storia del tabacchino di Noha. Ve la proponiamo in tre parti, o, se preferite, in tre puntate settimanali. Anche questo è un contributo per la conoscenza della nostra bella cittadina e della sua storia economica.

IL TABACCHINO DI NOHA
(prima parte)

Abbiamo già detto, e qui lo ribadiamo ancora una volta, che nel nostro recente libro “Noha. Storia, arte, leggenda” (Infolito Group, Milano, 2006; scritto a quattro mani con il P. Francesco D’Acquarica), benché voluminoso, per ovvie considerazioni non abbiamo potuto esporre e citare, rispetto a quanto già fatto, numerose altre storie, esaminare mille altre aziende, parlare di tutti i personaggi di Noha (posto che sia possibile conoscere tutti i personaggi di un luogo, per quanto piccolo questo possa essere)…
Qualcuno ancora oggi ci ferma per strada e ci ricorda le nostre “omissioni”.
Ma eravamo ben consapevoli di questo sin dal principio del lavoro (ed in alcuni brani del testo lo abbiamo anche ripetuto): chissà quante altre cose o accadimenti o soggetti o artisti sono rimasti nelle nostre penne (o nei tasti dei nostri computer). E chissà quanto ancora ci sarà da scoprire, studiare, riscrivere, ripensare, confutare (anche!), gli argomenti o i temi che nel suddetto libro s’è trattato soltanto superficialmente o non s’è trattato affatto. 
In questo intervento tratteremo, dunque, di uno di codesti “omissis”, che, volendo, potrà essere conservato come foglio volante, da inserire tra le pagine del summenzionato tomo: stiamo parlando del “tabacchino di Noha”.
Il tabacchino era ed è forse il negozio più diffuso in Italia. Già sin dagli inizi del secolo scorso, anche a Noha, proprio in piazza San Michele ce n’era uno condotto da tale Ciccio Liguori, ma molti non lo ricordano quasi più… 
L’altro invece che affiora nella memoria di più di un giovanotto dalla manifesta canizie era il tabacchino ubicato all’angolo tra la piazza San Michele e la via Castello, là dove oggi è situata la sede dei Democratici di Sinistra (già sezione del Partito Comunista Italiano).
In quell’angolo c’era un negozietto: il tabacchino di don Lisandro (Alessandro) e di donna Elvira. Don Lisandro e consorte, che abitavano in una stanza al piano superiore della loro bottega, vendevano i prodotti dei Monopoli di Stato come sale da cucina, e tabacco: tabacco da pizzico (da fiuto), sicàri (sigari), tabacco trinciato per la pipa e finanche tabacco da masticazione e le prime sigarette confezionate, che però rappresentavano solo l’eccezione: la maggior parte dei tabagisti, infatti, fumava sigarette autoprodotte artigianalmente, attraverso l’uso delle cartine contenenti tabacco sfuso, tagliuzzato e non lavorato.
In quel tabacchino trovavi anche capisciòle, bottoni e bucàte, bavette per i piccinni, spolette di cotone bianco o colorato. In un lato del negozietto, don Lisandro, per arrotondare, esponeva per la vendita anche coppole, cappelli, berretti e copricapo di ogni taglia (ma senza troppa scelta di forme o colori: non c’erano ancora le sfilate di moda e le griffes dei giorni nostri).
Poi (gli anni pesano a tutti) don Lisandro lasciò; sua figlia Edda “sposò a Gallipoli”, andò a vivere nell’amena città ionica ed il negozio fu chiuso.
Fu riaperto subito dopo, sempre nel cuore di Noha, da Luigi Mazzotta (Cici), originario di Galatina e da sua moglie Antonietta (Tetta): e fu così inizio di tre generazioni di tabaccai, come diremo.

ANTONIO MELLONE

 

Il progetto di un team di archeologi, ricercatori e guide turistiche abilitate dalla Regione Puglia, riuniti nella società coopertiva "Polisviluppo", mira alla mappatura completa dei luoghi di Puglia che rivendicano la cosiddetta “Tradizione Petrina”, ovvero il presunto passaggio di San Pietro in terra italica alla metà circa del I secolo, con il relativo patrimonio culturale ad essa collegabile (chiese, siti archeologici, monumenti, bellezze naturalistiche, ecc..).

Il progetto permetterà, attraverso specifici itinerari turistici e culturali, la conoscenza e la valorizzazione di un insieme di territori legati al viaggio apostolico di San Pietro che, come riporta un’iscrizione latina posta sul Santuario di Santa Maria di Leuca, giunse sulle sponde Salentine nel 43d.C.

Per questo, Galatina non può che porsi come luogo eletto per ragioni storiche e di tradizione.

Risale al 1188 il primo documento storico relativo a Galatina, menzionato non a caso come casale Sancti Petri in Galatina. Sulla scia della tradizione petrina in questo luogo, infatti, sostò il pescatore di Cafarnao reduce del viaggio da Antiochia verso Roma, dove tra il 64 e il 67 subì il martirio per crocefissione.

"San Pietro in Galatina" figura anche in una delle quaranta carte geografiche affrescate sulle pareti di una galleria dedicata, all'interno dei Musei Vaticani.  Le carte raffigurano le regioni italiane e i possedimenti della Chiesa all’epoca di papa Gregorio XIII e furono dipinte tra il 1580 e il 1585, sulla base di cartoni di Ignazio Danti, famoso geografo del tempo.

Fu l’arcivescovo di Otranto, Gabriele Adarso de Santander (1657-1674), residente nel castello galatinese dei Castriota per timore delle incursioni turche, ad alimentare la devozione verso il santo, facendo collocare all’interno della chiesa matrice, dedicata ai Santi Pietro e Paolo, un masso rinvenuto in contrada San Vito e utilizzato da Pietro, secondo la leggenda,  per riposare le stanche membra dopo aver predicato la buona novella. Il culto si radicò fino a tal punto che solo dopo l’Unità d’Italia la città mutò il nome e, pur rimanendo sotto l’ala protettiva del vicario di Cristo in terra, venne denominata solo ed esclusivamente Galatina.

Le chiavi pontificie presenti nello stemma di Galatina testimoniano la scelta di questa città, da parte dei Papi, quale centro propulsore di latinità nel Salento proprio nell'intento di contrastare la presenza di cultura greca e il rito religioso bizantino. Le chiavi furono concesse per insegna dal Pontefice Urbano VI che, tenuto prigioniero a Nocera, fu liberato dai Galatinesi guidati da Raimondello Orsini del Balzo.

“San Pietro in Galatina” era uno dei feudi che costituivano la Contea di Soleto, per cui, fino ad un certo periodo, i feudatari Conti di Soleto furono anche utili Signori di “San Pietro in Galatina” fino a quando, poi, questo centro prese il sopravvento sugli altri.

Le "Mappe Petrine", che saranno il prodotto finale di questa prima fase progettuale, collegheranno tra di loro diversi territori della Puglia, dal Gargano fino al Capo di Leuca  favorendo un turismo lento e sostenibile, sia di natura religiosa che di interesse storico-culturale.

Sarà quindi un’ulteriore occasione per fruire delle risorse materiali ed immateriali della Città facendo crescere, con un progetto sempre più organizzato, le ragioni di interesse verso Galatina, oltre ciò per cui è comunemente apprezzata.

Nico Mauro

Assessore al turismo

 
Di P. Francesco D’Acquarica (del 28/11/2018 @ 19:46:17, in NohaBlog, linkato 1543 volte)

Bellissimi questi ricordi, mentre P. Francesco ricorda e si emoziona nel rivedere quei posti dove è stato bambino, ci regala dettagli  storici del nostro territorio che altrimenti non avremmo potuto conoscere. Ci permette anche di notare, ahimè, la condizione di abbandono di quella campagna e di solennità perse riguardanti i viali e il caseggiato.

Un aspetto, questo dell’abbandono, riscontrabile un po’ ovunque nelle nostre campagne:

canali colmi di rifiuti, vore ingolfate da discariche d’ogni genere (come la Marsellona del sito in questione), recinzioni senza “scarichi” che di fatto sono barriere, e ruderi. Questo è spesso lo scenario che accomuna le nostre campagne.

Non basta dire che la colpa è di questo Ente o di quel Comune, forse servirebbe di più un esame di coscienza collettivo.

Marcello D’Acquarica

Emozioni e ricordi

Quanti ricordi, quante emozioni vissute nella campagna di Noha il 23 novembre scorso. Mi si è data l’occasione di rivisitare quella che era stata la proprietà dei Signori Gizzi. L’estensione dei loro terreni tanti anni fa era enorme, oggi è suddivisa in 10 proprietari diversi.

Quando ero piccolo, vi sto parlando di un po’ di anni fa, (dal 1935 al 1945), durante l’estate mia madre mi portava a trovare il nonno (suo papà) che coltivava la campagna nella contrada “Monta-nara”, rretu lu muredhra, a lli Chiriatti, che confinava con li Gizzi. Lì conobbi Don Nicola, che poi divenne mio padrino di Cresima. Giusto perché chi legge si possa rendere conto di quale periodo sto parlando: io ho ricevuto il sacramento della Cresima il 27 giugno 1945.

I Gizzi erano una delle tante famiglie immigrate a Galatina, (come i Liguori, gli Astarita, i Pennino, e via dicendo). Abitavano a Galatina in Via Siciliani al numero 73, ma l’estate venivano qui, nella campagna di Noha, per godersi la frescura.

Il padre, Vincenzo (il M° Gizzi), nato a Castel di Sangro, in provincia dell’Aquila, il 10 febbraio 1854, fece di Galatina la sua città, dove morì all’età di 86 anni. Era direttore di banda (da qui il soprannome di “capibanda” dato a tutti i componenti della sua famiglia), e aveva una forte influenza sui figli: una ragazza, casalinga, Marianna Grazia, detta donna  Nina  e tre maschi: don Eugenio, professore di musica, don Raffaele tipografo e don Nicola, coltivatore diretto.

Don Eugenio fu professore di matematica nella scuola ‘media’ privata galatinese, ubicata presso l’Orfanotrofio femminile, che evidentemente funzionava anche da pensione, visto che teneva lezione soltanto per le studentesse esterne, pendolari o fisse. E tuttavia egli considerò l’insegnamento della matematica il modo più onesto e leale di guadagnare per vivere, mentre i suoi interessi intellettuali più profondi lo portarono a coltivare la musica, e meglio ancora la nobile arte della composizione, alla quale dedicò tutta la sua vita personale e privata.

Don Raffaele, impiantò una tipografia, dislocandola in via Siciliani, esattamente a fianco dell’abitazione della famiglia.

L’altro, don Nicola, divenne meccanico, tra i primi attivi a Galatina, fra l’altro proprietario di una moto (una “Guzzi”), di quelle che raramente circolavano nel territorio provinciale. Era a suo modo uno spirito creativo, studioso delle meccaniche motoristiche, tanto da venire poi chiamato ad insegnarle nella locale Scuola d’Arti e Mestieri. Aveva aperto un’attrezzatissima officina in via Turati, e anche lì riceveva i propri allievi, impartendo loro “lezioni pratiche” che completavano il ciclo di quelle teoriche tenute nelle aule scolastiche. I galatinesi lo rispettavano e per loro era “don Nicola”, il professore che di pomeriggio era in tuta, con le mani nere di olii e di grassi, e non di rado, la sera, teneva corsi complementari sui motori a scoppio per due e per quattro ruote.

Nessuno dei fratelli Gizzi si sposò: perciò questo cognome non è più presente a Galatina e la loro proprietà fu lasciata in eredità alla Chiesa Madre.

Nello scrigno dei miei ricordi ricordo bene donna  Nina e i tre maschi: don Eugenio, don Raffaele e don  Nicola. Il padre don Vincenzo, non l’ho mai conosciuto. Mi avevano insegnato a chiamarli con il  ‘don’ perché gente ricca e benestante. Quando si spostavano da Galatina alla campagna, dovevano passare per forza da Noha, davanti a casa mia in Via Aradeo e ricordo ‘lu durote’ con il cavallo guidato da don Raffaele. Ho potuto assistere alla morte di don Eugenio, perché da ragazzino ogni tanto andavo a trovarli e mi trovai nei momenti estremi della sua vita. Poi entrai in seminario e non ne seppi più nulla.

Nel periodo in cui i Gizzi erano in campagna, don Nicola,  che era molto pio, ogni giorno in bicicletta veniva a Noha prima delle ore 13 per fare la Santa Comunione. In quel tempo non c’era ancora la Messa della sera e per aver diritto alla Santa Comunione bisognava essere digiuni dalla mezzanotte, astenendosi anche dal bere l’acqua. Lui osservava il digiuno eucaristico fino alle ore 13, l’ultima ora possibile per ricevere l’Eucaristia: nel pomeriggio ciò era vietato, e lui ci veniva ogni giorno. Essendo mio padrino di Cresima, a volte si fermava dai miei, chiedendo di vedere la mia pagella scolastica per informarsi sul mio andamento di piccolo allievo alle elementari. Alla mia prima Messa celebrata a Noha (3 aprile 1961) mi regalò il calice per la celebrazione. Conservo anche una registrazione della sua voce che feci con il registratore “Geloso” quando ero già sacerdote.

A distanza di tanti anni ho rivisto quella campagna che avevo frequentato nella mia infanzia. Forse il mese di novembre non è il tempo migliore, perché la pioggia abbondante di quei giorni non mi ha permesso di entrare nei campi allagati. Ma ho avuto l’impressione di una campagna abbandonata. Mi ha impressionato la ‘vora’ ingolfata con il canale di scolo che non è più canale ma palude a ridosso dei terreni allagati. Il grande viale d’entrata con i due filari di rose che dalla strada conduceva all’abitazione non c’è più, ma è rimasto un  triste passaggio senza la solennità di 70 anni fa; le maestose colonne con il cancello sono state rimosse e sistemate vicino alla villetta che era abitata dai Gizzi: per fortuna la casa è ancora quella. Gli alberi da frutta non ci sono più. La villetta ora è abitata per poco tempo durante i mesi estivi e gli uccelli ne diventano gli abituali abitanti abusivi.

Ho rivisitato quello che era il soggiorno dell’abitazione dove la famiglia Gizzi consumava il pranzo. Ho rivisto con l’immaginazione la famiglia Gizzi riunita per il pranzo, dove a volte io capitavo e mi offrivano la frutta che per me era come una rarità. Ho rivisto l’angolo dove c’era una specie di  poltrona: lì don Nicola si sedeva e, a suo modo, quando andavo a trovarlo, mi coccolava. Anche la volta della sala è ancora affrescata come allora: mi è sembrato come se il tempo si fosse fermato.

Ringrazio Angelo Di Benedetto, detto Lillino Papatore, l’attuale proprietario dell’ex villino Gizzi, che mi ha dato la possibilità di rivivere uno squarcio della mia infanzia. Gli ho regalato il volume “Noha, storia, arte e leggenda” pubblicato nel 2006 insieme ad Antonio Mellone. Insomma, grazie a lui ho rivissuto un altro tassello della storia di Noha mescolato alla storia della mia vita.

 

  P. Francesco D’Acquarica

 
NOHA. STORIA, ARTE, leggenda: DA CASA A CASA, TRA GNOMI E DUCHI
DI
GIULIANA COPPOLA

Da dove si comincia? Si comincia sfogliando piano… e i “cittadini del sole” sentiranno il profumo di Noha, tutto il profumo, del passato, del presente e (perché no?) anche del futuro, racchiuso in particolari da scoprire, in un sorriso di bimbo, in un tramonto dolcissimo, ad esempio. “Noha, storia, arte, leggenda” di Francesco D’Acquarica e Antonio Mellone che ne è anche il curatore, regala questo profumo che si percepisce se appena si apre la porta; il libro infatti, è “una porta pronta ad aprirsi se solo lo si vuole, perché come tutti i libri è li ed attende la decisione di chi lo ha scelto”… e allora tu segui parere saggio di Zeffirino Rizzelli, varchi la porta, e ti immergi in questa ricerca “nella quale il territorio, il folklore, la trasmissione orale, le tradizioni, il dialetto, la leggenda, il dato urbanistico, il dato sociologico, religioso e politico s’intrecciano: uno complemento degli altri: ordito di un unico tessuto”.
Non fai in tempo a stancarti, annoiarti o perderti; come ti dicono gli autori, la ricerca è un ordito di un unico tessuto, caldo e dolce come quello d’un tempo. Ti immergi in esso e vai.
Ecco: “Noha, storia, arte, leggenda” è, pagina dopo pagina, la conferma che esiste ancora, certo che esiste, la gioia della coralità, la gioia della tradizione orale; senti che così è, andando da documento a documento, ma anche e soprattutto da casa a casa, da corte a corte, da amico ad amico, da comare a comare, da bar a bar, da angolo ad angolo, cercando e ricercando ancora; ascoltando, in silenzio, la voce delle persone e delle cose, di ciò che si è dimenticato e di ciò che ancora esiste, di quel che si tocca con mano e di quel che s’immagina, di ciò che è storia e di quello che è già leggenda, favola, mito, fede.
Tutti hanno qualcosa da dire su questo angolo, ombelico del mondo, amato a volte più di se stessi; tutti ascoltano ma tutti poi aprono la porta ad Antonio che continua a bussare per sapere, per ricordare insieme, per comunicare, scoprire e condividere; per fermarsi un attimo e poi ricominciare.
Antonio, da curatore, si porta dietro lungo la strada da lui tracciata, un compagno di viaggio dopo l’altro e la storia si dipana colta e allegra, forte di documentazione, leggera di voci presenti; la realtà si accosta alla fantasia e la fantasia diventa mistero ed il mistero gioca tra sacro e profano, tra gnomi, principesse, duchi, nel silenzio di castelli, ipogei, casiceddhre, antiche torri, strade mitiche, fantasiose case rosse, ed è serena, allegra, sorprendente la Noha cristiana protetta da san Michele Arcangelo. Tra passato e presente… il presente è racchiuso in quel profumo di cui si è detto sopra; il presente è giovane come le immagini di Rinaldo, Michele e Daniele Pignatelli, gli ulivi di Paola, i versi dei poeti, le parole di don Donato Mellone che non invecchiano mai, l’augurio di Michele Tarantino, l’editore…
E il futuro?
Il futuro è una sfida… si crede nel libro, si crede che “faccia viaggiare più di un aereo, faccia sentire suoni, gustare sapori, annusare odori”. Ed ora? Ora si va tutti a Noha; sono aperte le porte e c’è ancora voglia di raccontare ed ascoltare.
(Giuliana Coppola)
 

Eccoci di nuovo noi battezzati invitati a vivere la Quaresima.

Ma cos’è ? Certo, una parola questa che non suscita entusiasmi.

Viviamo in un mondo distratto delle cose dello spirito. Il carnevale è molto più incisivo e presente. Alle persone più mature questo termine richiama alla mente immagini piuttosto cupe, immagini di severe penitenze, di rinunce, di insistenti considerazioni sul proprio peccato. Oggi,  quasi  neanche ce ne accorgiamo che è Quaresima.

Anche la Chiesa ha ridotto le forme di penitenza pubblica: un po’ di digiuno e astinenza dalle carni il mercoledì delle Ceneri e il venerdì santo, e privarsi della carne ogni venerdì fino a Pasqua: tutto questo come segno di attenzione per evitare i peccati. E’ il caso di dire che il Signore si accontenta anche delle briciole.

Quando ero piccolo la tradizione alimentare del periodo Quaresimale era caratterizzata da grande moderazione: infatti venivano eliminati dalle tavole la carne (che comunque a casa mia si mangiava solo due o tre volte l’anno), le uova, i latticini e i loro derivati. Sulla pasta, invece del formaggio grattugiato si metteva pane crattatu. Tali privazioni terminavano durante la Settimana Santa quando si preparavano i dolci tipici pasquali, tra questi la "Cuddhrura", dolce di forma circolare, con dentro un uovo sodo con tutto il guscio, che i fidanzati regalavano alla loro ragazza nel giorno della Resurrezione.

Per la Quaresima lungo i secoli si sono sviluppate pie pratiche e si sono aggiunte manifestazioni popolari. La parola stessa vuol dire “quaranta giorni”, che poi, se li contate, dal mercoledì delle ceneri fino a Pasqua sono più di quaranta. Anzi prima della riforma liturgica programmata dal Concilio Vaticano Secondo (1962-1965) c’era anche la quinquagesima (50 giorni), la sessagesima (60 giorni) e la settuagesima (70 giorni): parole queste ormai abolite. Quaresima (40 giorni dunque) è solo per dire a chi è battezzato che bisognerebbe dedicare un periodo di tempo abbastanza lungo per prepararsi spiritualmente alla Pasqua.

Chi scrive questi ricordi ha in mente altre usanze che sono esistite e vissute anche a Noha. Ve ne ricordo qualcuna, anzi diciamo subito che alcune sono ancora vive e vegete pur con delle varianti.

La Curemma

Possiamo cominciare dalla Curemma. Ai tempi della mia infanzia si usava esporre sui balconi o sulle terrazze un fantoccio, simbolo dell’inizio della Quaresima e della fine del Carnevale. Il fantoccio raffigurava una vecchia signora, magra e orrenda, tutta vestita di nero in segno di lutto per la morte del Carnevale. Nella mano destra aveva un filo di lana con un fuso, simboli della laboriosità e del tempo che scorre, e nella sinistra una marangia con dentro infilate sette penne di gallina per quante erano le domeniche mancanti dalla Quaresima alla Pasqua. L'arancia amara (o marangia) con il suo sapore acre rappresentava la sofferenza, e le sette penne, le settimane di astinenza e sacrificio antecedenti la Pasqua. Ad ogni scorrere di settimana si toglieva una penna. Alla fine del periodo, esaurito il filo da tessere, con la marangia  ormai secca e le penne esaurite, la curemma veniva rimossa dal terrazzo e appesa a un filo su di un palo. Una volta, quando la Pasqua di Resurrezione si celebrava la mattina del sabato santo, nel momento della caduta dellu mantu o pannu e il suono delle campane annunciava la Resurrezione, veniva bruciata con scoppi di mortaretti tra l’allegria di tutti, mentre il fuoco annunziava il periodo di purificazione e salvezza.

Secondo un’antica leggenda la Curemma era sposata con lu Paulinu, personaggio carnevalesco appartenente al folklore salentino, di cui si celebravano i funerali il martedì grasso. Il pupazzo della Curemma veniva costruito con grande cura e attenzione ai dettagli. La sua faccia era solitamente molto espressiva, con occhi sporgenti e bocca aperta, come a indicare il dolore e la sofferenza del peccatore. Le sue vesti erano anch’esse curate nei minimi particolari, con abiti stracciati e cappelli di paglia.

[continua settimana prossima con la seconda e ultima parte]

 

P. Francesco D’Acquarica

 
Di Marcello D'Acquarica (del 28/11/2016 @ 19:12:55, in NohaBlog, linkato 3231 volte)

Con immensa gioia condivido con voi tutti, l’ennesima testimonianza dell’amore che provano le persone  quando sono lontane dalla propria terra e dal proprio paese, in questo caso il nostro, che risponde al fantastico nome di Noha.

Fiorela e Fulvia D’Acquarica, che vivono in Brasile, sono figlie di Mario D’Acquarica, a sua volta figlio di Michele D’Acquarica, il pittore di Noha. Mio zio.

Mario emigra in Brasile il 27 maggio del 1954. Abbiamo trovato la targa esposta al “Museo del mare” di Genova, dove sono esposti i dati di tanti emigranti italiani del secolo scorso. Al suo arrivo in Brasile, svolge diverse attività. Fa anche il vetrinista in un grande magazzino, poi attore e scenografo per alcune reti televisive, fra queste ricordiamo la rete televisiva Tupi, la rete Globo TV, la rete Excelsior. Ha lavorato anche per molti anni, e fino alla sua morte, per la serie brasiliana molto famosa - Sesame Street, nel SBT (Brazilian Television System) dove ha ricevuto il trofeo ufficiale dell'anno. Mario quindi è a tutti gli effetti un artista: buon sangue non mente. Abbiamo alcune piccole opere della sua arte, fra cui un meraviglioso ritratto in grafite della moglie, Neyde Marques, realizzato nel 1955 (vedi foto). Le figlie di Mario, Fulvia e Fiorela, sentono molta nostalgia per il paese di origine della loro famiglia. Sovente mi chiedono informazioni sulle loro origini. Perciò a inizio anno, chiedo una copia del libro della Storia di Noha (“Noha, storia, arte e leggenda” di P. Francesco D’Acquarica e Antonio Mellone - Infolito Group, 2016) ad Antonio Mellone e mi decido di spedire in Brasile sia la copia del libro che il “Catalogo dei Beni culturali di Noha” (di Marcello D’Acquarica, Ed. Panico, 2008).

Così, dopo alcuni mesi di attesa a causa di un errore nella compilazione dei dati per la spedizione, finalmente il pacco con i due libri giunge a destinazione. Fiorela e Fulvia leggono con interesse e ci inviano le loro considerazioni.

Di seguito la loro lettera di ringraziamento di Fiorela e Fulvia:

Con grande piacere ed emozione profonda, abbiamo finito di leggere questo libro meraviglioso che si riferisce all'amata città di NOHA, e che abbiamo avuto l'opportunità di incontrare passando attraverso l'Italia meridionale nel 2006.
Anche Fiorela, farà prossimamente un viaggio nella terra in cui è nato il nostro caro nonno che purtroppo non abbiamo conosciuto e che ha vissuto, ha prodotto e ha lasciato un enorme patrimonio culturale per NOHA, e ovviamente, in onore del nome della nostra famiglia: artisti nati.

Il libro evidenzia la ricchezza con profondi dettagli sia del patrimonio storico che sulle varie curiosità. Abbiamo osservato con gioia che la nostra famiglia D'Acquarica ha lasciato e lascia un segno che ha avuto inizio con il nostro caro nonno Michele D'Acquarica, passando attraverso cugini e per ultimo a Marcello D'Acquarica che è stato estremamente gentile ad inviarci i due libri grazie ai quali siamo riuscite a capire un po’ di più di questa bella cittadina.

La scrittura, le illustrazioni e la presentazione delle copertine sono di una tale sensibilità che ci hanno fatto ricordare la splendida giornata, quando con i cugini Padre Francesco D'Acquarica e Giuseppe, andammo a vedere la casa dove nostro nonno è nato, le belle opere come per esempio il Calvario di Noha, gli affreschi e le altre opere a Cutrofiano. E’ piacevole e gratificante sapere che siamo parte di una famiglia che ha contribuito e contribuisce a sensibilizzare le persone nei riguardi del patrimonio storico che nessuno potrà mai portarci via. Grazie ai libri, nonostante l’usura dovuta agli anni, l’incuria e i danni vandalici, ci sarà sempre qualcuno che si ricorderà per tutto il tempo che i beni culturali di NOHA appartengono a tutti.

Fulvia e Fiorela D'Acquarica – Brasile

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Originale in lingua portoghese:

Agradecemos este carinho, primo Marcello D'Acquarica, que por meio deste livro, perpetue a história de NOHA e seus bens culturais. terminei de ler seu livro I Beeni culturali di NOHA, belissimo. anche mi sorela fiorela ha letto. Deixamos nossos comentários:

com grande satisfação e profunda emoção, terminamos de ler este belo livro onde relata de forma surpreendente a querida cidade de NOHA, que eu tive a oportunidade de conhecer de passagem pelo sul da Itália em 2006. 
Minha irmã Fiorela de certeza e num futuro próximo, também pisará em terras donde nasceu nosso querido avô (infelizmente não o conhecemos), que viveu, produziu e deixou um legado cultural enorme para NOHA e obviamente, para o segmento do bom nome de nossa família, artistas natos. O livro nos mostra riquezas de profundos detalhes tanto sobre o patrimônio histórico quanto curiosidades diversas. Pudemos observar com alegria, que nossa família D'Acquarica marcou e segue marcando presença começando com nosso querido avô Michele D'Acquarica, passando por vários primos e chegando em Marcello D'Acquarica que foi extremamente gentil e solicito ao enviar-nos este exemplar para que pudessemos entender um pouco mais desta bela cidade.

A escrita, a ilustração, a encadernação e a apresentaçao da capa sáo de uma sensibilidade tamanha que me fez voltar ao maravilhoso dia em que aí estive, com o primo Padre Francesco D'Acquarica e primo Giuseppe, que me levou a conhecer a casa onde nasceu nosso avô, ás belissimas obras como o Calvário, os afrescos entre outras. Que táo agradável e gratificante saber que fazemos parte de uma família que contribuiu e contribui sensibilizando a todos nohanos e náo só, que o patrimônio histórico é um legado que apensar dos anos se passarem, ninguém jamais poderá tirar-nos; mesmo que o tempo o desgaste, o danifique, haverá sempre alguém que o fará lembrar a todo instante que NOHA faz parte de todos.

Fulvia e Fiorela D'Acquarica – Brasil

 

Il nuovo cortometraggio del regista salentino Fausto Romano prodotto da Apulia Film Commission, con la produzione esecutiva di Oz Film, in anteprima al Festival del Cinema Europeo il 15 novembre presso il Cinema Massimo di Lecce.

La storia è ambientata negli anni ’50 del novecento, nella chiesetta di san Vito, a Calimera, dov’è custodita una sacra roccia forata. La pietra, antichissima, vanta poteri taumaturgici e sono state migliaia le donne che l’hanno attraversata nei secoli, infilandosi nello stretto buco per chiedere alla roccia la fertilità.

Secondo la leggenda nessuno è mai rimasto incastrato nella roccia, ma nel film di Romano, l’affascinante Maddalena, interpretata da Nicole Petrelli, ne rimane prigioniera in una notte di pioggia. Il custode muto, Vito, interpretato dallo stesso Romano, cercherà in tutti i modi di liberarla. Ci riuscirà?

“Ho cercato di raccontare un rito attraverso un altro rito: il cinema – dice l’autore – da sempre affascinato da tutto quel che lega l’uomo col divino e, nello stesso tempo, col terreno, con l’alto e col basso. Un percorso artistico e antropologico che ho intrapreso già col mio primo cortometraggio “Cratta” (vincitore del Premio Fellini e Premio Dino De Laurentiis).

La fotografia del film è firmata da Nicola Pertino, la scenografia da Gianfranco Protopapa e i costumi dalla leccese Lilian Indraccolo.

Dopo l’anteprima leccese, il film sarà distribuito nei più importanti festival nazionali e internazionali, facendo conoscere al mondo una storia dal sapore antico, magico che parla di un Salento misterioso e ancora sconosciuto.

 

Ufficio stampa

Gloria Romano

sanviturock@gmail.com

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www.instagram.com/sanviturockfilm

 
Di Albino Campa (del 15/06/2006 @ 19:02:23, in Libro di Noha, linkato 5395 volte)

Buonasera a tutti. E grazie per essere insieme a noi.

 

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 Ora prima di dire altre cose o che qualcuno, in seguito al mio intervento, caschi dal sonno, fatemi capire: fino a questo momento ne è valsa la pena? Siete contenti?

 Fatevi sentire!

 

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 Non posso che partire con un ringraziamento. Se questa sera siamo qui lo dobbiamo all’editore, Infolito Group di Milano, ma soprattutto a Michele Tarantino, di Noha.

 “Caro e illustre amico, permettetemi di mettere il vostro nome all’inizio di questo libro e ancora prima della dedica; perché a voi soprattutto ne devo la pubblicazione. Passando per la vostra magnifica perorazione, la mia opera ha acquistato ai miei stessi occhi quasi un’autorità imprevista. Accettate quindi l’omaggio della mia gratitudine, che, per quanto grande, non sarà mai all’altezza della vostra eloquenza e della vostra dedizione”. Con queste parole, il 12 aprile 1857 a Parigi, Gustave Flaubert ringraziava Monsieur Marie-Antoine-Jules Sénard, per la pubblicazione del suo splendido “Madame Bovary”.  

Credo che queste parole calzino bene – non saprei trovarne di migliori – per esprimere la nostra gratitudine a Michele per il nostro: “Noha. Storia, arte, leggenda”. Che non sarà un “Madame Bovary”. Ma insomma!

 

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 Allora prima che qualcuno si abbandoni, come dicevo, nelle braccia di Morfeo, vi dico un paio di cose. Ed ho pensato di incominciare… dando i numeri. Siamo di fronte ad un libro di 455 pagine; 3.773 paragrafi (per paragrafo intendiamo un periodo, una frase in cui abbiamo messo un punto e siamo andati a capo. Cioè non solo quando si mette il punto. Ma quando si mette il punto e si va a capo.).

Abbiamo scritto 14.518 righe (senza contare le didascalie alle foto che scritte di seguito assommano a ben 12 pagine fitte di espressioni); 124.318 parole.

 Se non ci credete, provate a contare!

 Perché vi ho dato questi numeri? Per raccontarvi della mole del lavoro che abbiamo svolto. Ma soprattutto per dirvi che, paradossalmente, di fatto, non abbiamo scritto niente. Come diremo: c’è molto altro ancora da studiare e scrivere.  

 

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 Ma andiamo, più o meno, per ordine.

Qualcuno di voi mi ha chiesto: ma quando hai scritto?

La risposta deve necessariamente seguire un ragionamento.

Sappiamo che in un anno (non bisestile) ci sono 8.760 ore. In media, ogni giorno: 8 ore di sonno, 1 ora e mezza tra sera e mattina: pigiama, sveglia, barba, doccia, notizie ecc. ecc., sono 3.468. Rimangono 5.292 ore.

Dieci ore di lavoro al giorno (sono direttore di una filiale di banca con dieci persone; ed un direttore non lavora meno di quelle ore al giorno, escluso il sabato e la domenica, ovviamente); e sono 2700 ore.

Ed in questo computo non calcolo le ore per gli eventuali (numerosi) corsi di aggiornamento o quelli non residenziali o cosiddetti manageriali altrove in Italia: Bari, Napoli, Milano…. Rimangono 2.582 ore.

Vado in palestra due volte la settimana (e si vede!) per un totale di 3 ore e mezza a settimana: sono 189 ore.

Per gli spostamenti da casa al lavoro e da Putignano a Noha (e viceversa) impiego circa 5 ore la settimana:  dunque 270 ore all’anno. Sottraendo anche queste ne rimangono 2.133.

Scrivo almeno una volta al mese su “il Galatino” (e non considero gli articoli saltuari inviati alle altre riviste). Per trovare l’argomento, documentarmi, stendere una prima bozza dell’articolo, rileggerlo, correggerlo, limarlo, inviarlo alla redazione: impiego a dir poco tre ore a settimana. Dunque altre 162 ore.

L’anno scorso ho seguito dei ragazzi di scuola superiore impartendo lezioni di matematica, ed un laureando e due laureande, rispettivamente in Economia e in Beni Culturali nelle loro tesi di laurea (correzione bozze, ricerche bibliografiche, ecc. ecc.): circa quattro ore a settimana. Altre 216 ore. Rimangono 1.785 ore.

Poi ci sono i giornali e soprattutto i libri. E Internet: almeno un’ora e mezza al giorno. Fa 547 ore.

Non rinuncio mai, ogni settimana, a cinema, o teatro, o concerti, o spettacoli, feste, passeggiate al mare, incontri con amici e amiche, scambi sociali, incontri galanti, la pizzeria, la santa messa domenicale, la caffetteria, la libreria, il pub; e poi ancora shopping, convegni, presentazioni di libri, viaggi,… che assorbono oltre 16 ore (in media) la settimana: sono 864 ore.

Rimangono 374 ore, (cioè un po’ più di 1 ora al giorno) da dedicare ai pasti, alla televisione, e, in qualità di invitato, a cerimonie, come battesimi, cresime, matrimoni,  ecc. ecc.

SIGNORE E SIGNORI: QUESTO LIBRO S’E’ SCRITTO DA SOLO!!!

 

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 Dunque il libro, come per magia, s’è scritto da solo.

Vi dico, tra l’altro, che la redazione del testo è forse la cosa più semplice da fare. O almeno per me così è stato.

Il problema inizia con l’Art Designer (cioè con il compositore delle pagine del libro), soprattutto se questo compositore si trova a Genova, come la signora Gabriella Zanobini Ravazzolo (che salutiamo con un battimani). Che è splendida, ma che non conosce Noha.

Per comporre un libro ricco di foto bisogna indicare dove vanno inserite le foto.

Ma non basta. Bisogna dire a chi non conosce Noha ad esempio che la foto del palazzo baronale deve avere un certo formato, quella di una casa anonima di un formato più piccolo; quella della torre va inserita in un certo contesto, mentre quella di una processione, o quella di una cassetta di pomodori, in un altro. Insomma un lavoro incredibile.

Se poi ti si impalla, cioè si inchioda il computer (abbiamo lavorato molto con le e-mail) perché la definizione delle foto assorbe e rallenta il lavoro; o se in qualche caso, come è successo, dopo aver scritto un brano o una frase, ti chiama qualcuno al telefonino, ti dimentichi di salvare, devi rifare il lavoro, ecc… potrete capire il livello di disperazione.

Se a tutto questo aggiungete una madre che ogni tanto ti dice: ancora con questo libro!?. Ma quando sarà pronto!? Mi pare ca sta vu la pijati a passatiempu!!! Potrete subito capire!!!  

 

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E non voglio parlarvi del lavoro per “sposare” i due scritti, per trovare un linguaggio omogeneo e semplice, per la cernita delle fotografie, per la loro ubicazione nel testo, per far combaciare le didascalie (dopo averle preventivamente pensate e scritte), per le note a piè pagina che  - non capivo perché – si sfasavano, per l’ordine delle foto inserite in ben sei CD con l’ordine tipico di un pazzesco marasma, che definire coacervo confuso è dire poco.  

 

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 A proposito di fotografie. Le fotografie oltre 460 sono parte essenziale del testo: per favore, però… se comprate il libro non limitatevi a guardare le fotografie riportate nel testo. Non limitatevi  a leggere le didascalie delle foto. Leggetelo, andate un po’ oltre le foto, potreste trovare cose incredibilmente interessanti o divertenti o affascinanti o curiose o intriganti o misteriose.

Tra l’altro il libro lo potete leggere anche a salti. Non è necessario seguire per forza la sequenza dei capitoli.

A proposito di cose carine vi vorrei raccontare l’aneddoto del telefono: lo trovate a pag. 336. E’ l’accadimento del telefono avvenuto tempo fa nel bar di Ninetto (che ci ha lasciato nel mese di novembre dello scorso anno).

Il telefono a muro color beige, è l’ultima cosa di cui vorremmo scrivere in questa sorta di nostalgiche “disiecta membra” sui bar di Noha.

Con il disco con i buchi per comporre i numeri, il telefono attaccato al muro, sulla sinistra dell’ingresso del bar, non era in una cabina: sicché di fatto era pubblico non solo il telefono ma anche la telefonata. Tutti gli astanti potevano quindi ascoltare per filo e per segno tutte le conversazioni  telefoniche (la privacy era ancora un vocabolo sconosciuto); anzi nel corso di una telefonata i presenti interrompevano le loro chiacchierate, facevano addirittura silenzio “per non disturbare chi telefonava” (e per cogliere meglio il succo della comunicazione). 

A questo proposito, ecco l’aneddoto (tutto vero!) di “Fernando – oggetti sacri”.

 Fernando di Noha, ora in pensione anche lui, era commerciante di oggetti sacri. Non avendo in casa un telefono, (così come accadeva per la quasi totalità degli abitanti di Noha), pensò bene di lasciare ai clienti quale recapito quello del bar di Ninetto (sempre su autorizzazione del barista, s’intende); recapito telefonico che aveva fatto riprodurre anche su materiale pubblicitario come potevano essere i calendari o bigliettini da visita.

Un bel dì squilla il telefono, come tante volte era successo. Risponde Ninetto, come al solito, con il suo vocione squillante: “Prontooo?!!”.

E dall’altra parte una voce titubante fa : “Pronto?...  Parlo con Cacciapaglia Fernando?... Il rappresentante di oggetti sacri?” (Era un sacerdote che necessitava di alcuni “prodotti” trattati dal Fernando).

E Ninetto, preso alla sprovvista, e onde evitare di fornire una dettagliata lunga spiegazione, in un attimo decide: taglia corto e risponde: “Nooo!! Eeeeh…sono sua moglie! Dica!!”!    

Vedete? Con questo libro ci si può anche divertire.

Il nostro libro ha tante pagine, tanti paragrafi, tante parole, tante fotografie…

Ma vi volevo dire che non abbiamo scritto chissà quanto.

Anzi diciamo meglio: chissà quante cose o persone o accadimenti sono rimasti nella nostra penna (o nei tasti dei nostri computer). Oserei dire che, dunque, non abbiamo scritto proprio nulla!

Nella conclusione, infatti, invitiamo le nuove generazioni a continuare a scoprire, a studiare, a riscrivere, a ripensare magari, a confutare (anche!) gli stessi argomenti o i temi che nel libro s’è trattato soltanto superficialmente o che non s’è trattato affatto.

Ben vengano, allora, tutti quanti vogliano scrivere saggi, libri, trattati, articoli sulla Storia di Noha, vogliano scattare nuove foto o girarne documentari; in queste pagine, e soprattutto altrove, c’è materiale a sufficienza per la ricerca di una risposta ai mille “perché”. Ciò che è già stato scritto non è mai bastevole, mai commisurato all’assoluto bisogno di conoscenza.

Se dopo di noi qualcun altro vorrà scrivere sulla Storia, l’Arte e le Leggende di Noha con più penetrazione, tanto meglio: il nostro intervento ha il torto ed il merito di essere stato fatto prima.

 

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Adesso consigli per gli acquisti. Del libro.

Il libro costa 30 euro. L’editore non riesce nemmeno a coprirne i costi. Avete visto la veste tipografica: magnifica e accattivante.

Pensate 30 euro per la storia, l’arte e la leggenda della nostra cittadina.

Adesso, pur non utilizzandone i toni, faccio un po’ la Vanna Marchi della situazione. Signori: quanto un CD di Eros Ramazzotti! Quanto due pizze e due birre! Quanto una cravatta (no: la cravatta costa di più, a meno che non sia di Andrews-Tie): una maglietta non di marca. Quanto un taglio ed una messa in piega. Quanto manco un pieno di benzina.

Trenta euro.

Spesso ci si adopera a misurare i costi della cultura. Senza avere idea però di quanto costi l’ignoranza. Sappiate comunque che i costi della cultura sono sempre infinitamente più bassi dei costi che può generare l’ignoranza.

L’emarginazione non è un fatto solo economico.

Indifeso, emarginato, ultimo, non è tanto chi non ha soldi (anche!); ma soprattutto chi non riesce a far propria la ricchezza della comunicazione con gli altri: cioè la cultura.

 

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 Voi sapete che prima di essere uno scrivente di fatti locali io sono un economista.

 

Ora vi spiego perché dal punto di vista economico l’acquisto di questo libro è un affare. Anzi un investimento.

Vi spiego però prima che cosa è un investimento. Anzi un buon investimento. E poi, per essere completo, vi spiego anche che cosa è invece un finanziamento (che è una cosa speculare dell’investimento).

Semplificando al massimo diciamo che un investimento non è una semplice uscita monetaria: cioè un costo.  Un investimento è un’uscita monetaria che comporterà degli introiti. Saremo di fronte ad un buon investimento se gli introiti, i benefici, immediati e differiti, superano il sacrificio di quella spesa.

Dunque un investimento è un’uscita monetaria cui seguono delle entrate. E l’investimento è tanto più buono quanto più la somma di queste entrate supera la somma delle uscite.

Mentre un finanziamento è un’entrata monetaria, dunque un debito, che prima o poi dovrò rimborsare in una sola botta o a rate. Quando una banca mi concede un finanziamento, ho un introito di soldi che poi restituirò in una unica soluzione o spalmandoli nel tempo.

Ho la presunzione di dire che il nostro libro è un buon investimento poiché il suo valore supera di gran lunga la sua spesa per acquistarlo.

Il valore del libro è sia intrinseco e sia estrinseco.

Intrinseco è il suo contenuto: le foto a colori, la ricerca, gli scritti, i documenti, la stampa, l’eccellente carta, l’inchiostro, la copertina rigida ricoperta di pregiata tela color rosso-cardinale, la sovra-copertina, l’eleganza del testo, e il lavoro, le ore impiegate per scriverlo di cui vi ho parlato, il trasporto, l’opera dell’ingegno, il diritto d’autore…

Il valore di mercato o estrinseco deriva invece dal fatto che questo bene, essendo a tiratura limitata, è, di fatto, una risorsa scarsa. Forse non riusciremmo a dare un libro per ogni famiglia.

Tra due, tre, quattro anni. Anzi, diciamo, tra dieci anni, il libro sarà una risorsa ancora più scarsa.

Il libro tra dieci anni non circolerà quasi più. Sarà un bene raro, da mercato secondario di intenditori. E per questo alcuni sarebbero disponibili a pagare cifre molto più alte dei 30 euro di oggi (sempre che 30 euro tra dieci anni varranno quanto i 30 euro di oggi). Vi invito dunque a guardare lontano, a volare alto.

Questo discorso, fidatevi, funziona indipendentemente dal contenuto del libro.

C’è gente che sarebbe disponibile, su una sorta di mercato secondario, a sborsare parecchie decine di euro anche se quel determinato libro, ben fatto, difficile da reperire sul mercato, dovesse parlare… di cucuzze. Questo libro come potrete notare non parla di cucuzze. O meglio non parla solo di cucuzze (ci sono pure quelle!)…

 

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Noi (ma questo tutti gli scrittori) abbiamo bisogno dello sguardo dei lettori, di voi, della vostra attenzione.

 

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A cosa serve il nostro libro?

 

Ma ovviamente cambiare il mondo!!!

 

 Diceva Plinio il Vecchio (citato da Plinio il Giovane in una lettera): “Non c’è libro tanto brutto che in qualche sua parte non possa giovare”.

 

Ogni autore che aggiunge qualcosa a quanto è già stato scritto supera un limite, magari spiega qualcosa che prima non era chiaro, ci dà una visione diversa del mondo. Anche se questo mondo è piccolo e si chiama Noha.

 

Possiamo dire che la novità di questa opera sta nel farci vedere il mondo, il nostro piccolo mondo, in modo diverso, sotto un’altra luce. E sarò contento se, quando lo leggerete, mi fermerete per strada e mi confermerete questo. 

 

Ma sarò contento anche se mi criticate (o come si dice qua, mi malangate).

 

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Io mi auguro, anzi vi auguro, che prendendo in mano il nostro libro voi possiate sentire suoni, annusare odori, gustare sapori. Vi auguro di compiere un viaggio nel tempo. Mi auguro e vi auguro che sentiate il desiderio di andare avanti, nella lettura e nella ricerca.

 

Mi auguro che il nostro libro stimoli la vostra fantasia.

 

Se mi fosse consentito vi augurerei che la lettura di questo (ma anche qualsiasi altra lettura) diventasse per voi come una sorta di sostanza stupefacente: una droga che però che accelera l’intelligenza, la fortifica, non la comprime.

 

Chi non ha questo privilegio si rifugia nelle droghe “normali” che servono a dimenticare l’infelicità dell’esistenza (nei confronti di queste persone è opportuno praticare il giudizio moderato della comprensione…).  

 

Come per umana consolazione fu scritta la “Divina Commedia” di Dante, così il nostro libro è stato scritto perché rinasca un antico orgoglio, il legittimo orgoglio per le nostre radici: quello di essere cittadini di Noha, questo lembo di terra che in passato era importante nel Salento e che ancora può essere conosciuto non come territorio di mafia, ma finalmente come centro di solidarietà, di cultura e libertà!!!

 

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Il nostro libro serve. Un libro di storia serve. Sempre.  

 

Si dice che la Storia è maestra della vita. E’ vero.

 

Però ci tengo a dire che il nostro futuro non è mai determinato dal nostro passato.

 

Il passato illumina il presente, ma non lo determina.

 

Ci si rivolge alla Storia non per sapere cosa dobbiamo fare oggi o domani. (Quello lo dobbiamo decidere noi). Ma per sapere in quale situazione ci muoviamo; per avere consapevolezza da dove veniamo e dove possiamo andare, se esiste una possibilità di farlo.

 

Ecco perché è importante la storia.

 

La storia ci aiuta a vedere meglio, magari più nitido, un accadimento. Ma non può dirci quello che dobbiamo fare.

 

La storia ci dice da dove veniamo. Non dove vogliamo andare!

 

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Infine i libri allungano la vita.  

 

“Un uomo che legge ne vale due”: questa non è mia: è una citazione di Valentino Bompiani (fondatore di quella casa editrice).

 

Con questo intendo dire che la nostra ricchezza rispetto all’analfabeta (o di chi, analfabeta, non legge) è questa: colui il quale non legge, si limita a vivere solo la sua vita, mentre noi, grazie alla lettura, ne viviamo moltissime.

 

Cioè la lettura e la memoria ci permettono di conoscere le esperienze e le vite degli altri, ci fa andare alle radici. Sovente la lettura di un libro (specialmente quella di un classico) ci dice non solo come si pensava in un tempo lontano, ma ci fa anche capire perché oggi pensiamo ancora in quel modo…

 

Ecco perchè i libri allungano la vita. Ma sono anche una forma di assicurazione contro l’Alzheimer, per il semplice fatto che la lettura tiene in attività, diciamo, tiene allegro il cervello (il quale è come le gambe: le quali necessitano di alcune ore di allenamento sportivo, o comunque di movimento, ogni giorno).

 

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Una casa senza libri, poi, è come un corpo senza anima. I libri ci affascinano; ci parlano, ci danno dei consigli…

 

Ogni lettore, quando legge, legge se stesso.

 

L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. Anche se gli scrittori si chiamano Antonio Mellone, e Francesco D’Acquarica, (mi assolva padre!).

 

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Un giorno un amico mi chiese se la lettura del mio libro (il don Paolo, qualcuno di voi ricorderà quel mio libercolo del 2003) gli sarebbe servita per una certa ricerca che stava facendo sul novecento. Gli ho detto che gli sarebbe servita anche se poi avesse fatto il venditore ambulante di materassi a molle!

 

Ecco l’utilità di un libro: che poi è il succo di tutto ciò che vi ho raccontato questa sera.

 

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Ringraziandovi ancora una volta per la pazienza con la quale mi avete ascoltato,  ringrazio ancora gli ospiti, Giuliana Coppola e Nicola Toma (splendidi!) che mi hanno onorato della loro presenza; Paola Congedo ed il marito maestro cantautore-chitarrista Walter Faraone, grazie per la vostra performance; Emanuele Vincenti (che ha letto e riletto le bozze del libro); Giuseppe Rizzo ed Antonio Salamina (che hanno sorvolato Noha con l’aereo da turismo ed hanno scattato splendide foto dall’alto, qui presentate per la prima volta in assoluto); grazie al geometra Michele Maiorano per lo stradario, il “tutto-città” di Noha; grazie al prof. Zeffirino Rizzelli (che ha scritto la presentazione del lavoro), a Don Francesco Coluccia (padrone di casa), a don Donato Mellone (che ci ha concesso di consultare l’archivio parrocchiale nel tempo), a Bruna e Dora Mellone (per aver letto le bozze del testo), a Matteo Mellone (da Milano con furore!), a Paola Rizzo maestra d’arte (per i disegni del libro e per la mostra di questa sera dei suoi tre bellissimi ragazzi: Angelo Cisotta, Veronica Gianturco, Francesca Lupo), a Michele Tarantino e sua moglie Rossana D’Acquarica, venuti apposta da Milano per questa serata, oltre che per il loro determinante contributo per la stampa del nostro libro; saluto tutti i miei amici ed amiche che ho invitato a partecipare a questa presentazione quasi per forza (alcuni per l’occasione provenienti da Bari, Brindisi e Taranto); ringrazio Daniele, Michele e Rinaldo Pignatelli (dello studio fotografico Mirelfoto per le foto e le riprese ed i cortometraggi qui presentati, come vedo, con grande successo); ringrazio Telerama, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “il Galatino”, “Il nuovo Quotidiano di Lecce”, e “Quisalento”; grazie a Gigi Russo e Radio Reporter, ringraziamenti anche a Radio Orizzonti Activity; sono grato a Gianni Miri ed alla sua auto che, opportunamente “microfonata”, per le strade di Noha ci ha annunciato, con un bel sottofondo di Bob Marley, questo straordinario evento storico; grazie ad Albino Campa, webmaster, per aver in anteprima pubblicato la notizia dell’avenimento di oggi e la copertina del libro sul suo blog Noha.it (e mi auguro che quanto prima ritorni a funzionare il suo sito www.noha.it, il portale con l’h, che arricchiremo con tante foto, sito attualmente in “riparazione”); grazie a Piera Sturzi, per l’omaggio floreale alle gentili signore, a Sasà ed il suo B. & B. “Per le vie” (ed anche per l’ottimo pranzo offertomi proprio oggi, nella sala ristorante della struttura, in occasione dell’inaugurazione, appunto,  del secondo Bed and Breakfast di Noha; il primo è “Mimì”); saluto tutti i miei amici ed amiche (vedo là in fondo anche i miei amici di Galatina e Lecce e Gallipoli, oltre che quelli di Noha); grazie a Enzo Turi per l’esilarante fuori programma (che di fatto era in programma: l’abbiamo provato e riprovato: bravissimo!); grazie ai miei amici di Milano che mi hanno ospitato nella città meneghina e sopportato nel corso della redazione delle pagine di questo libro; grazie a tutti coloro che hanno preparato questa sala per l’occasione; grazie al bar Settebello che ha offerto il buffet che seguirà da qui a qualche minuto (a proposito siete invitati: paste di mandorla e prosecco ce n’è per tutti). E grazie anche a tutti quelli che ho dimenticato.

 

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E visto che ha funzionato quella volta, vorrei concludere, con le stesse parole con cui presentavo il mio libro del 2003, il “don Paolo”, sempre in questa sala convegni, parole prese in prestito e parafrasate da Alessandro Manzoni: quelle con le quali don Lisander conclude il suo romanzo “I Promessi Sposi”:  se la storia, diciamo, se il nostro libro e se questa serata  non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta (e presentata). Ma se invece fossi riuscito ad annoiarvi, credetemi non l’ho fatto apposta!

 

Grazie.

 
Di Antonio Mellone (del 18/04/2021 @ 18:54:59, in NohaBlog, linkato 1153 volte)

Cari partiti o movimenti o liste civiche, tanto sempre là stiamo, sembra che di questi tempi abbiate ritrovato una verve dialettica, una vis polemica (vabbè comica), quando non una vena poietica che non si vedevano dalle precedenti amministrative per l’elezione del Consiglio e del Sindaco (s’intende quello con la maiuscola) del nostro povero comune. Non passa settimana che non si legga in giro, tra un dato dei contagi e uno dei Recovery, qualche comunicato-stampa dei vostri. Ma cosa v’è preso? Guardate che le votazioni sono ancora ben lontane dall’esser celebrate, seppur ci venissero gentilmente concesse, e di questo passo vi arrivereste spompati.  

A scanso di equivoci vorrei premettere che noi di Noha.it siamo di bocca buona, così tanto che abbiamo accolto e continuiamo ad accogliere per la loro pubblicazione veline di cani e porci. Basterebbe farsi un giro nell’archivio relativo alla diciamo politica locale e nazionale per rinvenire scritti, video, interviste, dichiarazioni, lettere aperte (mai una volta chiuse) e comizi di personaggi pneumaticamente defunti (r.i.p.) che con sintassi, grammatica ma soprattutto logica avevano lo stesso feeling che Erode doveva avere con gli innocenti.

Ergo lungi da noi, per carità di patria, qualsiasi intento censorio o peggio ancora intimidatorio nei confronti di chicchessia, tipico di chi è in contenzioso personale con la democrazia più che con qualche voce stridula; ma abbiate pazienza e prendete pure queste righe come una preghiera, un appello, anzi come una consulenza spassionata gratis et amore Dei.

Non è nostra intenzione stilare qui di seguito un decalogo del perfetto comunicato stampa, ma vivaddio almeno l’essenziale, tipo: la buona creanza di cambiarne l’immagine a corredo se non proprio la forma dell’elaborato per ogni sito internet destinatario (o pensate siano encicliche, le vostre?); l’accortezza di non firmare in calce lo scritto se nel testo il firmatario viene intervistato in prima o in terza persona da se medesimo; ma soprattutto, ove possibile, attenzione a non tradire la Politica tre volte prima di sentir cantare il gallo due volte. Guardate, ci sono così tante cose belle da leggere, libri, poesie, articoli, vedere video e film, per cui sottrarre tempo prezioso con certi interventi è un vero e proprio delitto. E mi riferisco al tempo reciproco: vostro nel mettervi a tavolino a battere su quella tastiera (che non è un marciapiede) e nostro nel leggervi (che non può trasformarsi in reggervi). Ma tant’è. 

Sicché, solo per fare qualche esempio, abbiamo chi s’affanna a comunicare trionfante nuovi asfalti, subito dopo la decapitazione dei pini su di un viale sfigato, la predisposizione di hub per le inoculazioni, e una convenzione con Artis Puglia Sviluppo per quella accozzaglia di bitume e cemento friabile altrimenti detta Fiera di Galatina, la quale, udite udite, diventerà (diventerebbe) addirittura un’Academy di tante belle cose, ma soprattutto di economia circolare e pure green (nossignore, non l’abbatteranno come sarebbe d’uopo per ripristinare i luoghi ante colatam, però, vuoi mettere l’effetto che farà tinteggiandola di verde, identica tonalità delle casse comunali di cui l’Ente Fiera è sempre stato un’idrovora).

Abbiamo poi ben due circoli cittadini del Pd (Precoci Dinosauri) che si sono addirittura uniti (fusi proprio) per puntare all’unisono l’indice adunco dell’inquisitore sui “furbetti” dell’antidoto (anziché ringraziare di cuore codesti volontari, da un lato per aver dato retta al Figliuolo, e dall’altro per la loro magnanimità nel sottoporsi alla sperimentazione), arrivando perfino a riportarne delle tabelle pescate non dall’Unità, prematuramente scomparsa per eutanasia, ma addirittura dal Quotidiano dei Caltagirone. Non parliamo poi dell’altro memorabile comunicato sulle radici degli alberi che, benché rasi al suolo, continuano imperterriti a insidiare l’asfalto cittadino: se no di che Partito Deforestatore stiamo discettando. Taccio, infine, sul leggendario annuncio in merito al palo Tim: meglio non infierire oltremodo.

Quanto al Movimento Due Stelle e Mezza, abbiamo dal centro un portavoce (portavoce loro, mica nostro) che direttamente dalla commissione bilancio (o forse bilancia) della Camera c’informa che interi capitoli di spesa pubblica sono tutti a nostra disposizione manco fossero ristori (fessi noi se non ne approfittiamo); mentre in periferia ne abbiamo un altro che cerca disperatamente di dimostrare che “Puru li pulli tenanu ‘a tosse”. Grazie ma lo sapevamo già da un pezzo.  

Potevano mancare le articolesse da parte dei “compagni” di Italiachitavviva? Certo che no, altrimenti, dopo quello arabo, che nuovo rinascimento galatinese avremmo.

Velo pietoso sulla restante parte di sauditi ed esauriti.

Meno male che il ridicolo non è poi così patogeno, se no farebbe scoppiare le terapie intensive.

Antonio Mellone

 
Di Raimondo Rodia (del 13/02/2019 @ 18:48:36, in Comunicato Stampa, linkato 1439 volte)

Si tratta di un libro straordinario da comprare, leggere e conservare dal titolo " Reputu ", vale a dire un pianto funebre delle piazze rurali del nostro Salento. Oltre alla classica presentazione del libro ad allietare la serata ci saranno gli interventi musicali di Enzo Marenaci leader e voce dei " Cantori della Giurdana ", Marina Leuzzi voce femminile del gruppo folk " I Cardisanti " e gli immancabili interventi del filosofo cantastorie Roberto Vantaggiato. A presentare la serata Raimondo Rodia che terrà a bada anche il vulcanico autore del libro Giovanni Leuzzi. L'appuntamento da non perdere è per venerdi 15 febbraio 2019 alle ore 18.30, presso la biblioteca comunale di Tuglie, in via Risorgimento. Dopo i saluti istituzionali del sindaco Massimo Stamerra e del vice sindaco ed assessore alla Cultura Silvia Romano, si aprirà questa kermesse di musica, poesia, lingua, tradizione, storie ed aneddoti locali. Di seguito la sinossi del libro e due righe sulla vita professionale del prof. Leuzzi.

Il poema in ottava rima e in rigoroso dialetto salentino, che utilizza a pretesto narrativo una divertente storia paesana, fotografa, con i toni e registri più diversi e seguendo il libero andare della memoria, il rapido e per molti versi catastrofico diluirsi, in un nulla ancora indistinto, della millenaria civiltà contadina; una civiltà che nei centri rurali del Salento aveva realizzato, pur in un quadro diffuso di povertà, sfruttamento ed ingiustizia, straordinari risultati di risposta ai bisogni collettivi, di socialità ed identità culturale. Le piazze di quei paesi, che negli ultimi anni sono state oggetto di importanti rifacimenti strutturali ed estetici dagli effetti spesso scenografici, perduta ogni funzione economica e sociale, oggi si presentano come spazi vuoti di presenza umana, freddi, senza storia, senza anima e memoria e ormai da decenni attendono nuova linfa e nuova vita, che sarà, se mai, del tutto diversa da quella di un passato leggendario ed irripetibile. L’ottava rima, con la musica e le cadenze sue proprie, poggia sulla strepitosa padronanza di una lingua che, già grande di suo, si è strutturata nei secoli con scambi, arricchimenti ed imprestiti i più diversi, consentendo al popolo del Salento straordinarie capacità espressive, comunicative e creative; lingua che nel poema è strumento formidabile per il disegno di quadri, situazioni e personaggi, lo sviluppo del pensiero e del racconto, il dipanarsi di nostalgiche ricostruzioni e di ironiche, ma spesso amare e desolate invettive, tutte giocate tra il semiserio rimpianto del passato e la icastica condanna del presente.

Giovanni Leuzzi, laureato in Lettere Classiche, già docente nelle Scuole Superiori, da sempre impegnato in politica e per lunghi anni consigliere e vicesindaco di Cutrofiano, ha operato tutta la vita tra politica e cultura, privilegiando, oltre che importanti percorsi storico-letterari, la conoscenza e l’indagine sulla storia del Meridione e del Salento, sulle varie espressioni della cultura locale (arte, musica, religione), sulle evidenze linguistiche, espressive e documentali della macroarea griko-salentina. Anche l’approdo recente a prove poetiche in dialetto salentino è nello stesso tempo conferma e sviluppo di tale impegno, vissuto e perseguito con costante passione.

Raimondo Rodia

 
Di Albino Campa (del 15/06/2006 @ 18:44:49, in Libro di Noha, linkato 4510 volte)

 

Nella mia vita di Missionario della Consolata mi è toccato di vivere lontano dalla mia terra e dalle mie radici, sia negli anni di Seminario in preparazione al sacerdozio missionario e sia per il servizio missionario che l’ubbidienza mi ha chiamato a svolgere in diverse parti del mondo.

 Nel 1972 rientravo in Italia dopo un periodo di 5 anni in Canada e mi capitò, per motivi di salute, di fermarmi oltre il previsto a Noha in famiglia. Fu così che, tanto per passare il tempo,  cominciai a curiosare nell’archivio parrocchiale di Noha.

Trovai un libricino di una cinquantina di paginette intitolato “L’Università e il Feudo di Noha - Documenti e Note” edito nel 1906 a Lecce di un certo Prof. Gianferrante Tanzi, ora non più reperibile. (Possiamo considerare questo libricino come l'antenato della "Storia di Noha"). Le mie ricerche su Noha sono partite da lì.

 Mi rendevo conto, legicchiando quel libricino, che Noha aveva una storia molto antica e molto ricca di notizie, anche se quelle che leggevo in quel libercolo a volte erano vaghe e imprecise.  Mi venne  voglia perciò di fare ricerche più accurate.

Mi misi a intervistare testimoni qualificati e informati su alcune notizie e tradizioni… Cominciai a consultare anche altri documenti di storia locale, arrivando fino all’archivio vescovile di Nardò, di cui ab immemorabili aveva fatto parte Noha,  e l’archivio di Stato di Lecce. Negli spostamenti sovente mi guidava don Donato Mellone, in quel tempo Arciprete di Noha, a cui devo tanta gratitudine sia per la sua grande disponibilità ad accompagnarmi e sia per avermi permesso di consultare l’archivio della Parrocchia.

Dopo circa un anno di ricerche,  nel 1973 davo alle stampe la prima edizione della Storia di Noha.

(Se il libricino di cui sopra era l'antenato, questo era il  nonno). Il libricino fu stampato a Casarano dall’editrice Borgia e mi sovvenzionò la stampa un’amica dei missionari della Consolata che avevo conosciuto a Salve.

Furono stampate 300 copie arricchite da una mappa del paese che avevo fatto io stesso (senza essere né tecnico nè geometra) tracciandone il disegno delle strade che percorrevo con una bianchina. Anche le foto le avevo fatte io stesso in bianco e nero. Il volumetto fu messo in vendita a L. 1.000 la copia e andò a ruba, soprattutto perché l’avevo arricchito con una raccolta di proverbi dialettali e di alcune mie poesie in dialetto.

Anche se il libro era ormai stampato, io continuai nelle mie ricerche, approfondendo quelle già stampate nella prima edizione.

Nel 1989 il Comune di Galatina mi sovvenzionò completamente e stampò con 4 milioni di lire, mille copie della seconda edizione, questa volta arricchita di foto in bianco nero di Mirelfoto, oltre che quelle del mio archivio.  Questa seconda edizione stampata dalla Editrice Salentina, che ha circolato nelle scuole di Noha, era più ampia della prima per i contenuti ma anche più elegante per la forma.

Intanto io continuavo le mie ricerche e scoprivo altre notizie sempre interessanti.

Trovai per esempio una relazione sulla parrocchia di Don Michele Alessandrelli, Arciprete di Noha dal 1847 al 1879, che in occasione della visita pastorale del vescovo di Nardò, lui compila con molta precisione di particolari, che oggi risultano preziosissimi.

Analizzando meglio tutti i documenti dell’archivio parrocchiale che ho letto per conoscere i miei antenati (e vi sono arrivato fino al 1500), trovai notizie abbondanti sulla situazione sociale, religiosa, economica e politica della gente di Noha. Erano tutte notizie preziosissime che meritavano di essere pubblicate.

La seconda edizione era ormai esaurita. Valeva la pena far conoscere al pubblico le notizie di cui ero venuto a conoscenza. Sentivo il bisogno di trovare il modo di stampare una terza edizione. La difficoltà principale era quella di reperire i fondi o comunque trovare un mecenate che si prendesse cura della cosa.

A questo punto comincia la storia della terza edizione che viene presentata questa sera: Noha, storia, arte, leggenda. Sicuramente l’ideatore, l’artefice principale di questa terza edizione è Antonio Mellone.

Questa edizione è come una suonata a quattro mani al pianoforte, abbiamo scritto nelle avvertenze a pag.15. A volte c'è l'assol0, a volte si concerta insieme: ma sempre i due suonatori sono impegnati nella musica dell'unico brano.

Per la verità il primo contatto con lui fu uno scontro. Quando tornai dal Canada, Antonio aveva solo cinque anni, e di lui non ricordo nulla.

Ho cominciato a conoscerlo qualche anno fa perché pubblicava articoli sul Galatino che anch’io, pur essendo lontano da Noha, ricevevo e leggevo. In un numero del Galatino in un suo articolo dava notizie di Noha antica, servendosi delle mie ricerche ma senza citarne la fonte. Da qui il piccolo scontro.

Nel settembre del 2003 l’ubbidienza mi ha condotto ad essere parroco a Galatina. Qui ho incontrato di nuovo Antonio Mellone, anzi lui stesso è venuto a trovarmi per espormi le sue idee e propormi il suo progetto: mettere insieme le notizie sue e mie e fare un’unica edizione più bella, arricchita di altri contenuti non strettamente storici ma comunque interessanti...

Così nasce questa terza edizione, bella, ricca, spettacolare, impensabile fino a qualche anno fa, degna di stare in qualsiasi biblioteca, nonostante qualche imprecisione, inesattezza e direi anche qualche gonfiatura soprattutto nelle didascalie sotto le foto.

Grazie ad Antonio Mellone, al suo intuito, al suo impegno, questa sera potete ammirare e acquistare questo volume:  è lui che ha voluto fortemente e con mille sacrifici questa edizione così particolare soprattutto nella sua veste tipografica.

Devo dire che con questa edizione le ricerche sulla storia di Noha non sono finite. Mi auguro che altri più giovani di me possano continuare lo studio e la ricerca, convinti che Noha ha una storia molta antica, più di quella di Galatina, e interessante. Bisogna solo avere il tempo e la passione per visitare gli archivi, anche quello di Stato di Napoli in particolare, dove sicuramente si potranno trovare  altre notizie.

Grazie per la vostra attenzione.

 

 
Di Albino Campa (del 09/08/2006 @ 18:42:02, in Libro di Noha, linkato 4099 volte)
La foto è stata scattata in un Autogrill - stazione di servizio, in provincia di Foggia.
Uno dei due, ritratti nella foto, è un benzinaio addetto alla distribuzione (che non conosciamo); l'altro invece, riconoscibilissimo, è il nostro grande Presidente della Regione Puglia, il Governatore Nichi Vendola.
La particolarità della foto è questa:
Nichi Vendola, stringe nelle sue mani una copia del nostro libro: "Noha. Storia, arte, leggenda".

E NON SI TRATTA DI UN FOTOMONTAGGIO!

Sensazionale!!!

Per ulteriori approfondimenti, circa la consegna del testo al nostro Presidente, presto leggeremo (o su questi schermi o su quelli del sito salento.us) la cronaca stilata da Matteo Mellone.
 
Di Albino Campa (del 30/11/2007 @ 18:36:06, in TeleNoha , linkato 3786 volte)
Ecco dei video realizzati da Daniele Pignatelli sulla nostra Noha per la presentazione del libro "NOHA - storia, arte, leggenda".

- Il Tabacco


- Gli Ulivi


- La Vendemmia


- Il Maniscalco

Scarica il Flash Player per visualizzare il Filmato.

 
Di Marcello D'Acquarica (del 28/02/2012 @ 18:10:09, in S.Maria della Porta, linkato 4027 volte)

Ho visitato per la prima volta il sito di S. Maria della Porta, grazie a Raimondo Rodia, instancabile divulgatore delle nostre meraviglie storico\artistiche. Difatti il sito è poco visibile al passeggero soprattutto a causa dell’attraversamento della SP371 che ha occluso il passaggio di una antica carrareccia di comunicazione. Questo è un esempio di pegno che paghiamo per il famigerato “progresso”.

La descrizione del nostro amico Massimo Negro e relativa documentazione fotografica rende merito a questo stupendo gioiello d’Arte sacra. Vorrei aggiungere però qualche dettaglio.

Raimondo Rodia in un suo comunicato del 3 Ottobre del 2008 pubblicato sia sul sito “Blogolandia” che sul sito Noha.it (sezione “Categorie News” sul menù laterale), scrive di “S. Maria della Porta e l’acchiatura…”, ma il “dettaglio” importante a cui mi riferivo prima è quanto Raimondo riporta nel suo comunicato di cui allego uno stralcio:

Le nozze tra Adriana De Noha e Girolamo Montenegro mutarono l’intestazione feudale a nome dei Montenegro. Dopo un breve possesso di Orazio Guarini, che aveva acquistato Pisanello nel 1606, il territorio entrò a far parte della vastissima baronia degli Spinola con Galatina , Soleto, Noha, ecc.

Da un documento presente nell’archivio di stato del notaio Emilio Arlotta del 22 Luglio 1906, registrato al n° 93 del repertorio generale ed al n°610 dello speciale, relativo alla domanda di separazione di Noha dal comune di Galatina, risulta che Noha ebbe autonomia comunale fino al 1811, quando venne fagocitata dalla potente Galatina. Dal documento si evince anche che Pisanello, suffeudo di Noha sin dal 1200 fino all’epoca catastale, ha gli stessi diritti del feudo di Noha a cui era legato. Infatti molti documenti del casale di Pisanello sono legati alle vicende del feudo di Noha.

I successivi dettagli riportati sono molto interessanti e chi volesse può andare a leggerli nei siti riportati.

Che i suffeudi di Pisano e Pisanello fossero sotto la giurisdizione della Baronia dei De Noha è riportato ampiamente sui libri di Noha, quali per esempio le due edizioni del 1971 e 1982 della “Storia di Noha” di P. Francesco D’Acquarica; “NOHA, storia, arte, leggenda” di Antonio Mellone e P. Francesco D’Acquarica, a cura di Antonio Mellone, Editore Infolito Group, Galatina, 2006; “I Beni Culturali di Noha”, di M. D’Acquarica, editore Panico, Galatina 2010; e da molti altri testi storici che non cito per ragioni di spazio.

Il fatto che Noha fosse al centro delle vicende territoriali sia di Pisanello che dei relativi beni culturali come S. Maria della Porta,  la pietra su cui riposò S. Pietro, oppure la stele messapica oggi depositata nel museo di Galatina, vuol dire che a Noha va riconosciuta una virtù d’essenza, in quanto comunità che esiste e resiste da lustri nonostante le altalenanti vicende storiche, in cui si sa, scrivono il finale i cosiddetti “vincitori”.

Qui non si vuol fare un discorso fra perdenti e vincitori, sarebbe oltre che anacronistico anche fuori luogo, né di parte, anche perché io stesso potrei essere tacciato di “conflitto di interessi” in quanto inflessibile sostenitore del valore di Noha (checché si blateri da certi altari carismatici) ma la storia è storia soprattutto se documentata ed i meriti di Noha vanno rispettati.

 Marcello D’Acquarica
 
Di Albino Campa (del 06/09/2010 @ 17:16:59, in Fotovoltaico, linkato 4028 volte)
"Rispondiamo al sindaco con questo bellissimo saggio di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, giornalisti del Corriere della Sera. Se avrà l'intelligenza di leggerlo e capirlo forse inizierà ad appoggiare le nostre battaglie".
Firmato:
I dialoghi di Noha
(Quei quattro assolazzati agostani dei suoi concittadini, che invece di andare al mare, si battevano per capire come mai le mafie degli incentivi statali stanno devastando irreversibilmente la campagna NOHANA, ultima barattata per la ristrutturazione di un canile e di un giardino del Rione Italia).

Pannelli solari e pale tra gli ulivi E la storia muore

Pier Paolo Pasolini: «In quello slanciato ammasso di case bianche, inanellato da lungomari e moli, la gente vive una vita autonoma, quasi ricca, si direbbe, quasi non ci fosse soluzione di continuità con qualche periodo della storia antica»Sulla «Collina dei Fanciulli e delle Ninfe», legata a miti antichissimi, si vogliono costruire immense pale eoliche alte 80 metriA pochi chilometri da dove nacque l' ultimo ministro borbonico, il miraggio (e i quattrini) delle energie alternative distruggono il paesaggio

 

 

Tira una brutta aria eolica, per le ninfe e i fanciulli che da millenni vivono tra gli ulivi secolari del meraviglioso colle San Giovanni a Giuggianello: non hanno i timbri in regola. C' è chi dirà: ma se ne hanno scritto Nicandro e Ovidio e probabilmente pure Aristotele! Fa niente: non hanno i timbri in regola. Lo dice una sentenza del Consiglio di Stato. Secondo il quale un posto può anche essere la culla della memoria magica di un popolo ma se non ha le carte in regola, cioè un timbro della sovrintendenza che dice che effettivamente è la culla della memoria magica di un popolo, non ha diritto a tutele. Testuale: «A prescindere dal fatto che tali miti e leggende non risultano essere stati individuati da un provvedimento legislativo, non si vede come l' impianto degli aerogeneratori possa interferire su tale patrimonio culturale». Appunto: «non si vede». Nel senso che i giudici non hanno «visto» l' area in cui dovrebbero sorgere le immense pale eoliche se non sulla carta. Perché certo non avrebbero mai potuto scrivere una cosa simile se fossero saliti su queste colline dolci che hanno incantato nei secoli i viaggiatori. Se avessero visto, scavata nella viva roccia, l' antica e commovente chiesetta rupestre di San Giovanni. Se si fossero fermati davanti a questi massi enormi dalle forme incredibili che scatenarono le fantasie e la devozione dei nostri avi. Se avessero camminato all' ombra di questi ulivi grandiosi. Come può un paradiso bucolico come questo non essere devastato da 12 pale eoliche alte 80 metri cioè quanto 12 palazzine di 25 piani? Eppure questo, salvo miracoli, è il destino della Collina dei Fanciulli e delle Ninfe a Giuggianello, pochi chilometri a sud della strada che da Maglie porta a Otranto, nel Salento. Non è un punto qualunque sulla carta geografica, questa collina. Come spiega l' ambientalista Oreste Caroppo in un delizioso saggio, è conosciuto «l' Acropoli della civiltà messapico-salentina antica». Qui sono ambientate da migliaia di anni leggende riprese da Nicandro di Colofone: «Si favoleggia dunque che nel paese dei Messapi presso le cosiddette "Rocce Sacre" fossero apparse un giorno delle ninfe che danzavano, e che i figli dei Messapi, abbandonate le loro greggi per andare a guardare, avessero detto che essi sapevano danzare meglio. Queste parole punsero sul vivo le ninfe e si fece una gara per stabilire chi sapesse meglio danzare. I fanciulli, non rendendosi conto di gareggiare con esseri divini, danzarono come se stessero misurandosi con delle coetanee di stirpe mortale; e il loro modo di danzare era quello, rozzo, proprio dei pastori; quello delle ninfe, invece, fu di una bellezza suprema. Esse trionfarono dunque sui fanciulli nella danza e rivolte ad essi dissero: "Giovani dissennati, avete voluto gareggiare con le ninfe e ora che siete stati vinti ne pagherete il fio". E i fanciulli si trasformarono in alberi, nel luogo stesso in cui stavano, presso il santuario delle ninfe. E ancora oggi, la notte, si sente uscire dai tronchi una voce, come di gente che geme; e il luogo viene chiamato "Delle Ninfe e dei Fanciulli"». Un mito rilanciato, come dicevamo, da Publio Ovidio Nasone. E trattato anche nel Corpus Aristotelico dove si accenna al salentino Sasso di Eracle: «Presso il Capo Iapigio vi è anche una pietra enorme, che dicono venne da Eracle sollevata e spostata, addirittura con un sol dito». E coltivato dai contadini della zona che raccomandavano ai figlioletti di non andare a giocare alle rocce del «Letto della vecchia», del «Sasso di Eracle» e del «Piede di Ercole», spiega Caroppo, perché potevano «apparire loro le fate» e chissà quale incantesimo erano capaci di fare. Leggende. Ma nessuno, un tempo, avrebbe osato profanare un sacrario della memoria antica come questo. Così come nessuno avrebbe osato abbattere migliaia di ulivi stuprando quella che da secoli è l' immagine stessa del Salento. Marcello Seclì, presidente della sezione salentina di Italia Nostra, non si dà pace mentre ci trascina tra i viottoli delle campagne tra Parabita e Gallipoli e poi a Scorrano e a sud di Maglie e mostra come intere colline siano state tappezzate da quell' altra forma di violenza alla natura che possono essere le distese sterminate di pannelli fotovoltaici. Pannelli bruttissimi. Giganteschi. Tirati su senza rispetto per la natura. Per la fatica dei nostri nonni che piantarono gli ulivi sradicati. Per la vocazione turistica dell' area. Fa impressione rileggere oggi quel che mezzo secolo fa scriveva sul «Corriere» Alberto Cavallari parlando del Salento come del «più bel paesaggio d' Italia»: «Sorgono nel leccese i paesi più affascinanti del Sud, come Nardò, o la città morta di Otranto. Restano infatti i borghi civili, asciugati dal mare e dal vento, nitidi come la loro povertà. Le coste, spesso frastagliate nello scoglio, non sono ancora deturpate: sono piene di grotte, leggendarie e favolose, mentre lontano si vedono le "pagliare" dei pastori, e i riverberi, i luccichii dei due mari (come una volta scrisse Piovene) "sembrano quasi incontrarsi a mezz' aria" nel punto in cui l' Italia finisce, o meglio sfinisce, dentro l' atmosfera di un miraggio». Non aveva dubbi, Cavallari: «Difendere questa provincia e conservarla è così certo l' unico modo di fare della buona economia». Questo doveva fare, il Salento: puntare su «un turismo di classe, come quello che si svolge in Grecia, redditizio e ricco, e certo meglio di un' industrializzazione assurda e asfittica». I dati di questi giorni dicono che il turismo è davvero la chiave della ricchezza salentina. L' Apt gongola sventolando un aumento del 5%, che in questi tempi di magra vale doppio. E contribuisce a «collocare il Salento ai vertici della classifica nazionale». Italiani, soprattutto. Ma anche tanti stranieri. In testa tedeschi, francesi e inglesi. Vengono per vedere la cattedrale di Otranto e inginocchiarsi davanti alle reliquie dei morti nella strage del 1480 ed emozionarsi nel leggere che il corpo senza testa di Antonio Pezzulla detto il Primaldo, il primo degli ottocento martiri di Otranto a venire decapitato per ordine del Gran Visir Achmet «lo Sdentato», «si alzò e restò in piedi fino al termine della strage e non ci fu forza che valesse ad atterrarlo». E poi vengono per le orecchiette e i turcinieddhri e le ' ncarteddhrate e tutte le altre leccornie della formidabile cucina salentina e il suo olio e il suo vino. E vengono per la notte della Taranta, quando a fine agosto accorrono in decine di migliaia a Melpignano per ballare e ballare fino a uscir di senno con la «pizzica pizzica». Ma verrebbero ancora, se il Salento fosse definitivamente stravolto da una edilizia aggressiva che ha già deturpato parte delle sue coste come a Porto Cesareo, San Cataldo o Ugento? Se le distese di ulivi che costituiscono la sua essenza fossero sistematicamente rase al suolo? Se questo panorama che trae la sua bellezza non dalla vertigine delle vette dolomitiche ma dalla dolcezza delle distese appena ondulate venisse trafitto da centinaia e centinaia di pale eoliche? «Lecce, città dell' arte, / se ne infischia / di chi arriva e di chi parte», dice un vecchio ritornello usato dagli antifascisti il giorno in cui Achille Starace, il braccio destro di Mussolini che era nato a Sannicola, tornò in pompa magna della terra natia. E per certi versi la città è rimasta così come la vide Cavallari. Una città «aristocratica, spagnolesca, narcisista». In qualche modo «tagliata fuori dalla Puglia dinamica». Dove, nonostante l' orrore di certi quartieri residenziali e la bruttura della ragnatela di cavi neri che dovrebbe servire la metropolitana di superficie incompiuta da un mucchio di anni, è ancora emozionante camminare tra pietre e chiese di rara eleganza. Il problema di chi arriverà ancora e di chi se ne andrà, però, esiste. E dipende dal rischio di un' accentuazione del degrado paesaggistico. Cinquantuno anni dopo, il reportage a puntate lungo le coste scritto da Pier Paolo Pasolini per la rivista «Successo» e riproposto nella versione integrale con il titolo «La lunga strada di sabbia» da Contrasto, va riletto: «In quello slanciato ammasso di case bianche, inanellato da lungomari e da moli, la gente vive una vita autonoma, quasi ricca, si direbbe, quasi non ci fosse soluzione di continuità con qualche periodo della storia antica, che io non so, né faccio in tempo a capire: il demone del viaggio mi sospinge giù, verso la punta estrema. Ci si arriva lentamente, mentre intorno la regione si trasforma, si muove in piccole ondulazioni, si ricopre d' ulivi. Santa Maria di Leuca si stende lungo il mare con una fila di villini liberty, lussuosi, rosei e bianchi, incrostati d' ornamenti, circondati da giardinetti...» Fece una gran fatica, PPP, «nel sole feroce» ad arrivare fino alla punta estrema del tacco d' Italia, fino a questo splendido promontorio dove, come ha scritto Giuseppe Salvaggiulo nel libro collettivo «La colata» scritto con Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve e Ferruccio Sansa, «sei ancora sulla terra, ma ti senti già in mare». E forse proprio per questo tanti viaggiatori ci vengono ancora: perché non è alla portata di tutti, appena fuori da uno svincolo autostradale come tanti vacanzifici traboccanti di discoteche, bazar e McDonald. Perché arrivarci costa fatica. E questa fatica appare loro in qualche modo obbligata per assaporare il gran premio finale: la vista su un mare di una bellezza che ti mozza il fiato. Diceva il poeta e saggista Franco Antonicelli, in occasione di un lontano viaggio con Italo Calvino: «Anche Reggio Calabria è alla fine della penisola, ma subito dopo c' è l' isola e subito dopo l' Africa; non c' e tempo di perdersi. Ma a Leuca sì...» Di là del promontorio c' è il mare. Solo il mare. «Uffa!», sbottano gli «sviluppisti». E dicono che no, anche il luogo più lontano d' Italia, quello che partecipò al processo unitario solo con Liborio Romano, di cui parla Nico Perrone, deve essere collegato al resto del mondo con una superstrada. Un' arteria che dovrebbe partire da Maglie e scendere giù per 40 chilometri, con le sue 4 corsie per 22 metri complessivi e un viadotto di 500 metri su 26 piloni di cemento fino a una mastodontica rotonda del diametro di 450 metri, lunga un chilometro e mezzo, che intrappola un' area estesa quanto 23 campi di calcio. Una mostruosità, dicono gli ambientalisti. Che stanno dando battaglia a colpi di ricorsi un po' a tutto. Alla superstrada voluta da Raffaele Fitto, il giovane ministro amatissimo da Berlusconi e figlio di quella Maglie che in passato aveva dato all' Italia uomini della statura di Aldo Moro. A ulteriori cementificazioni di coste già abbruttite da lottizzazioni selvagge. Al progetto spropositato di quadruplicare il santuario di Santa Maria de Finibus Terrae svettante su Santa Maria di Leuca e farne un edificio (citiamo ancora «La colata») di «ventiduemila metri cubi eretti su una superficie grande la metà di un campo di calcio per ospitare otto celebrazioni giornaliere, presbiterio con annesso palco per quaranta sacerdoti concelebranti, penitenzieria con almeno dieci postazioni confessionali, aule per catechesi e attività connesse».. Battaglie difficili. Segnate a volte da sconfitte sconcertanti. Come quella della sentenza sulla Collina delle ninfe che ribaltava il verdetto del Tar che aveva accolto in pieno la tesi dell' avvocato Valeria Pellegrino spiegando che l' impianto eolico andava bloccato perché quei miti e quelle leggende millenarie avevano determinato «un legame tra le popolazioni che ruotano attorno all' area de qua che va ben oltre la percezione visiva e dunque fisica dei luoghi». O come un altro verdetto del Consiglio di Stato che, anche qui ribaltando il precedente giudizio del Tar che dava ragione all' avvocato di Italia Nostra Donato Saracino, ha accolto le tesi della società tedesca Schuco International. La quale aveva comprato terreni a Scorrano per metterci un mare di pannelli fotovoltaici per un totale di una quindicina di megawatt. Un impianto enorme. Frazionato in quattro pezzi diversi, con una furbizia «all' italiana», per stare al di sotto di certi limiti ed evitare la grana della Via, la valutazione dell' impatto ambientale. Vi chiederete: come mai anche i tedeschi vengono a investire nel Salento? Perché nel nostro Paese del Sole, dove fino al 2006 si produceva con i pannelli 70 volte meno che nella «grigia» Germania, è stata fatta una scoperta: il «solare» può essere una manna. I dati dicono che nel 2009 l' elettricità da fonti rinnovabili è aumentata del 13%. Ma se l' eolico ha avuto una crescita del 35%, il fotovoltaico ha registrato in dodici mesi un boom: + 418%. Tredici volte di più. Sia chiaro: come per le pale eoliche, anche per il fotovoltaico vale lo stesso discorso. C' è modo e modo, c' è luogo e luogo. Gli incentivi, qui, sono faraonici. Come in nessun Paese al mondo. In base alle regole introdotte nel 2007, per esempio, si prendono i soldi per l' elettricità prodotta anche per impianti microscopici. E tutto si scarica sulle tariffe: più energia rinnovabile viene prodotta, più le bollette sono care. La progressione è geometrica. Nel 2008 gli incentivi fotovoltaici hanno pesato sugli utenti per 110 milioni di euro? L' anno seguente sono triplicati: 344. Ovvero un sesto di quanto abbiamo speso per incentivare le fonti rinnovabili: oltre 2 miliardi di euro. Conto salito nel 2010 a 3 miliardi. «Quasi il 10% - ha detto il presidente dell' Autorità per l' Energia Alessandro Ortis -, dell' intero costo del sistema elettrico» nazionale perché «l' incentivo medio risulta pari a circa il doppio del valore dell' energia prodotta. Così paghiamo l' energia incentivata 3 volte quella convenzionale». E questo in un Paese dove già prima dell' esplosione di questo business le bollette erano le più care d' Europa. Ma è niente, rispetto alle previsioni dell' authority. La quale ipotizza, nel caso di raggiungimento degli obiettivi assegnati per il 2020 da Bruxelles ai vari Stati europei, una spesa aggiuntiva astronomica a carico di chi paga la bolletta: cinque miliardi l' anno per il 2015, sette per il 2020. Dei quali metà per i soli pannelli fotovoltaici. E questo, dice l' Autorità per l' energia, anche nel caso in cui gli incentivi vengano ridotti via via al 50%. Il guaio supplementare è che in un territorio urbanizzato come quello italiano, i pannelli finiscono per rubare terreni all' agricoltura. Alla faccia dei dubbi che già negli anni Novanta aveva manifestato Carlo Rubbia secondo il quale «per soddisfare la metà del nostro futuro fabbisogno elettrico con l' energia solare servirebbero circa 22.000 chilometri quadrati di pannelli, un' area grande più o meno quanto tutta la Sardegna». Ma sapete com' è fatta l' Italia: o tutto o niente. Così, dal totale disinteresse per le fonti rinnovabili, si è passati a un eccesso di incentivi. Mettetevi nei panni di un agricoltore: perché dovrebbe arare, seminare e trebbiare quando è molto meno faticoso e più redditizio riempire un campo di pannelli? E rieccoci in Puglia e nel Salento. Dove a chi installa meno d' un megawatt è sufficiente presentare, come abbiamo visto, una semplice Dia. Se la regione con più impianti fotovoltaici è la Lombardia (13.617), seguita da Emilia Romagna, Veneto e Piemonte, la Puglia è quella che produce di più: 295 megawatt, dei quali 239 prodotti da 497 impianti collocati su terreni agricoli, per una superficie di 358 ettari. Viene dalla Puglia il 20% circa di tutta l' energia solare italiana, pari a 1.509 megawatt: potenza che richiede oltre 2.250 ettari di pannelli. Il Salento contribuisce alla produzione pugliese col 30%: vale a dire 87,6 megawatt, dei quali ben 76,6 su 115 ettari «rubati» all' agricoltura. Ma sono dati ufficiali che per Marcello Seclì sono già sfigurati dai nuovi impianti: «Il boom è nella seconda metà del 2009. In provincia di Lecce, secondo noi, sono già stati impegnati 2000 ettari, per la maggior parte non ancora collegati». E potete scommettere che la corsa non cesserà molto presto. I nuovi incentivi stabiliti dal ministero per lo Sviluppo economico da mesi occupato ad interim da Berlusconi, variano da un minimo di 28 a un massimo di 44 centesimi di euro al chilovattora. Da quattro a sei volte più del prezzo medio (7 centesimi) dell' energia elettrica prodotta con sistemi tradizionali. Avanti così, perché un contadino dovrebbe piegare la schiena sulla terra?

fonte: http://archiviostorico.corriere.it/2010/agosto/28/
Pannelli_solari_pale_tra_gli_co_9_100828006.shtml

 

RIZZO SERGIO, STELLA GIAN ANTONIO

 
Di Albino Campa (del 24/01/2007 @ 16:31:07, in PhotoGallery, linkato 3598 volte)
Inserita nuova  Photogallery:
 
  1. Noha dall'alto
Le foto qui riprodotte sono tutte contenute in grande formato (e presentate per la prima volta in assoluto) nel poderoso libro "Noha. Storia, Arte e leggenda" di Francesco D'Acquarica e Antonio Mellone, Infolito Group, Milano, 2006.  Le foto sono state scattate il 2 ottobre 2005 da Giuseppe Rizzo di Noha, ospitato nell'abitacolo di un Tucano, aereo ultraleggero partito in volo da Ugento e pilotato da Antonio Salamina di Maglie.
Sono benvenuti, come sempre, i commenti e le considerazioni degli amici internauti.
 

Parliamo di libri questo pomeriggio di fine estate, in questo cortile, luogo del cuore, purtroppo semidiruto, graffiato dall’ira del tempo e dall’abbandono degli uomini. E lo facciamo quasi sottovoce (anche se con il microfono), con delicatezza, come si conviene, per non svegliare i fantasmi del passato, aggrappati alle volte dei secoli.
In questo luogo, appena cinque secoli fa, si sentiva ancora rumore di armi e di guerrieri, di cavalli e cavalieri, di vincitori e vinti.
Al di là di questo muro, tra alberi di aranci, una torre si regge ancora, da settecento e passa anni, come per quotidiano miracolo: è la torre medioevale di Noha, XIV secolo, 1300. Quelle pietre antiche e belle urlano ancora, ci implorano, richiedono il nostro intervento, un “restauro”, il quale sempre dovrebbe rispettare e storia e arte.
Da quella torre, addossata al castello, riecheggiano ancora le voci lontane di famiglie illustri nella vita politica del mezzogiorno d’Italia. Qui abitarono i De Noha, famiglia nobile e illustre che certamente ha avuto commercio con i Castriota Scanderbeg e gli Orsini del Balzo, signori di San Pietro in Galatina (città fortificata chiusa dentro le sue possenti mura), ma anche con Roberto il Guiscardo e forse con il grande Federico II, l’imperatore Puer Apuliae, che nel Salento era di casa. 
Da Noha passava una strada importante, un’arteria che da Lecce portava ad Ugento, un’autostrada, diremmo oggi, che s’incrociava con le altre che conducevano ad Otranto sull’Adriatico o a Gallipoli, sullo Ionio.
Da qui passarono pellegrini diretti a Santa Maria di Leuca e truppe di crociati pronti ad imbarcarsi per la terra santa, alla conquista del Santo Sepolcro…
*
Ma la storia noi stiamo continuando a scriverla; voi potete continuare a scriverla, e non solo nelle pagine di un libro. Solo se diamo corso (come stiamo credendo di fare) ad un nuovo Rinascimento ed ad un nuovo Umanesimo di Noha, daremo una svolta alla nostra vita e alla nostra storia. E alla nostra civiltà. 
*    *    *
Noi ci troviamo dunque in un “praesidium”, un presidio. E Noha era un presidio.
E sapete anche che Noha è, da non molto tempo, invero, “Presidio del libro”.
Ma cosa è un presidio?
Sfogliando un dizionario d’italiano (che dovremmo sempre avere a portata di mano, pronto per la consultazione) al lemma o parola “presidio” troviamo questi significati: 1) presidio = complesso di truppe poste a guardia o a difesa di una località, di un’opera fortificata, di un caposaldo; luogo dove queste truppe risiedono (per esempio si dice “truppe del presidio”);
2) presidio = occupazione di un luogo pubblico a fini di controllo e sorveglianza o anche solo di propaganda (per esempio “presidio sindacale nella piazza”); 
3) presidio = circoscrizione territoriale sottoposta a un’unica autorità militare;
4) presidio = complesso delle strutture tecnico-terapeutiche preposte in un dato territorio all’espletamento del servizio sanitario nazionale (presidi ospedalieri);
5) presidio = difesa, protezione, tutela (essere il presidio delle istituzioni democratiche);
6) presidio = sostanze medicamentose (presidi terapeutici) oppure presidi medici e chirurgici….
Vedete quanti significati può avere la parola “presidio”!
Penso che per il concetto di “Presidio del libro”, tutte queste definizioni, più o meno, calzino bene.
E’ un luogo. E la biblioteca Giona è il cuore di questo presidio.
Ci sono le truppe.
Ma le truppe siamo noi e  le armi sono i libri; i carri armati sono gli scaffali che li contengono.
Le altre armi, invece, quelle da fuoco, le lasciamo agli illetterati, ai vandali, ai mafiosi, a chi non è trasparente, a chi non ha idee, a chi non ama il bello.
Presidio del libro è anche sostanza medicamentosa, terapeutica, contro i mali della società.
Il presidio del libro riuscirà a sovvertire, a sconfiggere quell’altro presidio: il “presidio della mafia”? 
Forse si: se questi libri li apriamo, li sfogliamo. Li annusiamo, anche, e li leggiamo, li prendiamo in prestito, li consigliamo agli altri, li doniamo. Ne incontriamo gli autori, ne parliamo a scuola, in piazza, dal parrucchiere, dall’estetista, al supermercato, al bar, al circolo, fra amici.
Tutti i luoghi sono opportuni per parlare di libri: a volte basta solo un cenno, non c’è bisogno di una conferenza in una sala convegni per parlare di letteratura, di poesia, di storia, di leggenda, di arte...
Ecco allora che “Presidio del libro” diventa “difesa”, “protezione”, “tutela”, “crescita”, rispetto della persona, dei luoghi, dei beni culturali, di Noha tutta. Solo chi legge difende i monumenti, la piazza, la torre, questo castello, la masseria, la casa rossa, la trozza, la vora, il frantoio ipogeo, le casette dei nani… Ma anche i giardini, le terrazze, la campagna, i colori delle case di Noha (che stanno sempre più perdendo il loro colore bianco brillante, quello della calce, per diventare d’arlecchino multicolore, a volte troppo appariscente…). Chi legge difende la civiltà, la democrazia, l’etica, la libertà del pensiero e del giudizio e finanche della critica (costruttiva), e tutela il bello che è integrità, luminosità e proporzione.     
Guardate che la biblioteca o la libreria (che non dovrebbe mai mancare in ogni casa: meglio se questa libreria è ricca, e piena di libri e non contenga solo un’enciclopedia a fascicoli che ti danno in regalo con l’acquisto dei detersivi o con la raccolta dei punti al distributore di benzina); dicevo, la libreria non è solo un deposito o una raccolta di libri. Ma uno strumento di conoscenza ed in certi casi di lavoro.
*
E’ vero: esistono così tanti libri, che spesso non si sa da dove incominciare.
Se soltanto volessimo leggere i “classici”, cioè i libri, diciamo, fondamentali per l’uomo di buona cultura, volendone leggere, ad esempio, uno ogni settimana (che è una ragionevole media), non ci basterebbero 250 anni. Dovremmo vivere almeno 250 anni, per leggere ininterrottamente i libri diciamo più importanti o indispensabili.
Se a questi volessimo aggiungere le collane della Harmony, o i libri di Harry Potter, o quelli degli scrittori minori o locali (come siamo noi), o gli altri che leggiamo per diletto o divertimento, (tutti ottimi! Ma non classici) necessiteremmo almeno del doppio di questi anni, vista permettendo!
Dunque: nessuno può aver letto o leggere tutto (neanche le opere più importanti).
E questo però ci consola.  
Intanto perché possiamo partire a piacere da dove vogliamo.
Ed un altro fatto che ci rassicura è che spesso i libri parlano di altri libri: cioè con la lettura di un libro a volte riusciamo a entrare in altri libri (anche senza aver mai visto questi altri libri): i libri infatti sovente, tra un riferimento e l’altro, si parlano tra loro.
I libri sono come i nostri amici che ci riferiscono come stanno gli altri nostri amici, che magari non vediamo da tempo.
*
Sentite.
Spesso si parla del dovere di leggere.
No! 
Leggere non è un dovere: è un diritto!
Inoltre il lettore ha altri diritti (come dice Daniel Pennac, nel suo libro intitolato Come un romanzo, Feltrinelli, 6 Euro):  e  questi diritti sono i seguenti: primo il diritto di non leggere (ciò che ci impongono); poi, il diritto di saltare le pagine; poi abbiamo il diritto di non finire un libro; il diritto di rileggere (non preoccupatevi: si può essere colti sia avendo letto quindici libri che quindici volte lo stesso libro. Si deve preoccupare invece chi i libri non li legge mai!); il diritto di leggere qualsiasi cosa; c’è poi il diritto di leggere ovunque (non solo a casa, ma al mare, sull’autobus, in villetta, ovunque); il diritto di spizzicare (si da uno sguardo, si legge la bandella della copertina, si apre a caso una pagina, si legge come comincia o come finisce: insomma pian piano un libro si può assorbire anche a “spizzichi e mozzichi”. Chi ce lo impedisce?); ancora il diritto di leggere a voce alta; infine il diritto di tacere: cioè nessuno è autorizzato a chiederci conto di questa lettura, che è e rimane una cosa intima, esclusivamente nostra.

Leggendo, ragazzi, vedrete, poi, che riuscirete a descrivere qualcuno o qualcosa, utilizzando quelle stesse parole del libro: vi viene quasi automatico. Vi accorgerete di essere stati chiari e non banali; non avrete più il problema di cadere nei silenzi tra una parola e l’altra. Quei silenzi orrendi e imbarazzanti. Come il silenzio nel corso di certe  interrogazioni.
E non abuserete dei “cioè”; vi sentirete soddisfatti di questo, ma soprattutto imparerete a sognare, a volare alto, e difficilmente sarete malinconici.
*
Il nostro scritto prima ancora di iniziare a vivere nel libro, o su un giornale o su una rivista, si può già assaporare nelle parole della gente, con i suoi racconti, le sue esperienze: sentimenti, che lo scrittore ha raccolto e animato.
Ecco lo scrittore cerca di colorare il mondo. Noi abbiamo cercato di dare calore e colore alla nostra storia, alla nostra arte, alle nostre leggende.
P. Francesco D’Acquarica, che ha scritto con me le pagine di questo tomo (è come se avessimo eseguito una suonata a quattro mani e quattro piedi ad un organo a canne) ha compiuto un lavoro lungo decenni, s’è consumato gli occhi, per leggere, interpretare e ritrascrivere i documenti dell’archivio parrocchiale di Noha o quello vescovile di Nardò e numerosi altri documenti. E ha fatto rivivere la storia della gente ed i suoi pensieri (se leggiamo i proverbi che abbiamo posto in appendice, ad esempio, capiremo subito).
Ha risvegliato, ha ridato voce e fiato e vita e colorito ai nostri avi, ai nostri bisnonni, gli antenati. Per questo non finiremo mai di ringraziarlo.
Però il miglior modo di ringraziare uno scrittore è leggerlo.
E’ sfogliare il nostro libro, che abbiamo scritto con tanta passione. Leggerlo, consultarlo, criticarlo (anche), ma prima di tutto studiarlo.
*
Vedete: Noha dopo il nostro libro: “Noha. Storia, arte, leggenda” non è più quella di prima. Anzi quanta più gente legge il nostro libro, tanto di più migliorerà la nostra Noha. Potremmo anche dire che oggi Noha è un po’ migliore, rispetto a ieri. Non dobbiamo aver paura di pensarlo e dirlo.
E sarebbe proprio la città ideale se tutti leggessimo quel libro, fossimo curiosi, ci conoscessimo di più.
Saremmo più gentili. Meno sospettosi. E anche più accoglienti.
*
Abbiamo bisogno a Noha di scrittori, di gente che può cambiare il mondo. Ma prima di tutto abbiamo bisogno di lettori. I lettori sono i primi che possono cambiare il mondo. Se con la lettura si riesce a svagarsi, divertirsi, sognare, imparare a riflettere, allora si capisce meglio il mondo, e non si da retta alle futili mode o tecnologie o alle corbellerie. Ma è così che si cambia il mondo! 
Con la lettura miglioriamo il nostro stile di vita, il nostro equilibrio morale ed anche economico. Non a caso chi legge è anche più ricco, e gode di un più alto tenore di vita.
E, il più delle volte, è anche un po’ più affascinante (o almeno così qualcuna mi dice, lusingandomi)…
*
Democrazia e libri sono sempre andati storicamente a braccetto.
Le librerie e le biblioteche nei paesi liberi sono veri e propri presìdi di democrazia e civiltà. La libreria o la biblioteca è uno spazio amico. Giona è dunque una nostra amica. E certe amicizie vanno frequentate. 
In libreria o in biblioteca c’è la sostanza più potente di tutte: la parola scritta. Tutte le altre sono chiacchiere, parole al vento.
Nella vita di ogni uomo c’è un pugno di libri che lo trasformano radicalmente. Entra in un libro una persona e ne esce un’altra, che vede se stessa ed il mondo in maniera completamente diversa e farà cose diverse.
Un maglione, un’auto, una moto possono rappresentare un uomo ma mai cambiarlo come invece può fare un buon libro.
*
Il libro è un regalo. Un regalo che potete fare innanzitutto a voi stessi ma anche agli altri. E’ un regalo che si può “scartare”, aprire diverse volte e non soltanto una volta sola. E ogni volta la pagina di un libro può riservarci una gradita sorpresa.
Il libro è un capitale, un investimento che produce interessi incalcolabili.
E non c’è libro che costi troppo!
*
Qualcuno mi dirà alla fine di tutta questa pappardella: e il tempo per leggere? Dove lo trovo?
Certamente non abbiamo mai tempo! Presi come siamo dalla diuturna frenesia.
Ma su questo tema del tempo chiudo prendendo in prestito, guarda un po’, le parole di un libro.
E’ quello già citato di Daniel Pennac, il quale a pag. 99, di Come un romanzo, (Feltrinelli, ed. 2005), così si esprime:
<<…Si, ma a quale dei miei impegni rubare quest’ora di lettura quotidiana? Agli amici? Alla Tivù? Agli spostamenti? Alle serate in famiglia? Ai compiti?
Dove trovare il tempo per leggere?
Grave problema.
Che non esiste.
Nel momento in cui mi pongo il problema del tempo per leggere, vuol dire che quel che manca è la voglia. Poiché, a ben vedere, nessuno ha mai tempo per leggere. Né i piccoli, né gli adolescenti, né i grandi. La vita è un perenne ostacolo alla lettura.
“Leggere? Vorrei tanto, ma il lavoro, i bambini, la casa, non ho più tempo…”
“Come la invidio, lei, che ha tempo per leggere!”
E perché questa donna, che lavora, fa la spesa, si occupa dei bambini, guida la macchina, ama tre uomini, frequenta il dentista, trasloca la settimana prossima, trova tempo per leggere e quel casto scapolo che vive di rendita, no?
Il tempo per leggere è sempre tempo rubato. (Come il tempo per scrivere, d’altronde, o il tempo per amare.)
Rubato a cosa?
Diciamo al dovere di vivere.
……..
Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere.
Se dovessimo considerare l’amore tenendo conto dei nostri impegni, chi si arrischierebbe? Chi ha tempo di essere innamorato? Eppure, si è mai visto un innamorato non avere tempo per amare?
Non ho mai avuto tempo di leggere, eppure nulla, mai, ha potuto impedirmi di finire un romanzo che mi piaceva.
La lettura non ha niente a che fare con l’organizzazione del tempo sociale. La lettura è, come l’amore, un modo di essere.
La questione non è di sapere se ho o non ho tempo per leggere (tempo che nessuno, d’altronde, mi darà), ma se mi concedo o no la gioia di essere lettore>>.

Grazie.


ANTONIO MELLONE
 
Di Albino Campa (del 14/02/2007 @ 15:13:03, in La Storia, linkato 6792 volte)

Eccovi le lezioni  tenute da
P. Francesco D'Acquarica - il 29 gennaio 2007
e da
Antonio Mellone - il 1 febbraio 2007
davanti a vasta e competente platea, nel ciclo di lezioni dell'Anno Accademico 2006-2007  dell'Università Popolare "Aldo Vallone" di Galatina, nei locali del Palazzo della Cultura, in piazza Alighieri, cuore di Galatina.
E' ora che la nostra storia varchi i confini e gli ambiti più strettamente "provinciali".

 

1)Lezione di P. Francesco D'Acquarica



2)Lezione di Antonio Mellone

Lunedi scorso da questa stessa “cattedra” ha parlato P. Francesco D’Acquarica. Il quale m’ha riferito di aver preparato la sua lezione con slides e foto che poi per questioni tecniche non ha potuto utilizzare.
Oggi chi vi parla, non disponendo,… anzi - diciamo tutta la verità - non avendo tanta dimestichezza nemmeno con quella diavoleria elettronica altrimenti chiamata Power Point, non ha preparato slides, né foto, non vi farà provare l’ebbrezza di effetti speciali (a prescindere dal loro funzionamento) e non vi proietterà nulla. E dunque, pur avendo oltre trenta anni di meno di P. Francesco, essendo molto meno tecnologico di P. Francesco, dimostrerà, con questo, come la storia a volte… possa fare salti indietro.

*

Quindi da un lato non vi proietterò nulla; dall’altro vi chiederò uno sforzo di immaginazione (ma alla fine vi suggerirò un supporto, uno strumento portentosissimo per fissare, per memorizzare quanto sto per dirvi. Poiché come diceva il padre Dante “… Non fa scienza, sanza lo ritener l’aver inteso”. La scienza è cioè contemporaneamente “comprensione” e “memoria”. Sapere le cose a memoria senza averle capite non serve a nulla; ma non serve a nulla nemmeno comprendere e non ricordarle! Cioè se uno intende, comprende, ma non ritiene, cioè non memorizza, è come se non avesse fatto nulla: o meglio non ha – diciamo – aumentato la sua scienza).

*

Questa sera cercheremo però in un modo o nell’altro di fare un viaggio nel tempo e nello spazio. E’ come se questa stanza si trasformasse in una macchina del tempo (ma anche dello spazio: ma non un’astronave!) che ci porti indietro nel tempo, nella storia, ma anche nella leggenda, nella favola, poiché, sovente, là dove scarseggia la documentazione, là dove il piccone dell’archeologo tarda a farsi vivo, è necessario supplire con altri dati, in molti casi con delle “inferenze” (che non sono proprio delle invenzioni) ma, diciamo, delle ipotesi ragionevoli.
Così dice il Manzoni nel capitolo XIII, allorché parla dello sventurato vicario – poi, bene o male, salvato, dalla inferocita folla, da Antonio Ferrer – “ Poi, come fuori di se, stringendo i denti, raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta… Del resto, quel che facesse precisamente non si può sapere, giacché era solo; e la storia è costretta ad indovinare. Fortuna che c’è avvezza.”
La storia è costretta ad indovinare; la storia s’inventa sovente le cose: fortuna che c’è avvezza.
La storia è avvezza ad inventar le cose!
E se lo dice il Manzoni stiamo tranquilli.
Dunque a volte nella storia può funzionare (e funziona: tranne che per qualche sofisticato prevenuto o per chi voglia leggere la storia con pretese inutilmente tormentatrici) la “ricerca interpretativa”; quella, per esempio, che porta un autore a dire esplicitamente quello che non ha detto, ma che non potrebbe non dire se gli si fosse posta la domanda.
Così in mancanza di documentazione la storia può servire non a darci delle risposte, ma a farci porre delle domande.
Le risposte ragionevoli a queste domande altro non sono che la costruzione della storia, nella quale – come dice Antonio Antonaci - il territorio, il folclore, la trasmissione orale, il dialetto, il pettegolezzo finanche, la leggenda il dato antropico, quello religioso, quello politico, ecc., si intersecano, uno complemento dell’altro…
E’ ormai pacifica un’altra cosa: lo storico, nelle sue ricostruzioni, inserisce il suo punto di vista, la sua cultura, finalità estranee ai testi ed ai fenomeni osservati. Per quanto cerchi di adattare il suo bagaglio concettuale all’oggetto della ricerca, lo storico riesce di rado a sbarazzarsi del filtro personale con cui studia le cose.

*

Ma prima, di procedere in questo viaggio fantastico, visto che vedo qualche volto perplesso (della serie: a che titolo questo sta parlando?) volevo dirvi chi è l’autista di questo autobus, chiamiamolo pure pulman turistico diretto verso Noha: la guida, se volete, di questa sera.
Dunque mi presento intanto dicendovi che sono Antonio Mellone. E su questo non ci piove.
E poi come constato con piacere, in mezzo a voi questa sera ci sono tanti miei cari ed indimenticati maestri che mi hanno avuto alunno alle scuole superiori: oltre al prof. Rizzelli, vedo la prof.ssa Benegiamo, la prof.ssa Baffa, la prof.ssa Giurgola, il prof. Carcagnì, la prof.ssa Tondi, la prof.ssa Masciullo, il prof. Beccarrisi, il prof. Bovino conterraneo, il preside Congedo, vedo l’ing. Romano, e tanti altri illustri professori delle medie, dei licei, della ragioneria ed anche dell’Università di Lecce, come il prof. Giannini, che ringrazio per le parole a me indirizzate. Sicché stasera più che in cattedra, mi sento interrogato, diciamo.
Grazie per l’onore che mi concedete nel parlare a voi, siate indulgenti con me, come tante volte lo siete stati allorché sedevo … dall’altra parte della cattedra!

*

Dunque per chi non mi conoscesse…
Sono di Noha, 39 anni, laurea cum laude in Economia Aziendale presso la Bocconi di Milano, dottore commercialista e revisore ufficiale dei conti, attualmente impiegato alle dipendenze di un importante istituto di credito (importante è l’istituto di credito: non io!) con la carica di Direttore della filiale di questa banca in quel di Putignano, in provincia di Bari.
Ecco: finora questi dati sono soltanto serviti a confondervi ulteriormente le idee, perché da subito spontanea sorge in voi la domanda: e questo Mellone cosa c’azzecca con la storia di Noha?
Allora aggiungo qualche altro dato: e vi dico che sono di Noha e che quell’Antonio Mellone che scrive su “il Galatino” (e gli argomenti nella maggior parte dei casi vertono su temi nohani) da ormai oltre 10 anni, è il sottoscritto.
Non solo, aggiungo e quadro il cerchio, dicendovi che ho curato e scritto insieme a P. Francesco D’Acquarica per l’editore Infolito Group di Milano nel mese di maggio 2006, il libro “Noha. Storia, arte, leggenda”, sul quale ritornerò qualche istante alla fine della nostra conversazione.
Fatta tutta questa premessa di carattere metodologico (che se volete potete considerare pure come “excusatio non petita”) entriamo nel vivo della discettazione, o lectio, o “lettura” che dir si voglia (così come un tempo veniva chiamata una lezione universitaria).

*

Per la Storia di Noha, questa sera, non faremo un exursus: salteremo da palo in frasca, parleremo di tutto di più, ma vedrete che, senza dirvelo, un filo conduttore, un disegno, fra tutte queste disiecta membra ci sarà.

*

La prima domanda che sento rivolgermi da tutti quelli con cui discetto di Noha è la seguente: da dove deriva questo nome?
Risposta a voi qui presenti: ve ne ha già parlato P. Francesco D’Acquarica lunedì scorso.

*

Una curiosità intanto: sapete cosa significa Noha nell’arcaico linguaggio degli indiani d’America? Il lemma “Noha” significa: auguri di prosperità e gioia. L’ho scoperto sentendo un CD dal titolo The sacred spirit - Indians of America. Collezione Platinum Collection 2005. Quindi a qualcuno se volete augurare salute, prosperità e gioia, d’ora in avanti, al compleanno, a Natale o al compleanno, potete dirgli “Noha”. Noha: e non sbagliate!

* * *

P. Francesco la volta scorsa vi ha parlato di una serie di ipotesi a proposito del nome Noha. Io questa sera vi racconto un mito: quello della principessa Noha, che poi avrebbe dato il nome al nostro paese, che prima si chiamava NOIA..
… Noha era una bellissima principessa messapica, che per amore di un giovane principe-pastore, Mikhel, principe di Noia, si stabilì in quel paese cui poi diede il nome.

*

Nei campi dell’antica Messapia, per una traccia di sentiero, segnata da innumerevoli piedi nudi tra le erbe, (solo le più abbienti portavano i calzari) le donne messapiche, sguardo fiero di occhi neri e pelle bruna, capelli lucidi aggrovigliati e andatura energica, portavano con sé panieri pieni di cicorie e formaggio.
Andava, sì, scalza, anche la principessa Noha, mentre le piante dei piedi si espandevano illese sul sentiero, ma il suo portamento, il piglio, il tintinnio dei suoi monili e la cura con cui annodava i capelli e li fermava con cordelle di seta colorata, manifestavano la sua origine regale, nonché la sua voglia di essere bella.
Quando fu il tempo deciso dal re suo padre, Noha si trovò a dover scegliere quale compagno di vita uno fra i molti pretendenti invitati a palazzo…
Ogni pretendente portò con se un dono, secondo le proprie possibilità. Ora, uno portò collane di diamanti costosissime, un altro un anello d’oro molto prezioso, un altro ancora in dote avrebbe portato terreni e palazzi…
Ma la saggia principessa Noha, fra i tanti corteggiatori, per condividere la sua vita, scelse Mikhel, principe di Noia, che le aveva portato in dono solo ciò di cui egli era dotato: e cioè il sorriso, la gentilezza, la semplicità, il rispetto dell’ambiente, l’altruismo, la gratitudine, il senso del dovere e tutto quanto fa vivere in armonia con se stessi, con gli altri e con il creato. Noha reputò che questo era un vero e proprio scrigno di tesori.
Noha rinuncia così per amore allo sfarzo ed agli agi del castello della “Polis” di suo padre (che viveva nella importante città di Lupiae), vivendo felice e contenta nella cittadina del suo Mikhel.

Mikhel e Noha celebrarono le loro nozze a palazzo reale, ma poi vissero la loro vita coniugale nella piccola Noia, nella semplicità, nella concordia e nell’armonia e la governarono così bene da rendere tutti felici e contenti.
Fu così che il popolo, grato, scelse democraticamente di cambiare il nome della cittadina da Noia in Noha.

* * *

Ora allacciate ben bene le cinture di sicurezza: andiamo finalmente a Noha!
La volta scorsa avete avuto modo di conoscere la chiesa piccinna, il Pantheon della Nohe de’ Greci, una chiesa che si trovava proprio in centro, accanto alla chiesa madre, dedicata a san Michele, patrono di Noha.
Questa chiesa piccinna era dedicata alla Madonna delle Grazie, compatrona di Noha, e presentava all’interno degli affreschi. Non esistono delle foto che la ritraggono nella sua interezza: ma soltanto dei disegni di chi la ricorda bene, e qualche foto di piccoli brani dell’interno e dell’esterno di questo monumento.
Era di forma ottagonale. Io non l’ho mai vista (se non in disegno e nelle foto di cui dicevo).
Ma se vi volessi dare una mano o qualche idea ad immaginarla, vi direi che era molto somigliante alla vostra chiesa delle anime (aveva una cupola, però, con dei grandi finestroni).

Ma questo monumento non c’è più: abbattuto, come molti altri…
Ma è inutile ormai piangere sul monumento abbattuto, così come è inutile piangere sul latte versato. Ma questo non è l’unica chiesa abbattuta. Le chiese di Noha abbattute furono molte… Ve ne ha già parlato P. Francesco…
Ma non vi preoccupate. Non sono state abbattute proprio tutte. Qualcuna rimane ancora e qualcun’altra è stato costruita ex novo.
Oggi ne rimangono in piedi, (molte rifatte ab imis) - oltre alla chiesa Madre, dedicata a San Michele Arcangelo, la chiesa della Madonna delle Grazie inaugurata nel 2001, la chiesa di Sant’Antonio di Padova, (che per la forma ricorda in miniatura la basilica del Santo a Padova), la chiesa della Madonna di Costantinopoli, e la chiesa della Madonna del Buon Consiglio e la grande chiesa del cimitero, il quadro del cui altare maggiore, ricordo da ragazzino allorchè ero chierichietto, rappresentava la Madonna del Carmine.
Ma questa sera non voglio portarvi in giro per chiese… che magari vedremo una prossima volta.

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Ma si diceva: un tempo le persone non capivano erano iconoclaste incoscientemente; non si dava importanza ai beni culturali, si abbatteva tutto con facilità.
Può darsi.
Ma questo poteva essere vero quaranta o cinquanta anni fa.
Ma oggi?
Un delitto contro la cultura e la storia, lo stiamo compiendo noi (non il tempo!) oggi: nel 2007! Noi di Noha; voi di Galatina: anche voi che mi state ascoltando, nemmeno voi ne siete esentati.
Perché? Perché tutti siamo responsabili di qualcosa.
Per esempio siamo responsabili se non conosciamo questi luoghi e questi fatti che si trovano ad un fischio da noi. Dovremmo cioè smetterla di pensare al mondo, solo quando al mondo capita di transitare dal tinello di casa nostra!
Il piccone della nostra ignavia si sta abbattendo giorno dopo giorno su quale monumento? Sulla torre medievale di Noha.
Si, perché, signori, se non lo sapete a Noha c’è una torre medioevale le cui pietre gridano ancora vendetta. E questa torre si trova proprio in centro. Dentro i giardini del castello.

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Al di là di un muro di cinta, in un giardino privato (ma trascurato: quindi non sempre il privato è meglio del pubblico), dunque in un giardino tra alberi di aranci mai potati. Questa torre si regge ancora, da settecento e passa anni, come per quotidiano miracolo: la torre medioevale di Noha, XIV secolo, 1300.
Da quella torre, addossata al castello, riecheggiano ancora le voci lontane di famiglie illustri nella vita politica del mezzogiorno d’Italia. A Noha abitarono i De Noha, famiglia nobile e illustre che certamente ha avuto commercio con i Castriota Scanderbeg e gli Orsini del Balzo, signori di San Pietro in Galatina (città fortificata chiusa dentro le sue possenti mura), ma anche con Roberto il Guiscardo e chissà forse con il grande Federico II, l’imperatore Puer Apuliae, che nel Salento era di casa.
Da Noha passava una strada importante, un’arteria che da Lecce portava ad Ugento, un’autostrada, diremmo oggi, che s’incrociava con le altre che conducevano ad Otranto sull’Adriatico o a Gallipoli, sullo Ionio.
Da Noha passarono pellegrini diretti a Santa Maria di Leuca e truppe di crociati pronti ad imbarcarsi per la terra santa, alla conquista del Santo Sepolcro…

La sopravvivenza stessa e lo sviluppo dell’antico casale di Noha debbano molto a questa torre di avvistamento e di difesa, situata su questo asse viario di cui abbiamo già parlato (così come riconoscenti ai loro edifici fortificati devono essere Collemeto e Collepasso; mentre a causa della mancanza di tali strutture difensive vita breve ebbero i casali di Pisanello, Sirgole, Piscopio e Petrore).

La “strada reale di Puglia” ed in particolare la sua arteria che congiungeva Lecce ad Ugento, nata su un tracciato di strada preromana, aveva proprio nelle alture di Noha e Collepasso, e nelle rispettive torri, due punti strategici di controllo e difesa del percorso.

Come si presenta dal punto di vista architettonico?
La torre di Noha, che raggiunge i dieci metri d’altezza permettendo così il collegamento a vista con le altre torri circostanti, si presenta composta da due piani di forma quadrangolare. Una bella scala in unica rampa a “L” verso est, poggiata su un arco a sesto acuto, permetteva l’accesso alla torre tramite un ponte levatoio (una volta in legno oggi in ferro).
La torre è stata realizzata con conci di tufo regolari, un materiale che ha permesso anche un minimo di soluzioni decorative: la costruzione infatti è coronata da un raffinata serie di archetti e beccatelli.
Dei doccioni in pietra leccese permettevano lo scolo dell’acqua della terrazza (con volta a botte).

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Chiuso anche questo argomento della torre.

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Nel complesso del castello si trovano (oltre al castello stesso: ma di questo non ve ne parlo) altri monumenti: il primo è curiosissimo. Si tratta delle “casette dei nani o degli gnomi”, anche queste un mistero. (Il secondo è un ipogeo; il terzo la “casa rossa”)
Le casette dei nani.
Le avete mai viste? Qualcuno di voi le ha mai viste? Sapete cosa sono? E dove si trovano?
E’ una specie di villaggio in pietra leccese, un capolavoro di architettura, fatto di tante casette piccole, che sembrano tante case dei nanetti. Si trovano sulla terrazza di una casa che fa parte del complesso del castello di Noha. Una delle case dove abitavano i famigli, i servi dei signori del palazzo.

Il villaggio di Novella frazione di Nove è fatto di casette piccine e leggiadre: un piccolo municipio, la piazzetta, la chiesetta con un bel campanile, la scuola, la biblioteca, le casette degli altri gnomi, il parco dei giochi, ecc.
Nel paese di Novella non vi erano mega-centri commerciali, aperti sette giorni su sette e fino a tarda ora; ma negozietti e botteghe a misura d’uomo… anzi di gnomo… di gnomo.

Così, da basso (lasciando alle spalle la farmacia di Nove) basta alzare lo sguardo e tra la folta chioma di un pino marittimo, si riesce ad intravedere il campanile ed il frontespizio di una “casetta” dalla quale sporge un balconcino arzigogolato, finemente lavorato.
Ma per poter vedere tutto quanto il paese di Novella bisogna salire sulla terrazza di quella casa - chiedendo il permesso alle gentilissime signore che attualmente abitano il primo piano del castello.
Quando passate da Noha, fermatevi un attimo ad ammirare i resti di queste casette. Sono ricami di pietra, lavoro di scalpellini e scultori che hanno creato opere d’arte. Anche queste casette-amiche ci chiedono di essere restaurate.

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Ora facciamo quattro passi a piedi (abbiamo lasciato il nostro pulman virtuale) e attraverso via Castello dirigiamoci verso il centro della cittadina.
Stiamo calpestando un luogo antico ed un manto stradale che cela un sotterraneo: è un ipogeo misterioso.

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Nella primavera del 1994 a Noha, fu una ruspa, impegnata in lavori alla rete del gas metano, durante lo scavo di una buca, sfondandone improvvisamente la volta, a portare alla luce un mondo sotterraneo, un ipogeo misterioso di notevoli dimensioni.
Il gruppo speleologico leccese "'Ndronico" invitato dall’allora sindaco prof. Zeffirino Rizzelli, provvide alla perlustrazione, ai rilievi ed alle analisi di quegli antri. E conclusero che si era in presenza di un reperto di archeologia industriale di Terra d'Otranto: un frantoio ipogeo.
Concordo con questa conclusione e con la relazione degli speleologi. Però aggiungo che è proprio della scienza la ricerca continua di elementi che possano confutare o confermare una tesi.
La tesi in questo caso è quella della vox populi che narra di un passaggio segreto in grado di collegare il palazzo baronale di Noha con la masseria del Duca nell'agro di Galatina.
E come in molti altri Castelli italiani o stranieri avviene, è ragionevole ipotizzare che anche in quello di Noha possano esserci anfratti, nascondigli, passaggi, dei trabucchi, carceri e bunker sotterranei, al riparo da occhi indiscreti, o di difesa dalle armi nemiche, o assicurati contro facili evasioni, o in grado di imporre dura vita ai prigionieri.
Vi sono in effetti alcuni elementi contenuti nella relazione e confermati da una nostra visita che abbiamo avuto la fortuna di compiere proprio in questo ipogeo, durante l'estate del 1995, insieme ad un gruppo di amici (tra i quali P. Francesco D'Acquarica: non pensavamo dieci anni fa di scrivere un libro a quattro mani) elementi, dicevo, che fanno pensare che ci sia un collegamento tra il Palazzo Baronale, l'adiacente Torre medioevale, l'Ipogeo stesso e chissà quali altri collegamenti.

Dalla relazione degli speleologi si legge: "sul lato Nord si diparte un corridoio che, dopo alcuni metri, si stringe e permette di accedere ad un pozzo d'acqua stagnante sotto una pittoresca piccola arcata bassa, di elegante fattura e dolcemente modellata e levigata, dinanzi alla quale siamo costretti a fermarci…". Poi ancora un altro brano dice: "…la pozza sull'altra sponda presenta una frana in decisa pendenza accumulata fino alla sommità superiore di un arco ogivale che a sua volta sembrerebbe nascondere un passaggio risalente in direzione del Palazzo Baronale..". In un altro stralcio leggiamo: " …esiste un cunicolo a Sud. Tale galleria risulta riempita, al pavimento e sino ad una certa altezza, di terriccio, per cui abbiamo proceduto carponi. Il corridoio di mt. 11,00 circa, largo mt. 1,10 ed alto nel punto massimo mt. 1,30, mette in comunicazione i due ipogei, come se il primo volesse celare il secondo in caso di assedio…". Infine in un altro pezzo è scritto: "Ripartendo dalla scalinata Sud ed inoltrandoci nella parte destra, a circa 6,00 mt., vi è un tratto di parete murata come se si trattasse di una porta larga circa mt. 1,30…"
Dalle mappe abbozzate risultano a conferma "porte murate", "probabili prosecuzioni", "cunicoli da utilizzare in caso di assedio".
Se questi elementi da un lato, non dandoci certezze, ci permettono di fantasticare e nutrire mitiche leggende di "donne, cavallier, arme e amori” o il mito dell’Atlantide sommersa proprio a Noha; dall'altro potrebbero servire agli addetti ai lavori, agli studiosi, per proseguire, nella ricerca di altre tessere importanti del mosaico di questa storia locale. Per ora questo ipogeo è chiuso e dimenticato da tutti.

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Un altro mistero. Vedete quanti misteri. Questa sera più che Antonio Mellone sembro Carlo Lucarelli, con la sua trasmissione Bluenotte, quella che va in onda su Rai tre.

Ora un cenno ad un altro mistero, un monumento: la Casa Rossa.

La Casa Rossa è una costruzione su due piani, che un tempo era parte del complesso del palazzo baronale di Noha (o Castello). E’ così chiamata a causa del color rosso mattone delle pareti del piano superiore. La Casa Rossa ha qualcosa che sa di magico: è un’opera originale e stravagante.
Da fuori e da lontano, dunque, si osserva questa specie di chalet, rosso, dal soffitto in canne e gesso, con tetto spiovente (cosa rara nel Salento), con due fumaioli, una tozza torre circolare, a mo’ di garitta a forma di fungo, con piccole finestre o vedute.
L’ingresso alla Casa Rossa si trova sulla pubblica strada, continuazione di Via Michelangelo, nel vico alle spalle della bella villa Greco (oggi Gabrieli).

Il piano terra invece pare ricavato nella roccia: all’interno si ha l’impressione di vivere in una grotta ipogea, scavata da una popolazione africana. Le pareti in pietra, prive di qualsiasi linearità, hanno la parvenza di tanti nidi di vespe, con superfici porose, spugnose, completamente ondulate, multicolori (celestino, rosa e verde), ma dall’aspetto pesante: somigliano quasi a degli organismi naturali che sorgono dal suolo.
In codesta miscela d’arte moderna e design fiabesco, ogni particolare sembra dare l’idea del movimento e della vita.
I vari ambienti sono illuminati dalla luce e dai colori che penetrano dalle finestre e dalle ampie aperture da cui si accede nel giardino d’aranci.
In una sala della Casa Rossa c’è un gran camino, e delle mensole in pietra.
In un’altra v’è pure una fonte ed una grande vasca da bagno sempre in pietra, servite da un sistema di pompaggio meccanico (incredibile) dell’acqua dalla cisterna (cosa impensabile in illo tempore in cui a Noha si attingeva con i secchi l’acqua del pozzo della Trozza o dalla Cisterneddhra, che sorgeva poco lontano dalla Casa Rossa, mentre le abluzioni o i bagni nella vasca da bagno, da parte della gente del popolo, erano ancora in mente Dei).
Le porte interne in legno, anch’esse, come le pareti, sembrano morbide, come pelle di vitello. Il cancello a scomparsa nella parete e le finestre che danno nel giardino sono grate in ferro battuto e vetro colorato. I vetri (quei pochi, purtroppo, superstiti) rossi, blu e gialli ricordano per le loro fantasie iridescenti le opere di Tiffany.
Al piano superiore si apre un ampio terrazzo, abbellito con sedili in pietra, che permetteva di godere del panorama del parco del Castello o del fresco nelle calde serate estive.
Ma cosa possa, di fatto, essere la Casa Rossa (o a cosa potesse servire) rimane un mistero.
Alcuni la ritengono come il luogo dove venivano accolti gli ospiti nel periodo estivo, del solleone; altri come la casa dei giochi e degli svaghi della principessina (proprio come era la Castelluccia che si trova nel parco della Reggia di Caserta); altri ancora ipotizzano che si tratti di un “casino” di caccia.
Qualcuno maliziosamente afferma che fosse adibita a casa di tolleranza.
Le leggende sul conto della Casa Rossa s’intrecciano numerose: storie di spiriti maligni e dispettosi, di persone che sparivano inspiegabilmente, di briganti che là avevano il loro quartier generale, di prigionieri detenuti che nella Casa scontavano, castighi, torture, o pene detentive.
Qualcuno azzarda anche l’idea che fosse abitata dalle streghe, o infestata dai fantasmi; qualcun altro dice addirittura che fosse occupata dal diavolo in persona (per cui un tempo la Casa Rossa di Noha era uno spauracchio per i bambini irrequieti)…

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La Casa Rossa di Noha a me sembra un vero e proprio monumento in stile Liberty.
Il Liberty è il complesso e innovativo movimento stilistico europeo che si diffuse tra il 1880 e il 1910.
Elemento dominante di questa “moda” sono le linee curve ed ondulate, spesso definite con l’espressione coup de fouet (colpo di frusta), ispirate alle forme sinuose del mondo vegetale e combinate ad elementi di fantasia. Non fu un unico stile: ogni nazione lo diversificò, lo adattò, lo arricchì secondo la propria cultura.
Il modernismo o arte nuova (art nouveau) toccò anche Noha e Galatina. E la Casa Rossa, quindi, costruita con molta probabilità tra l’ultimo ventennio del 1800 ed il primo del 1900, è la massima espressione di quest’epoca, che diventerà in francese belle epoque, in nohano epoca beddhra.

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Allora vi ho parlato fino a questo momento di monumenti. Vi avrei potuto parlare dei personaggi di Noha. Ce ne stanno. Ce ne stanno. E molti pure!
Se vi va lo faremo una prossima volta.
Ora permettetemi solo di fare un cenno ad un solo personaggio di Noha, scomparso recentissimamente. Lo merita. E’ venuto a mancare a Firenze all’età di 53 anni. Era un artista. Un grande.
Era il grande Gino Tarantino, architetto, scultore, pittore, fotografo: un maestro, un esteta.
Ha vissuto gli anni della giovinezza a Noha e dopo ha studiato architettura a Firenze, dove è rimasto e dove ha creato la maggior parte delle sue opere d’arte. Originali e geniali. Gino Tarantino era un artista, ma, prima di tutto, un uomo intelligente e sensibile. Un uomo che ha dato lustro a Noha ed al suo Salento (la sua opera fu perfino pubblicata da “Flash-art”, rivista d’arte e cultura, conosciuta in tutto il mondo, se non altro dagli addetti al settore)…

Qualcuno lo definiva un tipo “eccentrico”.
Io l’ho conosciuto nel corso della scorsa estate. Gino Tarantino aveva piacere di trascorrere le vacanze a Noha, nella sua terra natale, ne amava il sole, il mare, la luce ed in fondo anche la gente. Colse molti volti salentini, specialmente di adolescenti e giovani. Creava e lavorava anche in vacanza: disegnava, fotografava, impastava, scolpiva, plasmava.
Creava. Elaborava interiormente immagini su immagini.
Era il Gaetano Martinez di Noha.

Diciamo che era un tipo originale, anticonformista, estroso, creativo, uno spirito libero, uno che volava alto con il pensiero, non influenzato dalla banalità delle immagini televisive (“non ho la televisione. Non ho neanche un’antenna” – diceva. E veramente, nemmeno la macchina e nemmeno la patente: per scelta di vita).
Era cordiale, sorridente e (anche a detta di molte donne) un tipo affascinante.
Le sue opere stupiscono e incantano, seducono ancora e riescono, con combinazioni inedite di elementi noti, a dare idea di quanto la mente umana sia in grado di inventare.
Con la sua arte e le sue capacità intellettive ha lottato per integrarsi in quel mondo (chi è del giro sa) così duro e ristretto degli artisti, e delle gallerie; un campo difficile, e ancor peggio, in una città come Firenze: culla dell’Arte Italiana.
Uno spirito così libero ed estroverso come Gino non avrebbe mai accettato di fare altro. A volte partecipava a progetti di architettura (ha arredato case di illustri personaggi a Roma, a Parigi, in Spagna ecc.) ma esclusivamente per ragioni economiche: preferiva dedicare il suo tempo e le sue energie alle sue sculture, alle sue opere la cui rendita economica, come sempre accade per l’arte in genere, si proietta quasi sempre in un futuro estremo.
Ci auguriamo che quanto prima molte sue opere rimesse sul vagone (anzi su più di un vagone) di un treno tornino a Noha. E che presto trovi giusta collocazione nella storia, nell’arte e nella leggenda anche Gino Tarantino e la sua opera, finalmente catalogata e rivalutata.
Purtroppo, dobbiamo constatare ancora una volta che anche per Gino Tarantino vale la legge della morte quale condizione necessaria per l’immortalità della fama!

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A mo’ di notizia in anteprima (questa non è storia, non è attualità è futuro… prossimo) vi comunico che con un gruppo d’amici abbiamo dato vita ad una redazione che sta per dare alla luce un nuovo periodico (di cui non conosciamo, pensate un po’, neanche la periodicità!) on line dalla testata che suona così: L’OSSERVATORE NOHANO. Somiglia per assonanza, ma solo per assonanza all’altra testata ben più famosa: l’organo della Santa Sede. Ma rispetto a quello il nostro è di matrice puramente laica. Rispetteremo la chiesa cattolica così come rispetteremo, né più né meno, le altre Istituzioni.
Abbiamo dedicato il primo numero a Gino Tarantino, del quale vorremmo poter emulare la libertà del pensiero e dell’azione (sempre nel rispetto degli altri, s’intende). Potete accedere al nostro Osservatore attraverso il sito www.Noha.it e buona navigazione. Come dicevo non sappiamo dove tutto questo potrà portarci: a noi interessa partire con entusiasmo e dirigerci ed andare là dove ci porterà il cuore.

* * *

Lo strumento portentosissimo di cui vi parlavo all’inizio di questa mia relazione che volge al termine (vi ricordate quando dicevo: non fa scienza sanza lo ritener l’aver inteso?), dunque questo strumento è (non poteva essere altrimenti) un libro. Il libro scritto a quattro mani dal sottoscritto e da Padre Francesco: il titolo: “Noha. Storia, arte e leggenda”. Un libro prezioso, per il contenuto, e pregiato per il contenitore. Che questa sera chi lo volesse potrebbe farlo ad un prezzo speciale. Prezzo speciale Università Popolare 30 euro, anziché 35.
Ma non voglio fare la Vanna Marchi della situazione. E non vorrei approfittarne. Se lo volete me lo chiedete. Altrimenti non fa nulla.

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Cari amici concludo.
Questa sera vi ho parlato di Noha.
Ve ne ho parlato per contribuire solo un poco alla sua conoscenza. Perché si sa che la conoscenza è condizione necessaria (e sufficiente, dico io) per il rispetto e per l’amore dei luoghi, delle persone e della loro storia.
La conoscenza ci rende un po’ più umili. E l’umiltà ci permette non di giudicare, non di guardare dall’alto verso il basso, ma di guardare dentro, di sintonizzarci, di imparare, di capire, di rispettare.
Solo con questi atteggiamenti miglioreremo: e staremo bene con noi stessi e con gli altri.
Mi auguro che non pensiate soltanto che Noha sia come la cronaca nera ci fa leggere sui giornali soltanto la cittadina della mafia o della sacra corona unita. Non è questo. Non è solo questo. Come ho cercato di raccontarvi fino a questo momento.
Mi auguro dunque alla fine che amiate un po’ di più Noha, i suoi monumenti, la sua storia, i suoi abitanti, e - se questa serata non v’è dispiaciuta affatto – anche chi vi ha parlato finora, tenendovi incollati o inchiodati alla sedia.
Se invece fossi riuscito soltanto ad annoiarvi: guardate non l’ho fatto apposta!

Grazie.

 

Quella che oggi è “solo” frazione del Comune di Galatina fino a qualche secolo fa era un centro autonomo con una chiesa matrice, un castello, mura di difesa, il nome potrebbe derivare dalla famiglia de Noha già presente in alcuni documenti del 1253. L’autonomia del feudo de Noha è stata sottolineata dalla torre campanaria con orologio, costruita dalla famiglia Congedo agli inizi del XIX secolo e dalla presenza di uno stemma proprio: tre torri coronate che poggiano su un ramo d’arancio ed uno di leccio.

Dal punto di vista ecclesiastico la chiesa era sotto la giurisdizione della diocesi di Nardò e non di Otranto, come la vicinissima Galatina. Del patrimonio medievale è possibile ancora ammirare la torre di guardia del XIII secolo che ha conservato intatta la struttura originaria: la scalinata in pietra staccata dalla torre, cui si poteva accedere solo con il ponte levatoio ( ancora presente all’interno).

A Noha, agli inizi del Novecento, la rinomata distilleria Galluccio produceva il brandy migliore per tutto il mondo. Il grande complesso, che oggi dovrebbe essere un vanto dell’archeologia industriale, prevedeva anche una costruzione piuttosto anomala che gli abitanti ancora oggi chiamano la casa rossa:  una costruzione in pietra che ricorda le baite di montagna, con ambienti interni che simulano grotte e anfratti. Un gusto dell’eclettico figlio dello stile liberty di quegli anni, che attingeva alle diverse forme della natura. Sempre agli inizi del XX secolo mastro Cosimo Mariano, muratore, realizzava degli edifici in miniatura sulla balconata del castello, modellini in pietra di edifici realizzati per tutta la provincia di Terra d’Otranto. Si tratta delle “casiceddhe de Noha”, un tesoro di tradizione popolare, antesignane dell’Italia in Miniatura,che negli anni hanno alimentato storie e leggende. E poi il ricchissimo sottosuolo di Noha: una serie di frantoi ipogei che producevano l’ olio lampante destinato a Gallipoli.

Quanta storia, un patrimonio unico, che oggi 1471 cittadini chiedono che venga sottoposto a tutela e rivalorizzato. La raccolta firme è stata promossa in occasione della festa patronale di S. Michele Arcangelo grazie alla sensibilità del gruppo Mimì, in collaborazione con il circolo ricreativo le Tre Torri, aziende private e singoli cittadini che non ci tengono affatto che un tesoro che ha resistito alle insidie del tempo e della storia vada perduto nel giro di pochi anni.

 Il pericolo maggiore è che buona parte dei beni fin qui descritti, essendo privati, possano essere distrutti per far posto a moderni ed anonimi edifici: l’intero complesso del castello, con le casiceddhre e lo splendido aranceto è già stato posto in vendita. Parte delle fabbriche Galluccio vedrà presto la realizzazione di immobili. La rivalorizzazione di questi beni potrebbe essere un ulteriore elemento economico per il tessuto di Noha e non solo, basti pensare al presepe vivente che anche quest’anno verrà riproposto all’interno dell’antica masseria Colabaldi, del XVI secolo. Un evento che lo scorso anno ha contato 15.000 presenze. Basta poco per muovere tanto: e’ un appello agli organi amministrativi e alla Sopraintendenza della Puglia per la salvaguardia di un intero borgo quale è quello di Noha. E’ quello che chiedono 1471 firme.

Bibliografia: F. D’Acquarica, A. Mellone, Noha , storia, arte, leggenda,Milano, 2006

M. D’Acquarica, I Beni Culturali di Noha, Galatina, 2009

torre XIII secolo

Angela Beccarisi

 
Di Albino Campa (del 29/11/2008 @ 14:54:38, in Eventi, linkato 4075 volte)
Eccovi di seguito gli atti del convegno per la presentazione del libro "Il sogno della mia vita" di don Donato Mellone che ha avuto luogo nel salone del circolo culturale "Tre Torri" di Noha il 18 ottobre scorso, nell'ambito della rassegna nazionale Ottobre piovono libri. Noi di Noha.it ovviamente eravamo presenti.



Presentazione del libro

Il sogno della mia vita”


(Circolo culturale Tre Torri – Noha, 18 ottobre 2008)


Buonasera a tutti e benvenuti a questa manifestazione in cui parleremo di libri.

Questa serata rientra in un cartellone che ormai esiste dal 2006, e nel quale proprio dall’inizio io ho avuto l’onore di far parte per esserne stato sempre invitato come relatore. La rassegna si chiama: “Ottobre piovono libri. I luoghi della lettura.” Sottotitolo: “Il Salento ed altre storie”.

Questa manifestazione, come avrete visto dal manifestino, è promossa in collaborazione con tante istituzioni che non sto qui ad elencarvi, e comprende presentazioni di libri, maratone di lettura, bookcrossing (cioè incrocio o scambio di libri), letture di brani nelle chiese, nelle scuole, nelle biblioteche, nei parchi, e anche negli ospedali o nelle carceri o negli autobus, ecc.

Questa sera siamo in un circolo culturale. Il circolo culturale “Tre Torri” che ringraziamo per l’ospitalità.


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Permettetemi ora di aprire una parentesi e la chiudo subito. Qualcuno m’ha chiesto: a che serve la presentazione di un libro?

Vi dico intanto cosa è la presentazione di un libro. La presentazione di un libro è una specie di battesimo del libro. E la si può fare anche più volte. Solo che la seconda volta anziché chiamarsi battesimo, si chiamerà magari cresima.

La presentazione di un libro la si può fare anche se il libro è già conosciuto e, come in questo caso, sia già in circolazione da tempo.

Un libro vive di vita propria. Una volta messo in circolazione non ha più bisogno dell’autore. Però un libro, come una persona ha bisogno di momenti comunitari, magari di festa.

Sicché la presentazione di un libro che come sapete potrebbe essere fatta in televisione, in casa tra amici, in un oratorio, in piazza, o in un circolo culturale, come stasera, deve essere semplicemente un momento di festa.

 

E qui siamo ad una festa, c’è anche il video, c’è la musica (dal vivo, grazie Maestro e grazie e bravi ragazzi!), c’è l’ospite o la madrina della serata, la Giuliana Coppola, dopo ci sarà anche un rinfresco, e tutti voi alla fine avrete anche una piccola immagine in dono: la bomboniera. Ecco cos’è la presentazione di un libro. Una festa necessaria. Che serve al libro in sé, e non necessariamente all’autore o al curatore o all’editore.

Un’ultima cosa brevissima sul concetto di “evento culturale”. Si è parlato di evento culturale, lo avete anche letto sull’invito o sul manifestino. Ma volevo farvi capire che la cultura non è l’evento in sé, che è qualcosa che passa: la cultura è quello che rimane dell’evento. Se di un evento non rimane nulla, allora è meglio non farlo. Di questo evento spero vi rimanga qualcosa. A me certamente rimarrà molto. Chiusa la parentesi.

 

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Io vi presenterò un libro la cui edizione è fresca anzi ancora calda di torchio (è uscito infatti nel mese di giugno di quest’anno) ma di fatto si tratta di un libro che era già stato scritto in diversi anni - una cinquantina circa - a partire dagli anni quaranta del secolo scorso.

Si tratta di un libro i cui paragrafi erano già scritti e sparpagliati in fogli di quaderni trovati per caso. Sicché il mio lavoro è stato come quello per esempio del cuoco (sul libro ho scritto “del sarto”, ma dovevo trovare un’altra metafora per non ripetermi), un cuoco che ha già gli ingredienti a portata di mano e si diletta a preparare a sperimentare un nuovo piatto con una combinazione inedita di elementi noti, mettendoci un po’ di sale ed anche un pizzico di pepe.

Il cuoco di un libro si chiama “curatore”. Il curatore è colui che cerca di legare le parti di un libro, cerca di spiegare, di mettere in relazione, di commentare, di ricordare, di narrare qualche aneddoto; in questo caso è quello che ha scelto la copertina, il carattere, le dimensioni del volume, le foto, i colori, la carta del libro, l’impaginazione, gli spazi tra un rigo e l’altro, e molte altre cose.

Chi di fatto ha scritto il libro invece è l’autore.

Dunque questo libro, diciamo, per l’80% non è stato scritto dal curatore (cioè io che avrò al massimo scritto il restante 20%), ma dall’autore che è il qui presente Donato Mellone (ho detto Donato Mellone perché quando si parla di autori non ci vanno i titoli: dottore, don, professore, onorevole, o zio…).

Ma c’è un’altra particolarità.

Nel 99% dei casi l’autore è consapevole non solo di quello che ha scritto ma anche del fatto che ciò che ha scritto è destinato ad un prodotto editoriale. Cioè è destinato a comporre le pagine di un libro.


Nel caso di questo libro, invece, l’autore sapeva certamente di aver scritto delle cose su dei quaderni: omelie, pensieri, prediche, panegirici. Ma non avrebbe mai pensato che in occasione del suo sessantesimo di sacerdozio, che ricorre proprio in questo 2008 (il 18 luglio scorso, per la precisione: giusto tre mesi fa a partire da oggi), - l’autore dicevo, non avrebbe mai pensato che le sue omelie si sarebbero trasformate in questo libro.

Per forza di cose l’autore doveva rimanere all’oscuro di tutto, altrimenti al sottoscritto curatore non sarebbe mai stato permesso non dico di mettere tutto assieme ma nemmeno di leggere i manoscritti o di riprodurre le foto.

L’autore poi in maniera intelligente ha accettato il tutto, una volta messo di fronte al fatto compiuto. Poi magari ci dirà se ha gradito o meno.


Il titolo del libro… Beh lascio a voi scoprire il perché di quel titolo. Altrimenti che ci state a fare? A cosa servirebbe un lettore se tutto gli venisse scodellato?

Sappiate solo che la storia del titolo di questo libro è bella e sarebbe proprio da leggere. Non vorrei dirvi altro: Elias Cagnetti ebbe a scrivere: “Chi mi consiglia un libro me lo strappa di mano, chi lo esalta me lo guasta per anni”.


Il lavoro del curatore – sappiate - non così facile come potrebbe sembrare a prima vista. Il curatore non si limita a “copiare” (“copiare” con tanto di virgolette). Il curatore deve anche interpretare, capire, deve andare un po’ più in là dell’apparenza.

Nel mio caso è stato come fare un viaggio nel tempo. Ritornare indietro nel tempo per respirare l’aria, l’aura, la cornice di quei quaderni. Del resto riordinare le carte di un archivio è sempre fare un’avventura contro tempo, quando il passato si svela con sorprese inimmaginabili e senti che alcune cose ti appartengono per chi sa quale strampalato marchingegno.


Il presente lo conosciamo attraverso la televisione (purtroppo), mentre i decenni scorsi li conosciamo attraverso i libri e attraverso la visita dei luoghi, oserei dire anche attraverso le pietre.

Allora, sono andato a rileggermi tanti libri per rituffarmi nel periodo degli anni ’40, ’50, ’60. E poi i miei anni ’70, ’80 e ’90, gli anni che mi appartengono. Così non ho potuto non rileggermi Umberto Eco e la sua “La misteriosa fiamma della regina Loana”; un sacco di libri sul mitico ’68, e poi ancora i libri di Antonio Antonaci come per esempio il “Gaetano Pollio”, il “fra’ Cornelio Sebastiano Cuccarollo”, il “Luigi Accogli”; ancora alcuni libri sulle cronache del tempo, per esempio alcuni volumi de “L’Espresso” di quegli anni (che vendevano in allegato con Repubblica) e poi ancora il bellissimo e recente libro di Michele Rielli “Salento anni ’60 (Congedo Editore, 2007), e poi il libro “Memorie di Galatina” di Giuseppe Virgilio (sempre Congedo, 1998), e ovviamente “L’immaginazione che voleva il potere”, AAVV di Manni del 2004, e tanti altri. I libri si parlano tra loro del resto.

Ed altre decine di libri, tra i quali – non stupitevi - qualche testo mio come il “Don Paolo” e il “Noha – Storia, arte, leggenda”.

Cosa credete? Anch’io devo spesso andare a rileggermi quei due o tre libri che ho scritto! Mica mi ricordo tutto.


Poi ho pescato molte cose nella mia memoria di chierichetto, tra l’altro ritratto con altri ragazzi-colleghi sulla prima di copertina. E poi ho chiesto informazioni a destra e a manca. E soprattutto, per descrivere alcuni ambienti, ho dovuto visitare i luoghi del tempo che fu: la vecchia chiesetta di Santa Maria al Bagno, mi sono intrufolato fin nella vetusta sacrestia nella quale ci sono ancora alcune sedie mezzo sgangherate, ma anche nella nuova chiesa dedicata all’Assunta, costruita dal qui presente Donato Mellone stesso. Sono stato a Santa Caterina in quell’altro tempietto. Mi sono recato a Nardò nella cattedrale per percepire nella fissità arcaica di quella maestosa chiesa l’atmosfera solenne dei riti, molti officiati dallo stesso qui presente Donato Mellone, che di quella cattedrale fu viceparroco; ho visitato alcuni ambienti del vecchio seminario, l’episcopio, e villa Tabor a Le Cenate di Nardò. Eccetera.

I luoghi della chiesa di Noha e della canonica ce li ho, anzi ce li avete presenti tutti. Anzi proprio in questo momento, in questi locali, aggrappati alle pietre e agli anni di questi muri, ci sono le storie e le immagini della canonica del tempo narrato nel libro.

Insomma elementi importanti per la sceneggiatura, diciamo.

Dunque nulla di improvvisato. Non si improvvisa nemmeno se si copia.

“Bisogna saper copiare” - ci hanno sempre detto a scuola.

Ora prego Paola Congedo a leggere due brevi brani del sottoscritto, così sentirete con le vostre orecchie se ho copiate bene o male…



(Ecco uno dei due brani letti dalla Paola Congedo)


Da pag. 34

Don Donato, nelle funzioni solenni, e specialmente nel corso del triduo pasquale, voleva che i giovani (finalmente!) fossero presenti sull’altare, accanto al celebrante, nella lettura del “Passio”, della preghiera dei fedeli, ma anche nel corso di tutta la messa, senza bisogno di indossare alcuna tunica o veste liturgica.

Erano “grandi conquiste”, cose inaudite né mai viste prima di quei tempi.

Anche a Noha erano finalmente finiti i tempi in cui le “pizzoche” assistevano attivamente alla messa semplicemente recitando il rosario (che altro potevano fare se non intendevano né potevano ritenere nella loro mente il latinorum?).

A dire il vero, alcune di queste “comandanti di plotone” le vedevi annuire alle parole del prete che recitava preghiere in latino: volevano quasi dimostrare di essere in grado di capire quelle espressioni (latine o italiane che fossero), ma in realtà molto probabilmente non sapevano neanche di cosa il prete stesse parlando.

Al tempo della messa in latino le immancabili pie donne, sovente, ripetevano per assonanza, a memoria (e oltremodo deformavano) le parole che venivano fuori dalla bocca del parroco o da qualcuno più istruito che padroneggiava quella lingua, senza conoscere il reale significato, ma con tanta apparente devozione.

Perciò capitava spesso di ritrovarsi in un coro di fedeli che miscelava frasi e parole latine con il dialetto di Noha: l’esilarante spettacolo era assicurato: “Dominu vu mbiscu”, “Requie e statti in pace”, “Amme”.


* * *

Molti fedeli non sapevano né leggere né scrivere. E quando chi scrive, vestito da chierichetto, distribuiva i foglietti della messa, non era infrequente che qualcuno gli dicesse di non poter leggere. Era facile accorgersi della loro ignoranza; che i più furbi cercavano di mascherare in qualche modo, per esempio adducendo la scusa di aver dimenticato gli occhiali a casa.

Era bello vedere la “Nzina”, la “Tetta”, la “Sina” e la “Vata” tutte prese rigorosamente sotto braccio, dirette alla volta della messa vespertina.

Erano vere e proprie comitive di amiche, colleghe di nero vestite, con abiti e scamiciati perlopiù taglia “over-size”, donne pronte ad intonare, con voci più o meno accordate, più o meno nasali, seguendo chi più chi meno il tempo, l’inossidabile e bellissimo canto “Tantum ergo” (o come a squarciagola stornellavano le allegre comari: “Santu mergo”), ma anche il nuovissimo “Noi canteremo gloria a te…”.

 

Queste donne, così desiderose di spiritualità, erano quasi legate alla sottana (si potrebbe dire così?) di don Donato, tanto che lo seguivano in ogni iniziativa proposta.

Così, una volta, nel Seminario Vescovile di Nardò si tenne un convegno su Bioetica e Religiosità, il cui relatore principale era monsignor Elio Sgreccia, teologo e presidente della Pontificia Accademia Pro-Vita.

Orbene, alcune delle donne cattoliche nohane venendo a sapere dell’importanza del relatore vollero non solo partecipare a tutti i tre giorni del simposio, ma giocando d’anticipo sulle altre colleghe-concorrenti provenienti dalle altre parrocchie della diocesi, riuscirono anche a prendere i posti in prima fila, diremmo “in poltronissima”, onde esser accorte, attente a non perdere nemmeno una parola delle relazioni.

Ma per un paio di esse il tutto fu inutile.

Non passò molto dall’inizio del meeting che, sarà per la comodità della poltrona, sarà per l’ambiente ovattato, sarà per il rilassamento post-battaglia per accaparrarsi i primi posti, sarà per i discorsi invero un po’ monotoni o soprattutto difficili per le loro menti, sarà, dicevamo, per tutte codeste concause prese all’unisono, un paio di esse caddero inesorabilmente nelle braccia di Morfeo: si addormentarono, trasportate dalla voce del monsignore. Il quale, senza dover scrutare oltremodo l’attenzione dell’uditorio, se ne accorse, e ironicamente nel suo discorso fece pure cenno al “trasporto” con il quale qualche signora, assisa proprio di fronte a lui, seguiva la sua prolusione…

Alla fine della lectio magistralis, le belle addormentate, non solo si svegliarono di botto ed applaudirono entusiaste, ma al loro ritorno a Noha non finivano di dire a tutti: “Come è stato bello il convegno, e quanto era bravo il relatore!”>>.

 

* * *


Dopo tutto questo lavoro preparatorio si è potuto procedere alla ricopiatura dei quaderni.

Ecco, in questo libro ci sono 14 quaderni scampati al macero per un caso fortuito. Non vi racconterò - neanche in questo caso – tutta la storia avventurosa di questi quaderni, altrimenti non la leggerete dalle pagine del libro e vi soffermerete e vi limiterete a guardare le foto (vizio di molti).


Si tratta di quaderni stracarichi di anni e di esperienza. Quaderni pieni di versi che sono arrivati fino al nostro tempo a volte senza compiersi per una pazienza che non so capire. Ma come invece capiremo dalla lettura di qualche brevissimo brano, finché ogni giorno ognuno di noi può stare anche su un solo rigo delle scritture sacre o su queste di questo libro che di quelle parlano, riusciremo a non mollare la sorpresa di essere vivi.


Prego Ileana, ora tocca a te.


(Brani letti dall’attrice)



Da pag. 57: La vita è un viaggio spesso doloroso. In questo viaggio sovente si scivola, si cade, si smarrisce la via, ma chi si è comunicato bene la prima volta, si rialza, se si è perduto si ritrova, perché la Comunione accende una stella sulla che attraversa il mare della vita, conduce al porto dell’eterna salute.





Da pag. 67: Noi moderni tutti assillati nella conquista dei beni della terra, abbiamo quasi dimenticato i beni dello spirito; mai come oggi l’umanità è stata trascinata verso la terra, verso la materia, verso le paludi dell’immoralità; mai come oggi l’umanità incredula, scettica nelle verità della fede si è affannata e si affanna a chiedere alla terra, ai beni della terra, la felicità che essi non potranno mai dare.



 

Da pag. 75: Chi è mai in grado di evitare tutti i dolori, i fastidi, le avversità, le malattie, le contraddizioni, le delusioni che l’esistenza di quaggiù riserva al più innocente degli uomini? Se dunque la croce è di tutti, perché rifiutarla, perché non farne tesoro, perché non abbracciarla? Perché guardarla con diffidenza e scansarla o voler liberarsene ogni volta? Come potremo portarla trionfalmente in cielo, se oggi la temiamo e la disprezziamo?



Da pag. 77: La fede che Gesù vuole da noi non deve aver bisogno di miracoli.



Da pag. 78: Di fronte alle angosciose contraddizioni della vita ed alle prove più dure, non mettiamoci a ragionare, non pretendiamo di avere spiegazioni da Dio.



Da pag. 94: La vergogna di certi errori non deve allontanare dal perdono.



Da pag. 113: All’umiltà si oppone l’orgoglio e noi pecchiamo così spesso d’orgoglio. Che cosa è infatti il non voler riconoscere mai il proprio torto, il voler sempre occupare i primi posti, quel criticare le azioni del prossimo, il non accettare i richiami di alcuno?



Da pag. 123: Ricordiamoci che con Cristo si vince sempre. Passeranno gli anni, passeranno i secoli, non importa. Cristo non ha fretta, perché è eterno.



Da pag. 125: Per molta gente rozza non esiste che il lavoro materiale, esso solo è degno di compenso, ad esso solo si attribuisce il progresso umano. Ma c’è un lavoro alto, nobile: quello del pensiero, quello della poesia e dell’arte, e quello ancora più sublime della creazione della santità. Senza questo lavoro non può esserci popolo civile.



Da pag. 135: Ma siamo tutti fratelli! Se un mio fratello cade nel male, chi mi dà il diritto di condannarlo? Chi mi ha costituito giudice?



Da pag. 136: L’uomo ozioso non si occupa di nulla. Sa di avere un’anima da salvare, ma praticamente vive come se non ce l’avesse. Pensiamo che la nostra vita passa. […] Il tempo è nelle mani di Dio. Il tempo vola.



Da pag. 143: Saremo noi giudicati del bene e del male compiuto, saremo giudicati anche del bene che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.



Da pag. 159: La chiesa è la casa della preghiera, il luogo in cui la creatura viene ad umiliarsi davanti al suo creatore, a chiedergli perdono delle sue colpe, ad adorarlo, a glorificarlo, rendergli il supremo culto. Nella chiesa tutto è sacro, tutto è santo, sacre le immagini, le reliquie, sacre perfino le mura, i santi sacramenti, la divina parola, sante le funzioni che in essa si celebrano. La casa di Dio non solo deve essere rispettata, ma in essa devono essere santi tutti i nostri pensieri, tutte le nostre opere, tutte le nostre parole.



Da pag. 153: Quando il peccatore si curva su se stesso, riconoscendo i propri torti ed invocando perdono e misericordia, allora Dio si abbassa e quasi lo abbraccia con il suo perdono.


Da pag. 156: Sentiamolo nel cuore l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo come noi stessi. La stessa misura che noi avremo usato nel trattare col prossimo, quella stessa misura ci sarà usata dinanzi a Dio.



Da pag. 162: Noi i Santi ce li immaginiamo lontani, invece ci sono vicini, sono nostri fratelli, forse nostri fratelli di sangue.


Da pag. 164: A noi tocca essere bravi cristiani e bravi cittadini. Si è bravi cristiani se si è bravi cittadini e viceversa.


Da pag. 165: Dal buon uso della lingua scaturisce la civiltà, dal cattivo uso di essa viene fuori la barbarie.


Da pag. 182: Siamo dei nomadi in cammino verso una patria eterna.


* * *

Grazie Ileana. Ora la parola all’autore Donato Mellone (vi confesso che mi risulta difficile, quasi innaturale chiamare Donato, chi ha scelto di essere per sempre don Donato).


* * *


Intervento di P. Francesco D’Acquarica, Missionario della Consolata. Ha raccontato alcuni aneddoti del periodo in cui, al rientro dalle missioni in giro per il mondo, ha soggiornato a Noha ed ha collaborato con don Donato. Molto divertenti (accompagnati da applausi e risate) gli aneddoti risalenti agli anni ’70. In particolare quello del traino della sua vettura da parte della mitica 600 di don Donato, dalla città di Parabita a Noha: 12 km di difficoltà, colpi di scena, drammi, risate.

Molto simpatica anche la storia del clergymen di don Donato acquistato con l’ausilio di P. Francesco a Roma da De Ritis, negozio di abbigliamento religioso (ubicato nella strada romana che dal Pantheon conduce a Porta Argentina) poco prima di partire in pellegrinaggio alla volta di Lourdes…


* * *


Intervento di don Donato Mellone, molto applaudito.

- Racconto della favola della “montagna che partorisce il topolino”;

- “Ma io non voglio essere Donato Mellone; io voglio essere don Donato Mellone;

- “Non mi piace e non so parlare nei convegni. A me piace parlare in chiesa. Ma quando parlo in chiesa non sono io che parlo è un Altro che parla per me”;

- “Io non sono nessuno. Io sono il topolino di cui vi parlavo. Non sapevo nulla di questo libro. Se avessi saputo qualcosa, sarei, come dire, scomparso dalla circolazione”

- Ringraziamenti.


* * *


Intervento della giornalista e scrittrice prof.ssa Giuliana Coppola.

(Non abbiamo la registrazione. Diciamo soltanto che l’intervento di Giuliana, bellissimo, ascoltato in religioso silenzio per tutti i suoi quindici minuti, ha incantato l’uditorio).



* * *



Grazie Giuliana, ci hai commosso.


A me ora non rimane che concludere. E come ogni buona conclusione che si rispetti dovrei terminare con dei ringraziamenti. Ma stavolta non farò un elenco interminabile di persone da ringraziare. Mi limito a ringraziare soltanto una persona per tutti. Non ne dirò il nome per non nominarlo invano. Capirete di chi si tratta.

Ma dopo le bellissime parole della Giuliana, non posso più usare parole mie. Per esserne all’altezza devo prendere in prestito le parole di un grande scrittore, Erri De Luca, stese alla pag. 18 del suo libro “Nocciolo d’oliva” (ed. Messaggero, 2002), quello stesso dal quale ho tratto l’incipit del libro che stasera abbiamo festeggiato e che vi leggo di seguito.

Allora, ringrazio Chi…

“…Nacque e fu vivo grazie al solo prodigio di cui non fu lui stesso autore.

Per tutta la vita, poca, cercò di pareggiare il conto di quell’ingiustizia, fino a farsi appiccare sopra l’osceno patibolo romano che esponeva la morte in alto, in vista, a manifesto. […]

Per tutta la vita, poca, fu abitato da una folla di bambini mancati, dal dolore delle loro madri. Così poté sopportare quello della sua, ai piedi della croce.

Molti dei suoi prodigi erano […] miracoli, ma non colossali, non inceppò la macchina del cielo come Giosuè, che fermò il sole in Gabaòn e la luna sulla valle di Aialòn. Non aprì le acque come Mosè, però ci camminò sopra senza bagnarsi.

Non creò il frutto della vite, ma seppe provvedere, in una festa, a vendemmiare vino dall’acqua.

Non creò il sole, il fuoco, né luna, né stelle già create, ma diede vista ai ciechi e questo è un modo di inventare luce.

Non ebbe figli, non procurò una sua discendenza, ma litigò con sua sorella morte e le strappò di mano un corpo già in sepolcro, riportandolo indietro a rivivere, certo, ma anche a rimorire.

Fu battezzato in acqua dolce, amò la pesca, frequentò pescatori, ne riempì le reti, placò le ondate di una tempesta sul lago di Tiberiade. […]

Delle scritture sacre preferì Isaia; di Davide gustò più i salmi che le imprese. Discendeva da lui, così vuole la legge del Messia. […]

Chiese all’offeso di esporre l’altra guancia, mettendo l’offensore al rischio del ridicolo, ma pure stabilendo un termine alla prova: in numero di due, non più, sono le guance.

Non scrisse, non dettò, le sue parole facevano il viaggio delle api sopra i petali aperti delle orecchie. Salvò una donna dalla condanna di lapidazione chiedendo ai suoi accusatori che il primo di loro, se puro da peccati, si facesse avanti con la prima pietra. Sapeva che gli uomini tirano volentieri le seconde.

Diverse donne lo seguivano di luogo in luogo alla pari degli apostoli. Non pretese astinenza; il celibato venne dopo, a chiese fatte.

Sudò sangue, morì con tutto il corpo resistendo alla morte con nervi, fiato, febbre, piaghe e mosche intorno all’agonia. Risuscitò per intero, carne, ossa e promessa di essere solo il primo dei destinati alla risurrezione.

[…] Dopo di lui il tempo si è ridotto a un frattempo, a una parentesi di veglia tra la sua morte e la sua rivenuta. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti ospiti in attesa di un visto”.


Ecco a questo protagonista - non a me - vorrete indirizzare l’applauso del ringraziamento.

Antonio Mellone

 
Di Albino Campa (del 16/05/2006 @ 14:46:06, in Libro di Noha, linkato 3678 volte)
Sabato 20 maggio 2006 alle ore 20.30 presso la sala convegni dell'Oratorio Madonna delle Grazie, in via Tiziano, presentazione del libro: "Noha. Storia, arte, leggenda".
Parteciperà, oltre agli autori del libro la giornalista e scrittrice Giuliana Coppola, madrina della serata.
 
Di Antonio Mellone (del 22/05/2021 @ 14:37:55, in NohaBlog, linkato 1143 volte)

Ho sfidato, e più volte, la zona rossa per recarmi da Fiordilibro, la libreria della Emilia Frassanito. Voglio dire che ho azzardato l’allontanamento da Noha per quasi tre chilometri diretto alla volta di Galatina al numero 31 di corso Vittorio Emanuele, meglio conosciuta come via dell’Orologio, a dispetto delle norme che se non imponevano la clausura cenobitica ti concedevano al massimo un giretto attorno alla tua abitazione purché munito di scarpette da ginnastica. A meno, s’intende, di rigorose motivazioni da riportare su foglio ministeriale prestampato altrimenti detto autocertificazione (mica semplicemente certificazione o dichiarazione), motivi, dicevo, legati a salute, lavoro, o a casi di improcrastinabili urgenze. E io ho sempre avuto con me tutte e tre le giustificazioni: le questioni sanitarie legate alla mens sana, quelle lavorative (non puoi occuparti di economia senza l’aiuto di altri autori non economisti), e infine quelle dei bisogni primari: per alcuni i libri sono infatti aria, acqua, generi alimentari di prima necessità e non c’è Rider che possa sostituirsi al destinatario per il loro trasporto.

Se poi mi avessero fermato i vigili urbani, dirimpettai della Fiordilibro, credo che mi avrebbero graziato: non perché dotato di pass acquisito sul campo dopo un articoletto a loro dedicato poco tempo fa (e credo valido per almeno un semestre), ma per il fatto che sono certo che persino per gli uomini in divisa è sempre cosa buona e giusta fare un salto nelle botteghe di parole.

Fiordilibro dunque è una delle tre benemerite librerie di Galatina “Città che legge” [si spera, ndr.], essendo le altre due Fabula e Viva (per me quest’ultima rimane sempre Viva, al di là di altri più magniloquenti posticci loghi).

Incastonata in un palazzo antico, all’ombra del campanile civico, la Fiordilibro è animata dall’Emilia, la quale, laureata in archeologia con il prof. Francesco D’Andria, dopo i suoi bravi scavi archeologici anche e soprattutto nel Salento, nel 2004 decide di lasciare in cantina trowel, piccone e pennello per dedicarsi ad altre stratigrafie, quelle che ti si sedimentano dentro pagina dopo pagina.

E così il ventre di codesto aedificium seicentesco si riempie di scaffali, e quindi di libri, ma poi anche di tavoli, sedie sgabelli e pedane, diventando all’occasione scriptorium e talvolta pure theatrum. Le pareti della Fiordilibro sono piene zeppe di manifesti (ne ha appesi solo alcuni, l’Emilia) a testimonianza di questo fervore, che dico, di questo fuoco che arde inesauribile, benché ultimamente sotto la cenere. Pensate, in una di codeste locandine nelle quali si parlava di tabacco e di un libro che ne racconta la storia locale c’è perfino il nome del sottoscritto (per dire quanto le mie siano braccia strappate alla cultura oppure all’agricoltura, a seconda dei punti di vista).

Quindi dialoghi con gli autori, cene letterarie, feste dei lettori, corsi di scrittura creativa (per esempio con la Luisa Ruggio nostra), musiche e parole: tutto questo certamente, ma Fiordilibro prima che una ruddhra (vivaio) di iniziative è innanzitutto una libreria, luogo sacro dove i libri ti guardano dai ripiani fino a quando non decidono di sceglierti. Qui riesci a beccare oltre a tutto il resto cose sfornate dall’editoria locale, perfino fuori catalogo (sembra esista ancora addirittura un monumentale “Noha, storia arte e leggenda” del 2006 scritto a due mani e due piedi: le mani sono quelle di Francesco D’Acquarica, i piedi, invece, i miei), le famose guide verdi di Congedo Editore, i cataloghi sulla poesia dialettale, quelli sulle torri costiere, le masserie, le ville, le campagne e gli ulivi di queste parti; e ho pescato di recente pure un “Dante e i misteri di Otranto” a proposito del settecentesimo della morte del Poeta, e poi ancora Bodini, Maria Corti, Carmelo Bene, Antonio Antonaci e Donato Moro, “e più di mille ombre [Emilia] mostrommi e nominommi a dito”.

La libraia all’occasione diventa pure una tua confidente, e a richiesta ti procura sotto banco pure i “libri proibiti” (“Non lo dico a nessuno, tranquillo”, ti rassicura), tipo quelli molto commerciali, o quelli di qualche scrittore di destra come un Marcello Veneziani (ché tu, comunista, mica puoi confessare al mondo di aver letto nemmeno per isbaglio).

Che pesi che deve portarsi dentro la povera Emilia. Ebbene sì, purtroppo la vita non è sempre tutta rose e Fiordilibro.

Antonio Mellone

 

Introduzione

Nel leggere questa ricerca tenete conto che Noha, sicuramente con nome diverso, è molto antica, anche se non ci sono documenti storici precisi: la sua storia comunque è anteriore all’era cristiana, basti pensare alle tombe messapiche,  ancora esistenti e dimenticate a ridosso di quello che uno volta era la SALPA.

Ricordo che quando pubblicammo il volume “Noha, Storia, Arte e leggenda” il direttore del giornale “Il Galatino”, il prof. Zeffirino Rizzelli(1926-2007) mi chiamò per un’intervista alla Radio e tra le altre cose mi domandò perché il Protettore di Noha è San Michele Arcangelo. Sul momento non seppi dare una risposta articolata, ma da allora nacque in me l’interesse di approfondire l’argomento. Ed eccomi qua per condividere con voi queste mie riflessioni.

 

Perché un Santo Protettore

L’origine del fenomeno dei patroni cittadini risale al IV secolo, quando la Chiesa riservava una particolare venerazione per i propri martiri, designandoli come Patroni Titolari di una comunità. Il martire, oltre ad essere modello perfetto di vita cristiana, era considerato anche come un potente intercessore. Era desiderio di molti farsi seppellire nei pressi della sua tomba. A partire dal secolo successivo i martiri furono affiancati da santi vescovi, il cui ruolo e le cui funzioni venivano a intrecciarsi sempre più strettamente con la vita urbana.

Il santo patrono appare come un autentico elemento costitutivo della civiltà, poiché ogni momento della sua esistenza è in funzione di un avvenimento particolare della storia cittadina. Il rilancio medievale del culto per i santi patroni ha rappresentato un elemento decisivo nello sviluppo politico-territoriale delle nostre città. La novità apportata dal Cristianesimo alla natura del patronato risiede nell'aver rivoluzionato la vecchia architettura sociale, passando dalla subordinazione a un potere dispotico e oppressivo al protettorato di un’entità misericordiosa e rispettosa della dignità umana.

Il Santo Patrono dona volto e corpo all'appartenenza comunitaria e viene reinventato per adattarlo ai tempi e alle situazioni che mutano. I santi più noti non rimangono circoscritti entro una vicenda religiosa, ma diventano campioni della collettività.

 

Il culto di San Michele

Per capire il culto di San Michele bisogna pensare al culto degli Angeli che viene dall’Oriente. Il popolo ebraico, secondo le indicazioni che ci fornisce il libro dell’Esodo, aveva scelto San Michele come patrono e custode. Durante il viaggio dall’Egitto alla Palestina, l’arcangelo Michele, stava loro dinanzi per guidarli e per proteggerli (Es 14, 19). La Chiesa ha poi ereditato dal mondo ebraico il culto all’Arcangelo, adattandolo al proprio credo.

E’ risaputo che il culto degli angeli in Oriente non sempre si mantenne nei giusti limiti. Già l’apostolo san Paolo, negli anni sessanta d.C., nella lettera scritta alla comunità di Colossi, parla di un culto degli angeli e ne metteva in evidenza gli eccessi: “Nessuno vi impedisca di conseguire il premio, compiacendosi in pratiche di poco conto e nella venerazione degli angeli, seguendo le proprie pretese visioni, gonfio di vano orgoglio nella sua mente carnale” (Col 2,18).

Con queste parole l’Apostolo esortava i cristiani a non cadere nella falsa dottrina di coloro che venerano gli angeli, ritenendoli come intermediari necessari per raggiungere la salvezza. Paolo, con fermezza e coraggio, afferma che solo in Cristo si trova tutta la pienezza della divinità e lui solo è l’unica via di salvezza.

Presto il culto angelico arrivò in Oriente, in Frigia, oggi noi diremmo nell’attuale Turchia. A San Michele furono consacrate chiese, come per esempio a Colossi. Dalla Frigia si diffuse nelle regioni vicine. Anche in Egitto il culto all’Arcangelo era molto sentito. Ben presto arrivò anche a Bisanzio, città elevata nel 330 da Costantino a capitale dell’Impero. Costantino, dopo aver sconfitto Licinio nel 324, restò unico imperatore e decise di stabilirsi in Oriente, facendo di Bisanzio - città a cui dette il proprio nome - la nuova Roma.

Lo storico Sozomeno (vissuto tra il 400 e 450 e autore di una ’Storia Ecclesiastica’) racconta che “Costantino ornò la sua città con splendidi monumenti e possenti chiese: una di queste, situata sul promontorio Hestiae, già dedicato alla dea Vesta, fu consacrata a san Michele”. La chiesa, chiamata Michaelion, fu costruita nelle vicinanze di Costantinopoli. Inoltre, per volontà imperiale, furono costruite nella medesima città altre quindici chiese in onore di san Michele.

Dall’Oriente la devozione a san Michele giunse in diverse parti dell’Europa.

Molto presto, oltre alla grotta sul Gargano (di cui parlerò a breve), troviamo chiese dedicate a san Michele a Roma già nel V secolo. In Francia San Michele era il santo più popolare nell’epoca di Carlo Magno. Vicino Torino, in Val di Susa, c’è la meravigliosa abbazia della “Sacra di San Michele”. Questa imponente costruzione sorge sulla vetta del monte Pirchiriano, e per la sua storia viene considerata in assoluto il terzo luogo sacro all’Arcangelo Michele in Occidente. Anche la gola dei monti che circonda la valle, che furono importanti per la difesa militare, soprattutto tra franchi e longobardi, vennero chiamate le Chiuse di S. Michele. La prima chiesa costruita fu voluta dall’imperatore Costantino. Tra la fine del IV secolo e l’inizio del V ne fu costruita una seconda che, ampliata dai bizantini, fu dedicata al nostro Arcangelo.

Vicino Rieti, vi è una grotta consacrata all’arcangelo Michele. A Roma poi c’è Castel Sant’Angelo. Una leggenda tardiva ne motiva la fondazione con l’apparizione dell’arcangelo Michele a papa Gregorio Magno, durante la peste del 590. La leggenda afferma che durante una processione organizzata dal papa per implorare l’aiuto divino contro il morbo della peste, il pontefice vide sulla mole di Adriano l’arcangelo Michele che rinfoderava la spada, segno che le preghiere erano state esaudite e la peste non avrebbe più colpito gli abitanti di Roma. E tuttora, a ricordo di questo fatto, sulla sommità del sepolcro di Adriano, domina una statua di Michele che rinfodera la spada.

Anche in Campania  tra Capua, Teano e Alife vi è un monte sul quale si manifesta una potenza angelica come sul Gargano. “Si sente dire che tra Capua, Teano e Alife, c’è una montagna sulla quale corre voce che sia presente una potenza angelica allo stesso modo del beato arcangelo Michele sul monte Gargano; e così vi scorre acqua, vi è scavata in profondità una cripta e vi è una basilica: qui spesso si verificano prodigi divini” (dalla ChronicasanctiBenedictiCasinensis, 17).

Sempre in Campania, ad Olevano sul Tusciano, tra Salerno ed Eboli, vi è una grotta nella quale è venerato il nostro Santo. Attorno a questa grotta sorse una comunità religiosa di monaci greci che osservavano probabilmente la regola di san Basilio. Era una comunità numerosa, ricca, potente e conosciuta nella zona, tanto potente che il suo abate aveva le stesse funzioni, oltre che l’autorità di un vescovo. L’abate di Olevano ricevette l’investitura dall’arcivescovo greco di Conza che era stato consacrato direttamente dal patriarca di Costantinopoli.

P. Francesco D’Acquarica imc

 

 

Monaci basiliani della Calabria e della Lucania

L’Arcangelo fu particolarmente venerato dai monaci basiliani presenti nell’Italia meridionale e anche a Noha. San Nilo (910-1004), un anacoreta di spicco, fino all’anno 980 era rimasto nella zona cosiddetta del “Mercurjon” in Calabria, vicino Rossano, dove, nella grotta di San Michele, rimaneva spesso per parecchi giorni senza prendere cibo, nutrendosi di pane, radici e frutta. Non essendo più sicure le zone della Calabria per le frequenti incursioni saracene, Nilo venne nel Lazio dove fondò il convento di San Michele in Valleluce su un terreno donato dai benedettini di Monte Cassino.

Anche in Basilicata l’Arcangelo Michele è veneratissimo: in suo onore sono state costruite e consacrate chiese e cappelle, la maggior parte delle quali presentano le caratteristiche dei santuari micaelici.

Sul monte Vulture, in un luogo di grande solitudine e di grande suggestione per la posizione elevata sui laghi, sorge un’antica abbazia dedicata a san Michele. Essa, per le sue somiglianze con il santuario pugliese, potrebbe essere considerata come il Gargano della Lucania. L’abbazia, infatti, è nata intorno ad una delle grotte abitate da eremiti basiliani che veneravano san Michele Arcangelo; la chiesa situata all’interno, ha conservato la forma di una grotta con l’ingresso aperto sui laghi formatisi nei crateri del Vulture. Risulta assai evidente quanto ricalchi il modello garganico.

 

I Longobardi scoprono l’Arcangelo San Michele

Nel loro espandersi dal montuoso Sannio verso le coste adriatiche, i Longobardi vennero a conoscenza del santuario di S. Michele sul Gargano. L’Arcangelo suscitò in loro un grande fascino: ricordava una figura del loro passato. Nacquero simpatia e venerazione insieme: in Michele, essi ritrovavano le qualità di Wodan, che dai popoli germanici era considerato il dio supremo, dio della guerra e protettore di guerrieri, come testimonia lo stesso Paolo Diacono*: “Wodan, che aggiunta una lettera chiamarono Godan, è lo stesso che presso i romani viene chiamato Mercurio ed è adorato come dio da tutte le popolazioni della Germania “.

*Paolo Diacono (in latino Paulus Diaconus), pseudonimo di Paul Warnefried (amico protettore) o Paolo di Varnefrido o anche Paolo di Warnefrit (Cividale del Friuli, 720 circa – Montecassino, 13 aprile 799) è stato un monaco cristiano, storico, poeta e scrittore longobardo di lingua latina. Nel 787 tornò a Montecassino, dove fra l'altro scrisse l'Historia Langobardorum, la sua opera più famosa in cui narra, fra mito e storia, le vicende del suo popolo, dalla partenza dalla Scandinavia all'arrivo in Italia fino al regno di Liutprando.

La simpatia si trasformò in venerazione e San Michele divenne il simbolo di un popolo passato dal paganesimo al cristianesimo.

 

Anche i Normanni e gli Angioini

Nell’Italia meridionale, per vicende assai diverse, si sono avvicendate lungo il corso dei secoli alcune dominazioni e ciascuna ha lasciato in forme e modi diversi, presso il santuario garganico, i segni della sua presenza e della sentita devozione verso san Michele. Poco dopo il Mille, uomini guerrieri in cerca di avventure e di fortuna, sciamati dalla Normandia a piccoli gruppi, si stanziarono nell’Italia meridionale: sono i Normanni (il nome significa appunto “uomini del nord”), come erano chiamati nel Medioevo gli abitanti dell’Europa settentrionale.

Tra parentesi è bene tenere presente che fu proprio il normanno Tancredi, Conte di Lecce, ad affidare il vasto feudo di Noje alla nobile famiglia De Noha.

L’ambiente era propizio per il continuo riaffiorare di dissidi e guerre fra greci, principi longobardi, repubbliche marinare e arabi di Sicilia. Militando ora per gli uni ora per gli altri, i Normanni seppero trarre profitto dalle situazioni e finirono col diventare arbitri della sorte del paese. Infatti nel 1059, a Melfi, papa Nicolò II fece del potente Roberto il Guiscardo (vale a dire, l’astuto: così fu definito il più famoso principe normanno) un vassallo della santa Sede, nominandolo duca di Calabria e Sicilia.

I Normanni furono molto legati a san Michele. Prima di stanziarsi nel mezzogiorno italiano, avevano già conosciuto il culto di san Michele in Normandia, nel celebre santuario di Mont Saint-Michel: santuario, quest’ultimo, che era stato dedicato all’arcangelo nel 709, dopo che Oberto, vescovo di Avranches, aveva espressamente inviato dei suoi rappresentanti nel santuario del Gargano.

Quando si stabilirono nell’Italia meridionale, il loro rapporto con san Michele si intensificò maggiormente e fecero del Gargano il loro santuario preferito. Come si esprime ancora Armando Petrucci (Armando Petrucci (Roma, 1º maggio 1932 – Pisa, 23 aprile 2018 paleografo, medievista, diplomatista e codicologo italiano), il Gargano costituiva agli occhi dei normanni “quasi la capitale spirituale”, “il centro religioso più insigne: quello, oltre tutto, che meglio poteva rappresentare un legame ideale con la patria lontana”, anche se “alle popolazioni meridionali terrorizzate da questi nuovi Saraceni, da questi implacabili conquistatori, il nesso ideale che i normanni sentivano e tentavano di stabilire fra la loro azione di guerra e il culto micaelico sfuggiva”.

Nella seconda metà del XIII secolo la Sede apostolica, per difendere i suoi diritti nel sud Italia contro gli abusi della dinastia sveva, chiamò in suo aiuto Carlo I duca d’Angiò ed affidò a lui e ai suoi discendenti il Meridione d’Italia.

Per comprendere meglio quanto sto esponendo bisognerebbe non perdere di vista il bellissimo stemma dell’antico Comune di Noha: quelle tre torri e le due barchette tra le onde del mare. Anche se non riusciamo ad avere una documentazione storica che ne spieghi l’origine e il significato, da quanto detto fin qui qualcosa si può anche ragionevolmente supporre.

 

La grotta del GARGANO, già sede di culti pagani

Il promontorio di San Michele sul Gargano, immerso in uno spettacolare paesaggio naturale, che già in se stesso apre il cuore alla misteriosa voce della trascendenza, ha origini molto antiche ed è ricco di storia e di fede.

Le fonti di cui disponiamo ci permettono di andare molto lontano negli anni, di scavalcare i secoli fino a giungere al pontificato di papa Gelasio I (492-496), verso la fine del V secolo, quando l’arcangelo Michele, con le sue celebri apparizioni, fece di questo monte un luogo di culto cristiano.

La leggenda, che narra le origini del santuario, afferma che la grotta scelta da san Michele, non si impone per le sue decorazioni o per bellezza artistica, ma unicamente per i prodigi che custodisce: “Poiché si degnò di edificarla e consacrarla lo stesso arcangelo Michele, il quale, memore della fragilità umana, scese dal cielo, per far sì che in quel tempio gli uomini potessero divenire partecipi delle cose divine “.

 

Lorenzo: un vescovo venuto da Costantinopoli

Il vescovo Lorenzo Majorano, pastore della Chiesa di Siponto, è particolarmente legato, anzi coinvolto, negli eventi prodigiosi avvenuti sul Gargano. L’arcangelo Michele lo scelse come suo confidente per far conoscere al popolo sipontino e a tutti i cristiani i suoi messaggi. Il vescovo venne così scelto come strumento per far conoscere la volontà divina ai fedeli. Infatti, secondo la testimonianza della tradizione, Lorenzo fu incaricato di aprire al culto cristiano la sacra spelonca e di indicare al popolo di Dio un luogo dove incontrare la misericordia e il perdono divini.

La caverna è a me sacra, é una mia scelta; io stesso ne sono il vigile custode (..)- Là dove si spalanca la roccia possono essere perdonati i peccati degli uomini (...). Quel che sarà qui chiesto nella preghiera sarà esaudito. Và perciò sulla montagna e dedica la grotta al culto cristiano “.

Nella vita di questo santo vescovo si legge che furono proprio i sipontini, sul finire del V secolo, a rivolgersi all’imperatore d’Oriente perché nominasse un vescovo per la loro diocesi, rimasta vacante in seguito alla morte del vescovo Felice. Zenone, imperatore bizantino, seppe scegliere la persona giusta e inviò a Siponto come vescovo un suo parente, Lorenzo.

“Essendosi consultati i sipontini mandarono cittadini scelti fra il clero e il popolo all’imperatore pregandolo umilmente che venisse in soccorso alla loro Chiesa e mandasse come suo rappresentante un uomo che lui stimasse necessario nella casa del Signore in quella circostanza. L ‘imperatore, accogliendo questa richiesta, pregò Lorenzo, uomo pieno di virtù, suo parente ed amico, affinché diventasse vescovo per il popolo di Dio che era senza pastore “.

Accettata la nomina, Lorenzo lasciò Costantinopoli e si trasferì a Siponto dove, con grande saggezza, zelo apostolico e santità di vita, resse questa Chiesa per diversi anni. Non si conosce l’anno della sua morte e al riguardo le fonti ci informano che visse “usque ad tempora Justini (m. 527) et Justiniani (m. 565)” (fino al tempo dell’imperatore Giustino e Giustiniano).

Se volessimo basarci su alcune particolarità desunte dalla vita del santo presule potremmo definirlo come il portatore e diffusore del culto di san Michele nella sua diocesi. Egli proveniva da Costantinopoli, dove la devozione all’Arcangelo - come è stato già affermato - era molto viva e sentita; inoltre il Micaelion di Costantinopoli presentava delle caratteristiche molto simili a quelle del promontorio garganico. Perché allora non ipotizzare che venendo a Siponto come pastore, Lorenzo non abbia pensato di edificare sul Gargano un nuovo Micaelion proprio come era stato fatto in quel di Costantinopoli? E ragionevole pensarlo, ma dimostrarlo con documentazione incontrovertibile, risulta difficile. Una cosa però è sicuramente certa: il culto viene dall’Oriente; l’Occidente lo ha accolto e fatto proprio. Comunque, al di là di queste ipotesi, gli studiosi concordano nell’affermare che il culto all’Arcangelo Michele, una volta giunto sul monte Gargano, penetrò profondamente nel cuore della gente e fece della grotta un santuario che, col passare dei secoli, doveva divenire un importante centro di irradiazione del culto micaelico in Occidente.

P. Francesco D’Acquarica imc

 
Di Redazione (del 29/10/2018 @ 13:50:58, in Comunicato Stampa, linkato 1020 volte)

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Levèra

 
Di Redazione (del 20/08/2013 @ 13:42:08, in Cultura, linkato 9530 volte)

"Pubblichiamo un interessantissimo stralcio di una ricerca sugli orologi pubblici diventata libro, scritto da Rosanna Verter. Tra gli altri, c'è anche l'orologio pubblico di Noha, che, fermo ormai da troppi anni, si limita a segnalare l'ora esatta soltanto due volte al giorno"


Gli orologi da torre di Galatina e Noha di Rosanna Veter
Ieri
La sera del 21 febbraio 1848 il decurionato galatinese, sotto la presidenza di Domenico Galluccio, deliberò le feste costituzionali nominando una commissione guidata da Orazio Congedo che, unitamente al comitato composto da Innocenzo Calofilippi, Giacomo e Francesco Galluccio, Arciprete Siciliani, Antonio Viva, Bernardino Papadia, Luigi Mezio, Pasquale Angelini, Onofrio Vonghia, Ferdinando Capani, Antonio Dolce, organizzò la festa per la Costituzione promulgata da Re Ferdinando II il 10 febbraio 1848.
I festeggiamenti iniziarono di buon mattino, il 9 marzo 1848, con i fuochi d’artificio che durarono per l’intera giornata; le due bande musicali di Galatone e Neviano allietavano i cittadini; Piazza S. Pietro venne addobbata con ramoscelli di mirto, coccarde e bandiere. Nei pressi dell’ingresso della chiesa Madre, fra due bandiere, fu messa una grande iscrizione inneggiante al re e al papa eseguita a penna dall’architetto Fedele Sambati e dettata da Pietro Cavoti. Oltre a tutto ciò allietarono la vista dello scenario festoso varie luminarie e la processione con il busto argenteo di San Pietro che ebbe inizio dalla casa delle signorine Andriani, dove era custodito il busto del Santo, e percorse con a capo il capitolo «la via che mena alle Monache crandi», altrimenti dette Clarisse (oggi è quel tratto di strada tra Via Zimara e Piazzetta Gal-luccio, tra la chiesa dei Battenti e quella di S. Chiara o di S. Luigi), «S. Caterina, Corpo di Guardia e Piazza S. Pietro».
Da ciò possiamo dedurre, quindi, che nel 1848 la Torre dell’Orologio esisteva già nella sua semplice mole e che i locali erano sede del Corpo di Guardia. Proprio in quelle salette si svolsero le elezioni del plebiscito del 21 ottobre 1860 per l’Unità d’Italia ed eleggere Vittorio Emanuele II, Re costituzionale.
Il primo anno di libertà nacque con la fame che imperava tra la povera gente in tutta la provincia e i tumulti erano all’ordine del giorno. Il sindaco Antonio Dolce convocava immediatamente il Consiglio Comunale per disporre il prelevamento dal bilancio di 1815 ducati e 53 grana per poter acquistare legumi, orzo e grano per i poveri. Nel frattempo, il Ministero dell’Interno aveva ordinato alle Prefetture di segnalare eventuali monumenti da dedicare a Sua Maestà Vittorio Emanuele II. L’amministrazione comunale scelse la torre civica che fu adornata di due stemmi sabaudi posti ai lati dell’iscrizione; sul lato ovest, invece, si nota un’aquila capovolta ad ali aperte con la testa tra il tamburo e il cannone, mentre tra mine e palle di cannone anche una scure. Forse questa decorazione è stata inserita dopo la caduta del fascismo o forse c’era già visto che l’aquila è anche nell’arme sabauda. Sull’arco a tutto sesto del portone d’ingresso, Francesco Sammartino incise su marmo la seguente lapidaria iscrizione:
ALL’ELETTO DEL POPOLO VITTORIO EMANUELE II RE D’ITALIA IN MEMORIA DELLA RICUPERATA UNITÀ CHE LA PATRIA OGGI SOLENNEMENTE CONSACRA GALATINA PONEVA ADI 2 GIUGNO 1861
Ruggero Rizzelli nelle sue Memorie, edite nel 1912, sostiene che l’iscrizione è «sgrammaticata e fa poco onore alla torre del Caccialupi; falsando la storia offende le tradizioni della colta cittadinanza»; fu dettata da un insegnante del locale liceo Colonna, padre Sebastiano Serrao, dell’ordine degli Scolopi, congregazione religiosa fondata da Giuseppe Colasanzio nel 1617.
Per tale lavoro il Sammartino venne compensato con ducati 13 e grana 53.
I locali dell’Orologio avevano ospitato per qualche anno la Guardia Nazionale; dal 1850 oltre 250 militi della Guardia Urbana. In quell’occasione, per renderli più ospitali, i nudi locali furono arredati con candelieri, bracieri, sedie e qualche panca. Il tutto per la cifra di 65 ducati e 80 grana.
I primi restauri al Corpo di Guardia furono deliberati il 27 novembre alle ore 21 dell’anno del Signore 1861 da un Consiglio Comunale presieduto dal sindaco Antonio Dolce e composto dai consiglieri comunali Giuseppe Maggio, Carlo Lezzi, Michele Astarita, Carmine Zappatore, Pietro Colella, Arcangelo Trivisanno, Francesco Greco, Vincenzo De Matteis, Giuseppe Siciliano, Giovanni Congedo, Diego Papadia, Pasquale Angelieri, Domenico Bardi, Gaetano Colaci, Giuseppe Vozza, Paolo Baldari, e dal segretario comunale Luigi Santoro. Per i lavori fu costituita una commissione con Giuseppe Galluccio, Pietro Congedo e Michele Astarita i quali raccolsero ducati
160.66 per sottoscrizione e la somma venne aggiunta ai ducati 437 già stanziati dal consiglio. Oltre al proseguimento delle opere murarie, furono sostituite le porte ai camerini, le invetriate e il portone. Alla deputazione furono restituiti 79.05 ducati che risultarono in più.
Il 21 giugno 1877 nella segreteria comunale fu convocato dal sindaco Giacomo Viva, in seduta straordinaria, il Consiglio Comunale per deliberare circa «l’acquisto di una nuova macchina di orologio pel servizio del pubblico essendo l’attuale ridotta in uno stato da non essere soddisfacente ai bisogni del pubblico». Per l’acquisto della nuova macchina il sindaco esibì la corrispondenza tenuta col capo fabbrica, signor Alfonso Curci da Napoli, e coi F.lli Peperis da Udine dalla quale risultava che per avere «una macchina costruita secondo gli ultimi sistemi» si doveva spendere circa £ 2000, somma da prelevare da un articolo del bilancio del 1877.
Si poteva certamente spendere di meno, ma come giustamente osservò il consigliere Giuseppe Capani «una volta che il Consiglio deve venire nella determinazione di acquistare una nuova macchina di orologio è necessario che fosse di quelle costruite colla massima precisione». Alla sua proposta si uniformò tutto il Consiglio.
Il 3 luglio la Prefettura rilevava in una sua nota che trattandosi di «una spesa non lieve, non prevista nel bilancio e che poteva dissestare l’andamento finanziario del comune», suggeriva «di sperimentare l’asta pubblica e visto l’ammontare della spesa» si doveva «richiedere a un competente artefice un atto che equivalesse alla perizia» e che poteva a un tempo «essere anche l’offerta del fornitore stesso. Tale atto dovrà assoggettarsi all’approvazione del Consiglio Comunale che sarà chiamato a precisare i mezzi per la spesa e domandare la dispensa dei pubblici incanti coll’autorizzazione di far luogo a norma del caso alla privata licitazione tra persone del mestiere oppure alla trattativa privata».
Fallite le trattative con il Curci e i Peperis, l’amministrazione diede incarico ad Epimaco Olivieri Caccialupi, successore di Augusto Bernard, di fornire la macchina dell’orologio.
La ditta Caccialupi, presente con i suoi orologi da torre in molti comuni della provincia, aveva la sua sede in Napoli alla strada Egiziaca n. 44 a Pizzofalcone, oggi sede del distretto militare.
L’8 aprile 1879 il sindaco facente funzioni, Pietro Santoro, comunicava al Consiglio Comunale che il signor Giuseppe Greco aveva presentato «una di-manda» con la quale proponeva di effettuare a proprie spese le opere in muratura «occorrenti per l’impianto del nuovo orologio, a seconda del disegno proposto dall’architetto Fedele Sambati l’8 maggio 1861 su una perizia di Giuseppe Mandorino». Come compenso il Greco chiedeva di ricevere a titolo di cessione l’aia su cui sorgeva la Torre dell’Orologio. Naturalmente il Consiglio respinse la proposta considerato che non vi era molto squilibrio per le finanze locali e pertanto i lavori potevano essere sostenuti a spese del Comune anche perché cedendo l’area al Greco si restringeva un camerino che poteva essere utile per edificare una sala. Qualche mese dopo la giunta deliberava di licenziare i regolatori dei pubblici orologi di Galatina, Salvatore Zuccalà, nonché quello della frazione di Noha, Fedele Bonuso. Ma il 30 maggio 1882 il Consiglio Comunale, presieduto dal sindaco Giacomo Viva e composto dai consiglieri Luigi Papadia, Alessandro Verdosci, Gaetano Cola-ci, Giustiniano Gorgoni, Luigi Vallone, Liberato Congedo, Vitantonio Colaci, Salvatore Tondi, Raffaele Baldari, Giuseppe Vonghia, determinò di abbattere la Torre del vecchio Orologio perché «inutile ed indecorosa» e diede mandato ai consiglieri Liberato Congedo e Vitantonio Colaci di «trattare con qualche muratore di fiducia».
I consiglieri scelsero Pasquale Alessandrelli per l’appianamento della Torre «contro il pagamento di £ 50 ed il materiale ricavabile pro-beneficio».
Fu costruita così una nuova torre con timpano e furono messe a vista le campane.
Qualche anno dopo, precisamente il 24 aprile 1885, Francesco Bardoscia, assessore delegato dal sindaco, convocò il Consiglio Comunale per deliberare con urgenza l’illuminazione dell’orologio per tutta la notte e per l’intero anno, a differenza di una precedente convenzione con Vincenzo Giurgola regolatore del pubblico orologio, e di tenerlo acceso per sei mesi fino alle 9.00 p.m. e per sei mesi per tutta la notte.
Per tale lavoro al Giurgola vennero corrisposte £ 360 annue, sia per la manutenzione che per l’illuminazione del pubblico orologio, invece di £ 300. L’anno dopo, tale incarico fu affidato a Pietro Ascalone, orologiaio, con la riduzione del salario a £ 300.
Nel 1913, a cura della “Società Galatinese per le imprese elettriche”, con una spesa di £ 140,03 venne effettuato «l’impianto elettrico negli uffici della Polizia Urbana e al pubblico orologio sovrastante detti uffici».
L’8 ottobre 1932 il segretario cittadino del Partito Nazionale Fascista scriveva al Podestà per sapere come mai l’orologio non suonava da 15 giorni e poiché il servizio era affidato a persone responsabili, egli non riusciva a spiegarsi come mai non fosse stato ancora riparato. Il Podestà, in una missiva di qualche giorno dopo, gli comunicava che si era provveduto all’acquisto di una corda metallica necessaria per il funzionamento della suoneria. Nella comunicazione di risposta, il Podestà si chiedeva anche se era il caso di spendere elevate somme per la riparazione oppure di esaminare l’ipotesi dell’acquisto di un nuovo macchinario la cui spesa sarebbe ammontata a £ 3.500.
Oggi
Al termine della centralissima Via Vittorio Emanuele II, strada ricca di palazzi settecenteschi e zona viaria più antica della città, la Torre del Caccialupi, più comunemente nota come l’Orologio o Corpo di Guardia, si innalza nella sua sobria e superba semplicità, espressione dell’entusiasmo post-unitario. La torre è fra le più belle del Salento, è una costruzione di chiaro stampo neoclassico che, all’indomani dell’Unità d’Italia, fu dedicata a Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele II.
I locali della torre, che anticamente erano adibiti a cappella privata della famiglia Greco-Bardoscia, vennero donati successivamente all’amministrazione comunale che li destinò a sede delle guardie urbane. Per quanto riguarda l’anno di costruzione della torre, possiamo supporre che se l’attiguo palazzo Bardoscia è datato fine 1789 è molto probabile che anche la torre sia della stessa epoca.
La torre ha base quadrata, è posta ad angolo tra Via Vittorio Emanuele II e Via Umberto I. Il vasto salone e le due salette che si aprono a sinistra hanno le volte a botte e, per gli amanti dei dati statistici e architettonici, si presenta con questi dati: l’altezza è di metri 18,37 mentre la larghezza è di metri 8,16; il quadrante, vero e proprio indicatore del tempo, incastonato in una cornice in pietra leccese, ha un diametro di centimetri 120; la lancetta delle ore ha una lunghezza di centimetri 40, quella dei minuti è lunga invece centimetri 50.

I numeri indicanti le ore sono in caratteri romani e il numero che indica le ore “quattro” è graficamente rappresentato con il segno IIII e non IV come detta la grafia romana. Questo fatto è dovuto, forse, per simmetria grafica all’interno del quadrante. Molti, comunque, sostengono che invece è una caratteristica degli orologi da torre.
Osservando la torre si evidenziano due cornicioni marcapiano che la segmentano in quattro ordini: il primo è sostanzialmente molto semplice; il secondo ordine invece è stato abbellito con gli stemmi sabaudi e con l’iscrizione dedicatoria; il terzo è riservato esclusivamente al quadrante dell’orologio; il quarto ordine chiude con il timpano dove, all’interno di una monofora aperta (arco), sono ospitate due campane in bronzo, oggi in pessimo stato.
Per accedere alla stanza dell’orologio bisogna arrampicarsi su 21 scalini di una poco agevole scala a chiocciola, molto stretta, consunta dagli anni, che conduce sul terrazzo e da qui, attraverso un’altra ripida scala di 15 scalini, si entra nella magica stanzetta dove la meccanica della sveglia cittadina ci appare in tutta la sua bellezza.
La cittadina macchina del tempo è di grandi dimensioni ed è ancora oggi meccanica, azionata da ruote dentate in cui sono state praticate delle tacche regolari con larghezza proporzionale al numero dei rintocchi che devono suonare. La velocità è regolata da una ruota a paletta frenata dall’attrito dell’aria; invece la forza motrice è fornita da tre enormi massi in pietra leccese, legati con cavi di acciaio molto flessibili. Il peso delle pietre varia in base alla grandezza della campana su cui battono le ore. Questi cavi si avvolgono ad un cilindro quando vengono manovrati, ogni ventiquattro ore, dal-l’addetto alla carica con una manovella. La velocità di rotazione è controllata da un pendolo, che consente ai pesi di scendere lentamente sino a piano terra. Il pendolo serve a rallentare o ad accelerare la marcia alle ruote che compongono il meccanismo dell’orologio; l’ora invece è regolata da un disco girevole. Tutti questi ingranaggi sono legati da un sistema di scappamento ad ancora.
La macchina poggia su travi in legno sostenute nel muro per contrasto ai pesi. La molla, dopo essere stata avvolta, inizia a svolgersi facendo girare gli ingranaggi che muovono le lancette delle ore e dei minuti a velocità diversa attorno al quadrante. La carica al nostro segnatempo è a cura di Gianni Venturiero che continua imperterrito a salire e scendere le ripide scale. Egli è l’erede di quella passione e volontà di tutti quei cittadini che per anni sono saliti in cima alla torre, con la pioggia battente, con il caldo e con il freddo.
Grazie alla loro costanza le lancette non si sono fermate e hanno continuato a tenere attiva la sveglia cittadina. Nel lontano 1991 l’ingranaggio della storica torre civica si fermò alle 12,10 o alle 00,10?
Le campane
Le campane, messaggere civiche, sono un esempio di architettura laica legata all’Universitas e un bene artistico che come tale va protetto. Hanno molte funzioni: segnalano allarmi o adunanze o funzioni religiose o di orologio che scandisce il tempo.
La voce campana, che molti credono di origine gotica, fu introdotta intorno alla fine del VII secolo e venne usata per la prima volta da S. Beda (672735), monaco e storico vissuto in un monastero benedettino in Inghilterra, considerato il più grande erudito dell’Alto Medioevo.
L’Accademia della Crusca, nella lessicografia, cita campana con aes campanum, nome con cui era noto il bronzo, lega metallica composta dall’80% di rame e dal 20% di stagno, metalli teneri, la cui unione nella lega permette di ottenere un materiale di grande durezza, a grani fini, dotato di caratteristiche di grande sonorità. Oppure il nome potrebbe derivare dalla forma di un vaso arrovesciato e sboccato, e fu adoperato per la prima volta da S. Paoli-no, vescovo di Nola, dalla omonima città in provincia di Napoli, dove vi era una miniera di rame. Alcuni umanisti chiamano la campana, in latino nola, dal nome della città dove furono ritrovate molte campane; altri invece sostengono che le prime campane siano state fuse in Campania, e da qui campana che sembra la più accreditata. Ancora oggi si brancola nel buio, nell’incertezza.
Le campane della torre cittadina hanno misure ben calibrate e adatte per la nota “la” e per il “re”; sono sprovviste di ceppo, cioè sono fisse, non oscillano e suonavano tramite il martello esterno e non con il battaglio. Sono entrambe ornate di ricami, di iscrizioni e di altorilievi a prova dell’eccellenza a cui era giunta l’arte di fondere il bronzo già nel 1700.
La campana piccola, quella posta in alto, batteva i quarti d’ora, molti anni orsono. Ha un’altezza di centimetri 55 e un diametro di centimetri 63; dalla dimensione possiamo ipotizzare un peso di 150 chili. Tra due bellissime cornici di motivi floreali reca un’iscrizione:
ANGELI MONGIÒ SINDICATUM A. D. 1762
Presenta una varietà di decorazioni: sul lato nord, in posizione centrale, vi è lo stemma civico, mentre sul lato sud si evidenzia un’immagine in rilievo, sulla superficie esterna del bronzo e costituente corpo unico con la campana stessa, che potrebbe essere un santo, forse S. Pietro.
La campana maggiore, quella che batteva le ore e oggi un cupo don allo scoccare dell’ora, ha un’altezza pari a centimetri 70 e un diametro di centimetri 85, con un peso presumibile di circa 200 chili; anche qui al centro, lato nord, lo stemma della città. Tra le due cornici si legge:
NOLA, HÆC, HORIS DENVNTIANDIS REFICITVR A.D. 1762 HORARIO RESTITUTO ANNO VULGARÆ
Questa campana per annunciare le ore fu rifatta nell’anno del Signore 1762 dell’era volgare dopo che fu ricostruito l’orologio.
Alcuni studiosi hanno letto, erroneamente, in quel “Nola” la contrazione di Vignola, oggi Pignola, piccolo centro della provincia di Potenza, famosa patria dei fonditori Olita e Bruno. È giusto chiedersi: «Da chi sono state fuse le campane dell’Orologio?». Stupisce, infatti, che le campane non sono “firmate” dal mastro campanaro.

Occorre ricordare che il 20 febbraio del 1743 un terremoto del nono grado della scala Mercalli, magnitudo 6.9, colpì tutta la penisola salentina, le isole Ionie e la Grecia, con epicentro nel canale d’Otranto. Le scosse durarono circa un’ora e l’intensità maggiore fu registrata nella vicina Nardò. Forse il rifacimento della campana e la ricostruzione della torre si devono ai danni che quel terremoto provocò anche nella città di Galatina.
La lapide
Al carabiniere Domenico Secondo Della Giorgia è dedicata la lapide posta sul lato ovest della torre. Insignito della medaglia d’argento, era nato a San Cesario di Lecce il 1° luglio del 1888 da Antonio e Matilde Rollo. L’anno seguente la famiglia Della Giorgia si trasferì nella non lontana Galatina, dove il padre assunse l’incarico prima di Guardia Municipale e poi di Comandante e dove nacquero gli altri cinque fratelli.
Da giovane lavorava come maniscalco e il 15 ottobre 1908 fu chiamato alle armi, arruolandosi nel novembre nel 5° Genio Minatori.
Lo troviamo a Messina e Reggio Calabria a prestare soccorso durante il terremoto del dicembre 1908 e per tale opera meritoria ricevere la Medaglia Commemorativa. Per la sua corporatura e per la sua altezza, raggiungeva il metro e ottanta, chiese di essere arruolato nei Carabinieri e il 26 maggio 1909 fu assegnato come Allievo Carabiniere a Piedi.
Promosso effettivo, è trasferito nella Legione di Napoli. In Libia prese parte alla guerra italo-turca e ricevette la seconda Medaglia Commemorativa. Ritornato in Italia, fu assegnato alla Legione Territoriale di Bari. Quando nel maggio del 1915 l’Italia entra in guerra contro gli Austro-Ungarici il nostro eroe viene aggregato al Reggimento Carabinieri Reali, 8a Compagnia Mobilitata, e raggiunge il territorio di guerra con la bandiera e la banda d’ordinanza: siamo alla seconda battaglia dell’Isonzo. Il 6 luglio 1915, sull’altura del Podgora, dove vi erano le trincee nemiche, vengono stanziati 30 ufficiali e 1.399 Carabinieri. In una rassegna dell’Arma dei Carabinieri leggiamo la drammatica giornata di guerra vissuta dai Carabinieri e da Domenico:
... la mattina del 19 luglio, dopo la consueta preparazione con tiri di artiglieria, il terzo battaglione, verso le ore 11, scattò dalla trincea verso le linee nemiche. Balza fuori per prima, l’ottava compagnia [alla quale apparteneva Della Giorgia, N.d.A.] seguita dal comando del battaglione, tenuto dal tenente colonnello Teodoro Pranzetti, poi la settima e la nona. Tempesta di fuoco del-l’avversario sulla zona di attacco. L’ottava compagnia, pur falcidiata, avanza lentamente con le due ali, e si frammischia con gli elementi sopravvenienti della settima, le tre compagnie giungono fin sotto i reticolati; molti morti per via. Tutti i superstiti resistono, attaccati a quei reticolati, pur sentendo l’inutilità del loro sacrificio. Quindi sopraggiunge l’ordine di ripiegamento.
L’attacco durò molte ore con lo stile dei combattimenti rapidi e ad orario che, per circa un anno, fino alla conquista di Gorizia, fu praticato nelle battaglie dell’Isonzo. Al reparto costò 53 morti, 143 feriti e 10 dispersi.
Il tenente Moscatelli, comandante del plotone, raccontava che nell’assalto il nostro concittadino venne ferito una prima volta da una raffica di mitragliatrice che lo colpì al braccio sinistro. Il tenente gli ordinava di ritirarsi, ma Domenico gli rispondeva: «Non mi mandi indietro, signor tenente, ho il braccio destro che funziona ancora, posso impugnare la baionetta per quei briganti». Continuava a dare nell’azione l’esempio ai compagni: giunto nelle vicinanze del reticolato, venne colpito alla testa e morì con il viso al sole e al nemico. Erano le 12,30 circa del 19 luglio 1915 e aveva appena ventisette anni. Nel suo portafogli fu rinvenuta una lettera, forse del giorno prima, dove era scritto: «Cara madre, domani andremo all’attacco della fortezza di Gorizia. Se dovessi cadere non piangete. Mandate gli altri fratelli quassù che ne è bisogno per la grandezza della patria».


Per questo suo atto di grande eroismo e abnegazione gli fu decretata la Medaglia d’Argento al valor militare alla memoria con la motivazione che oggi è leggibile sulla lapide tra Via Vittorio Emanuele II e Via Umberto I.
Il 25 luglio 1943, con la caduta del fascismo, dalla lapide venne eliminato il fascio littorio, ma non l’anno fascista (XIII E.F.).
L’Arma dei Carabinieri in pensione di Galatina ha dedicato a Domenico l’elegante sede di Piazza Alighieri. A lui è intitolata la caserma della Compagnia dei Carabinieri di Maglie ed è ricordato, dal 2001, nella toponomastica di San Cesario di Lecce, sua città natale. La sua eroica morte è stata illustrata su cartolina da Vittorio Pisani.

L’orologio di Noha
«... una piazzetta commoda ed un orologio che misura il tempo...», così leggiamo in una pagina dedicata a Noha dal giudice Tommaso Vanna.
La torre, sulla quale è allocato l’orologio pubblico, è in stile classico e termina con un chiostro di archetti dai quali sono visibili le campane. È stata costruita, probabilmente, intorno al 1861, come indica la lapide posta a circa quattro metri dal piano di calpestio. Giacomo Arditi nella sua Corografia fisica e storica della provincia di Terra d’Otranto scrive: «...un orologio pubblico eretto in piazza con denaro dello stesso benemerito». La torre, in stile classico, fu donata alla cittadina dalla generosità dei fratelli Orazio e Gaetano Congedo. Sul muro della torre è scolpito in uno scudo il loro stemma gentilizio: un albero di pino al naturale accostato a sinistra da tre stelle disposte: 1, 2; il centro del tronco di pino è attraversato dalla figura di un toro furioso.
Al di sotto dello stemma l’epigrafe:
NOHA FRAZIONE DEL COMUNE DI GALATINA CIRCONDARIO DI GALATINA COLLEGIO ELETTORALE DI MAGLIE DISTRETTO DI LECCE PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO 1861
Il quadrante dell’orologio è inserito nel corpo di un’aquila, simbolo di forza e coraggio: fu insegna delle legioni romane e negli stemmi esprime fedeltà all’Impero. Secondo alcune testimonianze, sia la testa che il fascio su cui si aggrappavano gli artigli furono rimossi subito dopo la caduta del fascismo nel 1943. Le lancette sono ferme, ormai da data immemorabile, alle ore 09,40 o alle 21,40. Marcello D’Acquarica nel suo catalogo I beni culturali di Noha scrive:
La prima versione della meccanica dell’orologio risalente al 1861 non è più esistente. Apparteneva ad una tecnologia più semplice e meno raffinata, costruita totalmente in modo artigianale, dai denti degli ingranaggi ai chiodi che ne bloccano la struttura. La seconda versione risale al 1911, anno della sua costruzione e installazione sulla torre dell’orologio in Piazza S. Michele. Costruita dalla Premiata Fabbrica Orologiai di Fontana Cesare di Milano, è la seconda generazione di orologi meccanici dell’inizio del ’900.

La macchina, completamente restaurata e inaugurata il 23 dicembre 2008, oggi fa bella mostra di sé nell’atrio della Scuola Media “G. Pascoli”, sezione distaccata di Noha, con funzione di studio e didattica.
Tra le carte d’archivio vi solo alcune delibere in cui la Giunta Comunale approvava, viste le spese sostenute, il pagamento a Giovanni Nocco e a Pasquale Monastero per la riparazione dell’orologio negli anni 1908-1909.
Nel 1913 abbiamo un nuovo impianto di orologio. La carica viene data da Pantaleo Rocca e la spesa per il petrolio viene desunta dall’art. 25 del bilancio prelevando £ 74,00 dal fondo riserva. Nel 1912 viene retribuito Giuseppe Potenza con £ 20,00 per la sistemazione dell’orologio.


BIBLIOGRAFIA
ARCHIVIO STORICO COMUNE DI GALATINA: Delibera del 27.11.1861 Delibera del 5.06.1862 Delibera n. 22 del 21.6.1877 Delibera n. 10 dell’8.5.1882 Delibera n. 38 del 30.5.1882 Delibera n. 77 del 24.4.1885 Delibera CC dell’8.04.1889 AA.VV., Guida di Galatina, Congedo Editore, Galatina 1994. ANTONACI ANTONIO, Storia di Galatina, Panico editore, Galatina 1999. ARDITI GIACOMO, Corografia fisica e storica della provincia di Terra d’Otranto, Stab. tip. “Scipione
Ammirato”, Lecce 1879, Ristampa anastatica, 1994.
D’ACQUARICA FRANCESCO,MELLONE ANTONIO, Noha, storia, arte, leggenda, Infolito Group Edito
re, Milano 2006.
D’ACQUARICA MARCELLO, I beni culturali di Noha, Edizioni Panico, Galatina 2009.
GUADAGNI CARLO, Nola sagra: 1688, Il Sorriso di Erasmo, Massa Lubrense 1991.
MINIERI ANTONIO, Compendio della terra di Nola, Palo, Nola 1973.
RIZZELLI RUGGERO, Pagine di storia galatinese: memorie, Tip. economica, Galatina 1912.
SIMONI ANTONIO, Orologi italiani dal Cinquecento all’Ottocento, A. Vallardi Editore, 1967.
VANNA TOMMASO, Urbs Galatina, Editrice Salentina, Galatina 1992.

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Di Marcello D'Acquarica (del 30/12/2020 @ 13:40:50, in NohaBlog, linkato 1317 volte)

Mi compiaccio della sua leggerezza, nasce così un primo nesso di simpatia con “Luoghi da Favola”, volume edito da Espera nel corso di quest’anno di Grazia 2020.

E’ il primo fattore di valutazione che adopero per un libro nuovo, la leggerezza. Poi ci sono le parole.

Subito cerco di carpirne i segreti, il più in fretta possibile, quindi lo sfoglio velocemente. Lo so che in questo modo è impossibile leggerlo, ma è una impulsività che fatico a dominare. Quindi passo ad esaminare l’indice. Resto colpito dalla parola “Noha”. Chissà cosa avranno da dire in un libro di favole sulla mia Noha? Cerco le immagini. Sono disegni mai visti finora, sembrano appunto, per favole.

Non faccio in tempo a leggere la prima storia, una presa a caso, che resto come inghiottito da un vortice.

E’ una lettura così coinvolgente che appena dopo poche pagine mi rendo conto della geniale organizzazione con cui il libro è strutturato, diviso in capitoli che separano racconti di battaglie, di principesse e amori infelici, di tesori e infine vicende di diavoli e santi. Le favole si snodano piacevolmente una dietro l’altra, e per ognuna di esse la storia, con luoghi e personaggi reali.

Immergendomi così nelle pagine mi sento come coccolato da una vera guida per viaggiatori, ed essendo luoghi a me più o meno noti, mi lascio trasportare dall’immaginazione che trova una facile sceneggiatura per ogni avventura narrata. Ad ogni paese una preziosità. E così si svelano segreti inimmaginabili, come per esempio Torre Suda, che deve il suo nome per essere stata utilizzata come cisterna, quindi trasudando acqua dalle pareti, come la torre del castello di Noha, che conserva in pancia antiche tracce del livello lasciato dall’acqua; Racale che forse deve il suo nome al mitico Ercole; la torre del Serpe, che lo deve ad una fantomatica serpe che succhiava l’olio dalla lanterna del faro; il laghetto Cocito di Castro e Felline con il suo castello normanno; dell’antica specchia di Martano, la torre di Babele salentina; la fantastica Serra di Sant’Elia fra Trepuzzi e Campi Salentina; delle antiche pietre messapiche di Muro leccese, dove trovo in molti massi messapici la somiglianza con il Menhir di Noha scoperto anni addietro nel fondo “Santu Totaru” e poi ancora a cercare sulla costa adriatica i resti dell’antica abbazia di Casole.

E ancora la sirena Leucrazia  con la leggenda delle punte Ristola e Meliso; il fiume Idume di Lecce e Torre Chianca; e la grotta dei pittori neolitici di Porto Badisco; e quell’altra storia sul morso della tarantola che fa ammalare le persone di “melanconia” e si curava con l’acqua della fonte di Manduria: pare che ne abbia scritto perfino Plinio il vecchio; e le vore di Barbarano che sono comunicanti fra loro; e di colline alte ben 196 metri, come la Serra di Martignano e di scogli che diventano diavoli, e diavoli che interrompono le finiture della Chiesa di San Matteo di via dei Perroni a Lecce, per cui delle due colonne della facciata solo una è finita con intagli a spirale e l’altra invece è ancora liscia; così come alcune date memorabili, tipo quella del terremoto che colpì il Salento nel 1743; e ancora di masciare e di Santa Inquisizione, di costruttori di organi come il nostro Kircher che sovrastava il coro della nostra Chiesa Matrice fino agli anni ’70 del secolo scorso,  e di poeti e saraceni.

E per finire - o per cominciare ad apprezzarne veramente l’importanza - le nostre Casiceddhre, che oramai sono in giro per il mondo grazie anche alle parole degli scrittori, come quelli di “quiSalento”.

Ma il mondo forse non sa ancora che presto le Casiceddhre di Noha diventeranno un ammasso di pietre antiche e belle, disfatte, come saranno, dalle intemperie ma viepiù dalla noncuranza degli uomini di questo “secol superbo e sciocco”.

Marcello D’Acquarica

 

Giovedi 15 Novembre, alle ore 18.30, Giovanni Leuzzi presenterà il suo capolavoro. Si tratta di Repútu pe lle chiazze salentine, lamento funebre per le piazze rurali del Salento, edito da Mario Congedo editore. Lo farà insieme a Gianluca Palma, un giovane sognatore errante sensibile alla bellezza.
Seguiranno degli omaggi musicali a cura di Roberto Vantaggiato e Enzo Marenaci (cantastorie del Salento), Marina Leuzzi (Cardisanti).

Il poema in ottava rima e in rigoroso dialetto salentino, che utilizza a pretesto narrativo una divertente storia paesana, fotografa, con i toni e registri più diversi e seguendo il libero andare della memoria, il rapido e per molti versi catastrofico diluirsi, in un nulla ancora indistinto, della millenaria civiltà contadina; una civiltà che nei centri rurali del Salento aveva realizzato, pur in un quadro diffuso di povertà, sfruttamento ed ingiustizia, straordinari risultati di risposta ai bisogni collettivi, di socialità ed identità culturale.
Le piazze di quei paesi, che negli ultimi anni sono state oggetto di importanti rifacimenti strutturali ed estetici dagli effetti spesso scenografici, perduta ogni funzione economica e sociale, oggi si presentano come spazi vuoti di presenza umana, freddi, senza storia, senza anima e memoria e ormai da decenni attendono nuova linfa e nuova vita, che sarà, se mai, del tutto diversa da quella di un passato leggendario ed irripetibile.
L’ottava rima, con la musica e le cadenze sue proprie, poggia sulla strepitosa padronanza di una lingua che, già grande di suo, si è strutturata nei secoli con scambi, arricchimenti ed imprestiti i più diversi, consentendo al popolo del Salento straordinarie capacità espressive, comunicative e creative; lingua che nel poema è strumento formidabile per il disegno di quadri, situazioni e personaggi, lo sviluppo del pensiero e del racconto, il dipanarsi di nostalgiche ricostruzioni e di ironiche, ma spesso amare e desolate invettive, tutte giocate tra il semiserio rimpianto del passato e la icastica condanna del presente.

Giovanni Leuzzi, laureato in Lettere Classiche, già docente nelle Scuole Superiori, da sempre impegnato in politica e per lunghi anni consigliere e vicesindaco di Cutrofiano, ha operato tutta la vita tra politica e cultura, privilegiando, oltre che importanti percorsi storico-letterari, la conoscenza e l’indagine sulla storia del Meridione e del Salento, sulle varie espressioni della cultura locale (arte, musica, religione), sulle evidenze linguistiche, espressive e documentali della macroarea griko-salentina.
Anche l’approdo recente a prove poetiche in dialetto salentino è nello stesso tempo conferma e sviluppo di tale impegno, vissuto e perseguito con costante passione.

Levèra 

via Bellini 24 - Noha (Galatina)

 

 
Di Andrea Coccioli (del 14/11/2018 @ 13:33:33, in Comunicato Stampa, linkato 1227 volte)

7-8-9 NOVEMBRE 2018: gli alunni delle seconde classi dei corsi A-B-C dell’Istituto Comprensivo Polo 1 di Galatina si sono recate nella splendida città di Roma dove hanno potuto ammirare da vicino le strutture architettoniche che da sempre attirano, come calamite, turisti da ogni parte del mondo ed hanno avuto il privilegio di visitare i palazzi istituzionali.

Il primo giorno abbiamo potuto visitare le fondamenta culturali di questa città: il Colosseo si innalzava davanti a noi con tutta la sua maestosità. Inizialmente alto più di 52m, la sua altezza attuale, causa fenomeni endogeni ed esogeni, è oggi di 48m.

È di forma ellittica e fu costruito per intrattenere gli antichi romani con combattimenti tra gladiatori e belve feroci. Fu chiamato arena perché veniva utilizzata la sabbia, arena, per coprire il sangue versato nel corso dei combattimenti. Poteva ospitare dai 50 ai 70 mila spettatori paganti, tutti ad eccezione della plebe che entrava gratis. Sulla struttura erano presenti grandi fori, segno di elementi metallici tolti che furono utilizzati per costruire cannoni.

I fori imperiali comprendono una serie di resti di templi costruiti per onorare i sette re di Roma e le loro imprese.

Gli archi, decorati con scene delle battaglie, venivano attraversati dall’esercito di ritorno dalle guerre ed era il luogo dove venivano sacrificati i prigionieri di guerra. Siamo rimasti stupefatti dalla capacità architettonica dei Romani, appresa dai Greci e dagli Etruschi.

Al Campidoglio domina la piazza la statua equestre di Aurelio Augusto vincitore e intorno si innalzano i palazzi del Municipio e i Musei Vaticani.

Come Polo 1 abbiamo avuto l’onore di visitare, il secondo giorno, i palazzi del potere: Palazzo Montecitorio, Palazzo Madama e Viminale. Qui, chi ci governa, decide come farlo. La visita ai palazzi istituzionali è stata molto emozionante. Accolti dall’onorevole Donno alle porte del Palazzo Montecitorio e anche da lui accompagnati nella visita guidata, abbiamo potuto constatare innanzitutto l’attenzione per la sicurezza, poi l’autorevolezza che vige in questi luoghi che ci ha portati a rimanere in un rispettoso silenzio ad ascoltare la guida che ci ha condotti nei vari ambienti del palazzo. Ci ha colpito lo stile liberty con ui erano arredate le enormi stanze, le colonne in stile corinzio presenti nella grande stanza chiamata transatlantico, il sistema di posta pneumatica che permetteva uno scambio rapido di informazioni, infine l’accesso alla Camera è stata l’esperienza che ci ha segnati di più. La camera dei Deputati, nel sistema politico italiano, è una delle due assemblee legislative o camere, insieme al Senato della Repubblica, che costituiscono il Parlamento Italiano.Ci siamo seduti nella tribuna destinata agli spettatori e abbiamo assistito ad una seduta finita con l’occupazione dei posti riservati ai ministri da parte dell’opposizione. Palazzo Madama è la sede del Senato, la cosiddetta “Camera Alta”.Al nostro ingresso nella camera la senatrice Bongiorno esponeva la sua proposta riguardo all’assunzione del personale nell’ambito della pubblica amministrazione.A lei è seguito il commento di un altro senatore che sottolineava quanto fosse basso lo stipendio percepito dagli impiegati nella pubblica amministrazione. Al termine della discussione abbiamo sentito una voce dire così: “Salutiamo in tribuna l’Istituto Comprensivo Polo 1 “Giovanni Pascoli” Galatina-Lecce”. Si sono alzati tutti in piedi, hanno applaudito rivolgendosi a noi. Noi eravamo in piedi onorati, emozionati e sbalorditi di ricevere il saluto e lo abbiamo ricambiato chinando la testa in segno di rispetto.

Vedere tutto dal vivo, incontrare le persone che spesso sentiamo discutere ci ha fatto riflettere su quanto lavoro, difficile ed impegnativo, fanno per noi.

In seguito abbiamo visitato il Pantheon, un antico Tempio pagano costruito da Marco Agrippa. È famoso per l’apertura alla sommità della cupola da cui, come racconta la leggenda metropolitana, l’acqua piovana non penetra. Nella Chiesa sono conservati i resti di Raffaello, di Vittorio Emanuele II e di sua moglie.

Da lì il nostro tour è proseguito verso Fontana di Trevi circondata da una folla immensa, si sa che attrae ogni anno milioni di persone. Il marmo, le sculture, le decorazioni, le dimensioni rendono l’opera indimenticabile. Ogni dettaglio, ogni centimetro della fontana è proporzionato al resto dell’opera, tale da sembrare viva.

Piazza di Spagna con la sua scalinata di Trinità dei Monti è una delle più famose piazze di Roma. Deve il suo nome al palazzo di Spagna, sede dell'ambasciata dello stato iberico presso la Santa Sede.

L’ultima giornata è stata anch’essa ricca di emozioni e di nuove scoperte. Siamo arrivati al Palazzo Viminale, sede del Ministero degli Interni. All’interno tutto era degno di rispetto, regnava un grande ordine e c’era un gran silenzio interrotto solo dal nostro piccolo vociare.

Il metal detector ha controllato il nostro ingresso a Palazzo e ci ha accolto il dirigente della divisione polizia, Francesco Virdi, che ci ha condotti nella stanza dell’unità di crisi dove si riuniscono i responsabili della sicurezza in caso di violazione della sicurezza pubblica.

Ci è stata presentata un’app della polizia operativa da maggio, YOUPOL su cui possono essere segnalati episodi di bullismo o di spaccio di droga in ogni parte d’Italia.

La visita è proseguita al piano inferiore dove ha sede l’unità operativa che garantisce la sicurezza durante le manifestazioni sportive.

Molto interessante è stato anche l’incontro con il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. Incontrandoli, parlando con loro faccia a faccia, ascoltandone le esperienze, si può capire quanto sia necessario il lavoro di squadra. Loro lavorano in situazioni pericolose per salvare vite umane, la cosa più preziosa che possa esistere. Avere un gruppo a cui fare riferimento è sicuramente il motivo del successo delle loro missioni.

Ci siamo trovati di fronte a persone preparate, altamente specializzate che ci hanno raccontato, con grande entusiasmo, il loro lavoro quotidiano al servizio dei cittadini ed hanno risposte alle nostre domande:

  • “Come fate ad avere quelle immagini?”
  • “Perché hai voluto fare il Vigile del Fuoco?”
  • “Quante vite hai salvato?”
  • “Ti emozioni quando salvi qualcuno?”

Sono solo alcuni dei quesiti a cui ha risposto l’ingegnere Priori sempre disponibile e attento ad essere il più chiaro e semplice possibile, sottolineando però un concetto basilare: studiare! Perché l’istruzione, oggi, è la base da cui nasce il Vigile del Fuoco moderno, un Corpo che conta al suo interno un altissimo numero di ingegneri e architetti, formato da operatori di altissima qualità professionale pronti a operare in qualsiasi scenario [ ripreso dal sito del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco].

Finita la visita al Viminale, abbiamo raggiunto Tivoli per visitare Villa D’Este con i suoi maestosi e rigogliosi giardini. Il tutto era incorniciato dai getti d’acqua delle tante fontane. Percorrendo viali avevamo la sensazione di essere immersi nella verdeggiante natura.

Si è concluso, così il nostro viaggio. Tutti eravamo pronti per il ritorno arricchiti dalle nuove conoscenze e consapevoli che Roma, la città eterna, non finirà mai di stupire chiunque la visiti. Imparare la storia visitando luoghi, ascoltando le guide specializzate è un modo per apprendere e per riflettere che se non conosciamo il passato non potremo mai migliorare il nostro futuro. Ognuno di noi non è altro che il tassello di un puzzle nella società del futuro che crescerà solo attraverso la collaborazione finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo comune: il bene di tutti.

 

Gli alunni delle classi

2A - 2B - 2C

 
Di Redazione (del 30/11/2018 @ 13:29:01, in Comunicato Stampa, linkato 1313 volte)

L’atmosfera natalizia arriva in Città!

Il Comune di Galatina propone la seconda edizione di Natale in tutti i sensi, una rassegna di eventi organizzata dall’Assessorato alle attività produttive e dall’Assessorato alla cultura. Una città che si veste di luci e di colori, di allegria e di quella magia che avvolge il Natale, infondendo calore e senso di comunità.

Dall’8 dicembre e per tutto il periodo natalizio, la Città si arricchirà di eventi culturali, musicali, teatrali, animazione per bambini, proiezione di video-mapping e classici mercatini natalizi, con la preziosa collaborazione delle associazioni e di aziende private del territorio.

Le manifestazioni avranno inizio ufficialmente l’8 dicembre con l’accensione dell’Albero in Piazza San Pietro e l’inaugurazione di Tra leggenda e magia, Il mondo di Babbo Natale presso il Palazzo della Cultura.

E poi ancora, alcune manifestazioni, organizzate in collaborazione con Libermedia, presso la Biblioteca comunale “P. Siciliani”:

  • 20 dicembreAspettando Natale

Letture animate a tema natalizio con laboratorio creativo gratuito per la realizzazione dell’Albero di Natale in biblioteca | ore 16-18 | età 4-10 anni | prenotazione obbligatoria;

  • 27 dicembreClassici in festa

Lettura ad alta voce per immergerci nel fantastico mondo delle fiabe tradizionali: Raperonzolo, Il Brutto anatroccolo | ore 10-12 | età 4-10 anni | prenotazione obbligatoria;

  • 28 dicembre Dammi una L

Angelo Mellone presenta Incantesimo d'amore e La stella che vuoi, i primi due volumi della trilogia natalizia.

  • 3 gennaio - Classici in festa

Lettura ad alta voce per immergerci nel fantastico mondo delle fiabe tradizionali: Il soldatino di piombo, Il gatto con gli stivali | ore 10-12 | età 4-10 anni | prenotazione obbligatoria.

E presso il Museo civico “P. Cavoti”:

  • Mostra fotografica sull’integrazione su donne e bambini;
  • 21 dicembre – inaugurazione dell’Artoteca: arte in prestito

Si avvia l’esposizione delle opere di 10 artisti affermati che potranno essere prese in prestito da chiunque ne faccia richiesta;

  • 28 e 29 dicembreI colori della Natività

Visita guidata alla scoperta dei quadri rappresentanti la Santa Natività con laboratorio ludico artistico gratuito | ore 10-12.30 | età 5-10 anni | prenotazione obbligatoria;

  • 4 gennaioPiacere di conoscerti!

Gli uomini illustri tra i disegni del Cavoti, a seguire creazione e gioco memory  | ore 10-12.30 | età 5-10 anni | prenotazione obbligatoria.

A Collemeto e a Noha arriverà la sfilata dei personaggi Disney, a Galatina la musica delle street band e dei classici canti natalizi, aspettando l’ormai consueto appuntamento de Le Note Battenti. L’Amministrazione Comunale vuole festeggiare tutti insieme il primo giorno dell’anno con grandi musicisti: un concerto originale, unico, capace di riscaldare un tardo pomeriggio invernale e che ci accompagnerà durante tutta la serata.

Questi solo alcuni degli eventi che animeranno il periodo natalizio e che saranno comunicati nel dettaglio attraverso i social media.

 

            Nico Mauro                                                                                     Cristina Dettù

Assessore alle Attività produttive                                                         Assessore alla Cultura

 
Di Antonio Mellone (del 18/08/2016 @ 13:17:34, in NohaBlog, linkato 2980 volte)

P. Francesco D’Acquarica è un uomo incredibile. Ha 81 anni ma ne dimostra 18. Ha una voglia di ricercare, studiare, catalogare, prendere appunti sulla Storia e le Storie, e finalmente pubblicare, che manco un dottorando in ricerca di nemmeno trent’anni d’età.

Ho già scritto altrove di lui, e più volte. E anche stavolta non posso fare a meno di metter mano su questa tastiera per raccontarvene un’altra.

Come qualcuno di voi ormai saprà, quest’anno ricorre il decimo anniversario della pubblicazione del monumentale volume “Noha, storia, arte & leggenda” (Infolito Group, Milano, 2006) da me curato e scritto a quattro mani con P. Francesco e pubblicato grazie al mecenatismo di Michele Tarantino (che Dio l’abbia in gloria).

Non so come (il marasma nel mio archivio personale è tale che cercare e trovare un qualsiasi oggetto è come recuperare un ago in un bosco di pini marittimi), ho rinvenuto le fotografie della consegna del suddetto libro fresco anzi ancora caldo di torchio, proveniente da Milano su furgone e scaricato con muletti e transpallet nohani, e della sua presentazione in forma privata nel soggiorno di casa mia (stanza enorme usata la penultima volta, credo, alla mia cresima: adoperata invece in maniera diuturna da mia madre a mo’ di palestra per l’arte marziale delle pulizie, di cui ella è cintura nera non so più di che dan). La presentazione ‘urbi et orbi’, invece, avvenne da lì a qualche giorno nella sala convegni dell’Oratorio Madonna delle Grazie gremita come non mai.   

Dunque, in quella bella mattinata del maggio 2006 erano presenti a casa mia, come si vede dalle immagini, i compianti mons. Antonio Antonaci, il prof. Zeffirino Rizzelli e don Donato Mellone; nonché don Francesco Coluccia, parroco di Noha, e poi ovviamente il coautore P. Francesco, un suo collaboratore, e ancora Giuseppe Rizzo (che aveva scattato le foto di Noha dall’alto a bordo di un Tucano, un aereo ultraleggero decollato dalla pista di Ugento), la nostra Paola Rizzo, la maestra Bruna Mellone (che m’aveva dato una mano nella rilettura delle bozze), mio cugino Marcello, mio padre, mia madre e ‘the last & the least’ il sottoscritto.

Orbene, non ci crederete, un paio di mesi fa P. Francesco m’ha voluto fare un regalo straordinario per questo decennale.

“Senti, Antonio: sei a Noha? Ho una cosa da darti”. “Domani pomeriggio, dici?” “Io arrivo da Martina Franca verso le 18”. “Va bene, Antonio, ci vediamo alla ‘casa del popolo’?” “Molto bene, Antonio. A domani, allora”.  

Puntualissimo come sempre - e non come l’orologio della pubblica piazza di Noha (staremmo freschi) - P. Francesco si presenta da me in quella specie di ufficio di piazza San Michele denominato, appunto, ‘casa del popolo’ (che non è un covo di comunisti, ma insomma). “Tieni – mi fa – questo è il mio testamento”. E mi consegna un plico da cui estraggo un libro.

E’ uno stupendo volume a colori, con elegante copertina rigida verde vivo, e l’immagine spettacolare della torre medievale di Noha e, in quarta, il bell’affresco dell’Arcangelo nostro protettore, opera di Michele D’Acquarica (1886 – 1971). Il titolo del tomo di 302 pagine, finito di stampare a tiratura limitatissima il 27 marzo 2016 a Martina Franca per i tipi di Pubblimartina srl è, guarda un po’: “Noha, la sua storia e oltre..”. Sì, con tre puntini di sospensione nel titolo. Chi mi conosce sa che non amo tanto l’utilizzo di codesta punteggiatura. Ma stavolta ho capito il messaggio di P. Francesco, che suona più o meno così: “to be continued”.

E sì, P. Francesco non si ferma mai: altro che “questo è il mio testamento”.

Quando c’è da scrivere un articolo per il sito di Noha, o effettuare qualche ricerca d’archivio per una pubblicazione a più mani (della serie AA.VV.), o una relazione sui nostri beni culturali, o la biografia di qualche personaggio locale, chiedo sempre una mano a P. Francesco. Lui si schermisce sempre, dice che è difficile che ce la faccia, che ci deve pensare, che non sa da dove iniziare, che teme di ripetersi, e mille altre scusanti del genere.

Ora, siccome ormai lo conosco bene, io so che è sufficiente che gli scriva la traccia da elaborare, e magari gli ponga qualche domanda a mo’ di chiave di lettura sull’argomento da trattare, o che gli chieda qualche curiosità o ricordo in merito. Ebbene, all’indomani mattina, puntuale come il sorgere del sole, quando apro la mia posta elettronica non solo vi trovo l’articolo bello e pronto per la pubblicazione, corredato di foto straordinarie d’archivio, ma anche con tanto di commenti, chiose e glosse per specificarne i dettagli.

E’ fatto così questo ragazzo. Un insieme di ricerca, passione e soprattutto fede (in Dio, e nell’Umanità).

Non so come faccia. La mia pagina è sofferta, letta e riletta, limata, e poi ancora cancellata, rifatta daccapo cento volte. La sua scorre che è una bellezza. Avevano evidentemente ragione i latini: “Rem tene verba sequentur”.

Non so se sapete – e chiudo - che P. Francesco D’Acquarica è un esperto informatico e che ha raccolto in un database tutti i dati, i nomi, le relazioni, e mille altre informazioni contenute nei registri parrocchiali di Noha. E’ stato lui, per dirne un’altra, a rinvenire il racconto del miracolo del nostro San Michele Arcangelo avvenuto a Noha nel 1740, scritto a margine di un registro dei battezzati dell’epoca dal viceparroco di allora, tal don Felice De Magistris, e molte altre ‘indiscrezioni’ pubblicate nell’agile libello: “Curiosità sugli Arcipreti e persone di Chiesa a Noha”, edito da L’Osservatore Nohano nel 2011.

P. Francesco, ha svolto un lavoro immane durato decenni, consumandosi gli occhi su dei pezzi di carta mezzo sgualciti e corrosi dal tempo, scritti con grafie cangianti e a tratti indecifrabili, e in una lingua e in una sintassi non sempre facilmente comprensibili.

Poche parrocchie in Italia e nel mondo posseggono una catalogazione così puntigliosa e precisa come quella “creata” da P. Francesco per la parrocchia di Noha. Senza quest’opera certosina non sarebbero nate tutte le pubblicazioni sulla Storia di Noha, prime fra tutte “La Storia di Noha” del 1973 (ed. Borgia di Casarano). Mentre l’ultima non sarà certamente quella di cui sto discettando in queste note. Infatti, Francesco D’Acquarica è l’Andrea Camilleri di Noha: non riesci a terminare  la lettura di un suo libro (a proposito: di Camilleri è uscito il centesimo volume) che già ne è nato uno nuovo. Per dire.

Ci sono tanti motivi per celebrare con una monografia ad hoc il nostro P. Francesco D’Acquarica, Missionario della Consolata, giramondo per amore di Cristo (e dei poveri cristi d’America, d’Africa e soprattutto d’Italia), ma con il pallino della sua terra natia che in questo caso risponde al dolce nome di Noha. Sì, nel 2011 ha celebrato il cinquantesimo della sua ordinazione sacerdotale, lo scorso anno l’ottantesimo genetliaco, quest’anno i 55 anni di Messa, mentre si trova  svolgere il suo apostolato a Martina Franca (Ta), come detto sopra.

Ma il nostro “Scritti in Onore” (come altri ne abbiamo pubblicati su altri personaggi nelle edizioni de “L’Osservatore Nohano”) sarebbe roba di poco conto rispetto al monumento che questo gigante della nostra Storia locale (scritta ormai con la maiuscola, grazie anche al suo certosino lavoro) meriterebbe.

E di questo passo, più che tributargli uno “Scritti in Onore”, sarà lui a dedicare a noi altri uno “Scritti in Memoria”.

Antonio Mellone

 

I Nirvana: il gruppo musicale più discusso e più famoso degli anni Novanta. Per la storia del rock una pietra miliare discutibile e contraddittoria, affascinante e indelebile. In pochi anni e con una manciata di album all’attivo, sono riusciti a imporsi come la vera leggenda della scena di Seattle, riuscendo a interpretare l’umore di un’intera generazione e trasformando l’alternative rock in un fenomeno di massa. Penultimo appuntamento con la mini rassegna Note a Margine dedicata al mondo delle Periferie promossa dall'Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Galatina, che incontra alle ore 21 di questo sabato 26 settembre presso il Centro Polivalente di Viale Don Bosco, i due scrittori leccesi Osvaldo Piliego Ennio Ciotta i quali spiegheranno come i Nirvana di Kurt Cobain sono riusciti, in soli cinque anni di vita, a entrare nell'olimpo del rock, attraverso i loro personali e intimisti racconti e ricordi. Una chiacchierata introduttiva sulle periferie dell'anima, sulla perdita dell'innocenza, sul rumore e sul silenzio di un'intera generazione definita non a caso Post, quella appunto che dal 1989 in poi che ha visto in Cobain il suo martire o forse il suo capro espiatorio. Alle ore 22 circa si proseguirà con la proiezione del documentario Kurt Cobain: Montage of Heck di Brett Morgen. Una rara opportunità di sentire un artista raccontare la sua vita con le sue parole e le sue immagini. Un film potente, una storia incredibile e molto dolorosa. Una storia raccontata come si deve, su qualcuno che è stato trasformato in una icona fragile e sensibile. Un racconto di una generazione, di una storia di luoghi lontani, dimenticati, difficili e maledetti che hanno creato un mito difficilmente dimenticabile.

Dai diamanti non nasce niente, ma dal cemento nascono i fior. Le periferie sono anche questo. Vi aspettiamo.

OSVALDO PILIEGO: vive a Lecce ed è laureato a Lecce. Ha scritto per diverse riviste locali e nazionali.E' giornalista pubblicista. Attualmente è direttore di Coolclub.it e collabora con il “Quotidiano di Lecce” e “Rockerilla”. Ha organizzato centinaia di concerti e suona male la batteria da 15 anni.E' l'autore di Fino la fine del giorno e La citta Verticale entrambi editi da Lupo Editore. ENNIO CIOTTAGiornalista, scrittore, critico musicale e dj da oltre quindi anni vive e analizza dall'interno gli ambienti controculturali. Con i suoi articoli supporta principalmente il Do it yourself, la tutela dei beni comuni, l'ecologia radicale e i movimenti underground. Ha scritto “Street art-la rivoluzione nelle strade” edito da Bepress.

MONTAGE OF HECK: Un film di Brett Morgen. Con Kurt Cobain, Dave Grohl, Courtney Love, Krist Novoselic Documentario, durata 135 min. - USA 2015.

 Andrea CoccioliAssessore Politiche giovanili – Comune di Galatina

Paola VolanteCoordinatrice della ressegna “Note a Margine” – Rassegna di periferie.

 

 

 
Di Albino Campa (del 12/03/2007 @ 12:49:45, in Libro di Noha, linkato 4662 volte)

Partenza da Milano: ore 10.30 6 Agosto 2006
Alessandro, Nevianese adottato da Milano ormai 10 anni fa (4 settembre 1996, quando l’Università Bocconi ha rubò le nostre braccia all’agricoltura);
Stefano e Ivano anche loro nevianesi, approdati a Milano solo la notte tra venerdì e sabato per un concerto che avrebbero dovuto vedere a Venezia (insieme ad Ale), ma saltato.
Ed infine il sottoscritto novese.

Avevamo pensato: “Partiamo tardi…eviteremo il traffico!!!”. Classico esempio di “partenza intelligente”. Non avevamo calcolato che per istrada v’erano dieci milioni di intelligenti.

Carichi come non mai - la valigia di Ale era talmente grossa che il comune di Milano gli aveva inviato la cartella esattoriale per il pagamento dell’ICI (non oso immaginare come sarà il ritorno) - partiamo!
Sud Soud System di sottofondo o, a tratti, a manetta. Tangenziale, autostrada, 100 km e poi tutto fermo. Da Parma ad Ancona un solo serpentone di auto. Subito abbiamo pensato fosse la coda per arrivare a Neviano, dove la sera ci sarebbero stati i fuochi d’artificio per la festa della Madonna della Neve. Non sbagliavamo.
Comincia lo show (il quale “must go on”). Ormai conoscevamo tutti per strada; ci muovevamo ad una media di 5 km/h alla ricerca di auto piene di ragazze, ma là dove apparivano belle ragazze, alla guida, ahinoi, c’era il padre geloso. Ma in fondo il problema non era il padre geloso, ma le stesse imperturbabili donzelle: i “due di picche” sono stati numerosi.
Allegri nonostante tutto, tra una “pennica” e due parole, con il consueto reggae salentino di sottofondo, il viaggio comunque si è mostrato piacevole e scorrevole. La compagnia nei viaggi è fondamentale; se salentina è il massimo.

Nella mia macchina, ormai dal 20 Maggio 2006 è presente una confezione da 10 poderosi libri “Noha – Storia arte e leggenda”: servono per le consegne fuori porta; per le urgenze di molti salentini al nord; per cuccare (ma non ha ancora funzionato); insomma per soddisfare quella che possiamo definire “domanda latente”. Lungo tutto il viaggio il libro è stato fonte di stimoli per le chiacchierate e, questa è una mia opinione, di notevole stupore dei miei compagni di viaggio nevianesi che mai avrebbero pensato ad un volume enciclopedico sulla nostra Nove.

Il viaggio lento, subisce una accelerata (ovviamente nel “pieno” rispetto dei limiti imposti dal codice della strada, prima della patente a punti) e ci vede percorrere il tratto Ancona - Foggia in breve tempo.
Dopo 13.5 ore, alle 00.00 approdiamo “scuncignati” all’autogrill “Esso” di Foggia.
Dal momento in cui siamo scesi chiunque, vista la nostra postura, avrebbe potuto identificare marca, modello, cilindrata e anno di immatricolazione dell’auto su cui viaggiavamo.
Alessandro si affianca all’erogatore. Io e gli altri ci avviciniamo al bar per il nostro meritato cafè, servito da una barista la cui gentilezza non cozzava punto con l’etimologia del verbo cozzare: COZZA.

Ivano usciva, avviandosi verso la macchina, che nel frattempo aveva subito il pieno di carburante, mentre Alessandro salutava un’amica incontrata per caso fra 11.5 milioni di viaggiatori diretta a Lecce ma di Milano (ccerte fiate!).
Al bancone del bar si avvicina una faccia nota con due ‘armadi’ di scorta, vestito grigio scuro antracite.
Dalla cassa del bar, Stefano:“a’ bbistu Niki Vendola?!”. Bevuto il caffè vado verso la macchina dove Ivano era piazzato stile cane da guardia, segnalando l’illustre presenza.
Nel frattempo Alessandro fermo davanti alla porta dell’Autogrill, gambe leggermente divaricate (a mo’ di guardia giurata all’ingresso di una banca) vedendo uscire il Presidente, si lanciava verso di lui con fare sicuro e …“Niki, ti posso stringere la mano” (con la tipica pronunciation nevianese). Vendola: “Certo” e con un gran sorriso saluta l’amico Alessandro (sembrava si conoscessero da anni).
Stupito della facilità di contatto con il Presidente (la scorta era sempre attenta ma mai ‘invasiva’) guardando verso la macchina vedo spiccare la copertina del libro di Antonio (mio cugino cognomonimo).
Gli avevo detto ormai 2 mesi fa “prima o poi lo riuscirò a consegnare al Presidente”.
Colto dalla tipica faccia da “tolla”, che in questi casi mi contraddistingue, mi avvicino verso Vendola, con il libro in mano e sicuro proferisco: “Presidente!?”  (ammetto che l’intonazione della voce è stata notevolmente Berlusconiana), “seppur in questo contesto non tipicamente ‘culturale’ vorrei farLe dono di questo Libro.”
Lo prende lo guarda e dice: “Grazie, ma cosa è Noha?”.
Le risposte possibili erano almeno due: la prima spiegare con calma apparente; la seconda strappargli il libro di mano e andarmene incollerito, oltre che corrucciato.
Fiducioso opto per la prima: “Noha, una cittadina del Salento, frazione della forse, per Lei, più nota Galatina, ma ben più antica: ha presente i Messapi?”

Foto di rito, “saluta Antonio”, una calorosa stretta di mano e sia noi che lui riprendiamo il viaggio.

Così è andato via l’n-esimo viaggio verso sud, consapevole che sarebbe stato solo l’n-nesimo inizio di un viaggio verso nord.

Matteo Mellone

 
Di Antonio Mellone (del 26/06/2021 @ 12:15:11, in Fetta di Mellone, linkato 983 volte)

Alla fine ho accettato di farmi effigiare da Papel, intanto perché mi fido degli amici e poi perché son così bravi da riuscire a trasformare un cesso in un’opera d’arte. Signori: il cesso non sono (non sarei) io, ma il set fotografico un po’ dadaista con le sue cinquanta e passa sfumature di grigio. Roba da fare invidia a Duchamp, Cattelan, Oldenburg, e chissà quanti altri ancora.

L’unico guiderdone per tale scatto in omaggio sarebbe stata la sua pubblicazione sulla mia bacheca sociale al momento dell’inaugurazione dello Studio, vale a dire le 13.30 in punto di martedì 8 giugno 2021. Secondo voi me lo son ricordato? Niente, o meglio nada: ma sì, cosa vuoi che siano due settimane abbondanti di amnesia.

Sia ben chiaro che il sottoscritto non è assolutamente il Ragazzo Immagine di codesto atelier delle visioni (sarebbe già morto e sepolto nella culla, l’atelier delle visioni dico), ma uno, anzi l’ultimo fra i circa cento figuranti che in un modo o nell’altro ci hanno messo (soprattutto) la faccia.

Papel, dallo spagnolo Carta (è inutile girarci attorno: tutto nasce su carta, anche il più virtuale dei progetti), non è un laboratorio etereo o incorporeo, è invece una bottega fisica al primo piano delle Gallerie Tartaro di Galatina dove Daniele Pignatelli, Alessio Prastano e Gianni Notaro – giovanotti ma esperti del mondo cinema-fotografico (e dintorni) - han posto le basi per sfornare immagini fisse o in movimento con dentro i più svariati annunci.

È vero che gruppi musicali, attori, modelli, dj, ballerini, pittori scultori e architetti, registi e scrittori, oratori, politici e scienziati (tipo i ritratti dell’8 giugno scorso), e a volte intere comunità hanno la necessità di lasciare un messaggio nella bottiglia, affidarlo al mare magnum universale per far conoscere in qualche modo arte e leggenda; ciò nondimeno da Papel potrebbe rivolgersi anche tutta una platea di piccole ma analogamente grandi imprese (dai profumi al design, dagli abiti al tris-bike, dalla masseria alla pescheria…), o di sposi promessi, o di chiunque pensi valga la pena di fissare su carta fotografica (antico e affascinante processo, finalmente redivivo) o su altri supporti le loro storie. Stiamo parlando di spezzoni di film che si chiamano clip, di album che si chiamano book, di manifesti che si chiamano poster, e di foto che vivaddio si chiamano ancora foto.

Secondo una presunta affermazione di Nietzsche non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Il che calzerebbe a pennello con il lavoro di Papel. Ma diciamo che questi ragazzi non sono così come dire nichilisti, sicché (questo per la verità lo sapeva bene pure Nietzsche) per interpretare devi avere qualcosa da interpretare, un punto di partenza, se non proprio uno d’arrivo: dunque un fatto, un attimo, un volto, ecco un’occasione da immortalare, una cosa scritta o meglio sovrascritta dalla realtà. E là dove questo non dovesse essere sufficiente, per l’opera finita soccorre l’inventiva, l’alta fantasia, il talento: insomma di ciò di cui non si può riferire si deve raccontare (e qui Wittgenstein c’entra ben poco se non per l’assonanza con un suo celebre aforisma).                

Questa in sostanza la possibile narrativa di un’inquadratura che vede un obiettivo puntato su di me nel luogo più democratico del mondo: una toilette.

Ora mi auguro veramente di non averla fatta fuori dal vaso.

Antonio Mellone

#eldiadepapel

@papelstudio.it

 
Di Redazione (del 28/10/2023 @ 12:01:15, in Comunicato Stampa, linkato 405 volte)

Un’esperienza stimolante è stata quella che, venerdì 27 ottobre, hanno vissuto tutte le classi della scuola secondaria di primo grado del Polo 1 di Galatina e Collemeto partecipando a Les Matinées, destinate alle scuole, proposte e organizzate dall’Associazione Musicale I Concerti del Chiostro, presso il Teatro Cavallino Bianco, con “gli obiettivi di avvicinare ulteriormente il pubblico alla musica classica e d’autore, partendo proprio dalla sensibilizzazione dei più giovani, e di promuovere e valorizzare la cultura musicale” in tutti i suoi generi.

Protagonisti di questo insolito concerto – spettacolo, sono stati il pianista Francesco Nicolosi e il critico musicale Stefano Valanzuolo, voce narrante, ne’ La Musica Miracolosa – Storia del pianista del ghetto di Varsavia che hanno raccontato la storia e la leggenda del compositore e pianista polacco di origine ebraica, Wladyslaw Szpilman, rinchiuso, durante la Seconda guerra mondiale, nel campo di concentramento di Varsavia il quale sopravvisse grazie al rapporto intellettuale che instaurò con un ufficiale nazista, spinto, questo, dall’umanità e dal rispetto verso l’arte e la musica. La comune passione per il pianoforte e per Chopin, gli diede la forza per non arrendersi e recuperare il desiderio di vivere per amore della musica e del suo pianoforte.

I nostri alunni, platea silenziosa e attenta, hanno beneficiato del breve ma intenso concerto che ha visto alternarsi la narrazione alle musiche di Debussy (Clair de lune), W. Szpilman (Mazurka), Lisz – Wagner (Isoldes Liebestod), F. Chopin (Notturno in do# min, variazioni su “Là ci darem la mano, Preludio Op. 28 n. 4) e S. Rachmaninov (Preludio Op. 32 n. 10).

È stato un momento prezioso di raccoglimento intorno alla musica classica e alle magiche emozioni che essa riesce sempre a suscitare anche nell’animo degli adolescenti che hanno dimostrato di saper apprezzare momenti di vita scolastica diversi da quelli quotidiani e di saper godere appieno della bellezza della musica.

 Fiorella Mastria

 
Di Antonio Mellone (del 16/06/2018 @ 11:55:26, in Recensione libro, linkato 2302 volte)

“Lento all’ira e grande nell’amore”, era il verso di un salmo responsoriale (allora non sapevo fosse a cura del re Davide) che da giovane imberbe chierichetto ero chiamato a leggere, guarda un po’, nei matrimoni, subito dopo la prima lettura che in genere era di spettanza della sempre commossa sposa.

E “Lento all’ira” (“grande nell’amore” è sottinteso) è l’ultimo lavoro letterario del mio amico Alessandro Romano (edizioni Esperidi, Monteroni di Lecce, 2017).

Per come l’ho visto io, “Lento all’ira” (ma veloce nella lettura: 123 pagine, note dell'autore incluse) non è la semplice opera romantica di un viaggio nella storia e nella geografia della terra nostra, e dunque non necessariamente la ricerca delle radici, del diritto di cittadinanza, delle tradizioni e della cultura della terra che fu dei Messapi; sì, ci sta anche tutto questo per carità (e addirittura ancora una volta – che goduria – anche la leggenda trasposta di Cosimo Mariano da Noha e le sue Casiceddhre che stavolta sono la riproduzione in miniatura di Masseria Tridente), ma qui siamo di fronte al dialogo profondo tra Leonida Karydis, archeologo alla Schliemann (quello della città di Troia e delle altre civiltà sepolte) e il buon Donato Zappo (un cognome che è anche voce del verbo).

Questo dialogo, che avviene anche attraverso la lettura del diario dello Zappo, è il vero scavo archeologico nelle viscere di un’anima lenta all’ira per formazione, e grande nell’amore per indole. Spesso Donato Zappo finisce per essere lo specchio nel quale si riflette l’archeologo ricercatore venuto dalla Grecia dei miti, sicché Zappo e Karydis sono alla fin fine due personaggi in cerca del loro autore.

Così, pagina concettosa dopo pagina concettosa, realizzi che gli ingredienti indispensabili per una vera grande Rivoluzione non sono mai il furore o peggio ancora l’odio, bensì i loro antonimi, vale a dire la virtù dei forti non disgiunta dall’amore che, si sa, è causa efficiente che “move il sole e l’altre stelle”.

Queste e non altre sono le condizioni necessarie e sufficienti per fronteggiare i vari baroni Arciero di ieri e di oggi, epigoni del capitalismo che continua a rapinare Salento e dintorni, idolatri del plusvalore che da sempre è un furto, vassalli di un neo-feudalesimo più oscurantista che pria, spalmatori di multistrati di cemento e asfalto, importatori di tubi e di fonti fossili (come il gas azero), sicari del diritto di parola contraria, estensori di fogli di via, comminatori di multe prefettizie, giornalisti da passeggio, e dunque registi attori e comparse della trasformazione della nostra terra antica e bella in una scena del delitto.

*

Dio solo sa quanto vorrei che per una volta sola non scrivessi una recensione elogiativa dei libri di Alessandro Romano, ma una stroncatura bell’e buona, un po’ come a suo tempo Umberto Eco ne scrisse sul conto di Ken Follet (“Oggi ho riscritto il capolavoro del Manzoni affinché la generazione più giovane non si annoi leggendo le sciatterie nanesche come quelle di Ken Follet”); e parimenti quanto mi piacerebbe che Alessandro Romano mi rispondesse per le rime come Ken Follet fece a sua volta con Umberto Eco (“A Eco preferisco Dan Brown”).

E questo non solo in termini di copie vendute (cinquanta milioni “Il nome della rosa”, per dire, e quindici milioni “I pilastri della terra”) ma perché mi accontenterei di essere l’ultimo tra gli scrittori, piuttosto che – come vado vieppiù convincendomi - il penultimo degli scriventi.

Antonio Mellone

 
Di Albino Campa (del 21/03/2009 @ 11:17:15, in I Dialoghi di Noha, linkato 6958 volte)


I dialoghi di Noha vanno avanti. Eccovi il testo e le immagini del commento e della recita del canto V dell'Inferno di Dante Alighieri che ha avuto luogo il 28 febbraio 2009 a cura di Antonio Mellone nello stupendo scenario dello studio d'Arte di Paola Rizzo.

I DIALOGHI DI NOHA

DANTE ALIGHIERI: IL CANTO V DELL’INFERNO


Vi dico subito come è strutturata questa lectura Dantis.

Cercheremo brevemente d’inquadrare il canto V nel girone dell’Inferno. Il secondo per la precisione. Spiegherò chi sono i personaggi. E poi prima del vero e proprio canto V (che proverò a recitare a memoria) commenteremo le singole terzine. Come saprete, i livelli di lettura della Comedia sono molteplici. Noi cercheremo una chiave di lettura: la più semplice possibile.

* * *

Adesso farò girare delle fotocopie sulla struttura dell’oltretomba dantesco. Ed in particolare sull’Inferno.

* * *

L’Inferno è come una grande vora, diciamo una voragine a forma di imbuto il cui termine, o il cui punto di minimo, si trova al centro della terra. Dunque un imbuto o un cono rovesciato enorme (come potete vedere dalle fotocopie). Un burrone che si apre sotto Gerusalemme causato dalla caduta di Lucifero (l’angelo, il più bello fra tutti, che si era ribellato a Dio) quando fu scaraventato dal Paradiso sulla Terra in seguito alla battaglia condotta e vinta dal nostro Arcangelo San Michele e dai suoi angeli.

La terra dunque in seguito a questa caduta si ritira, per paura, per ripugnanza, per schifo… per ricomparire dall’altra parte dell’emisfero terracqueo come una enorme montagna: la montagna del Purgatorio.

L’Inferno è diviso in nove cerchi concentrici che si rimpiccioliscono man mano che si scende, man mano che si va al centro della terra, per terminare nel lago di Cocito, lago ghiacciato a causa del vento (un vento freddissimo, diremmo di tramontana) prodotto dalle ali (enormi e senza piume, come quelle dei pipistrelli), ali di Lucifero, a sua volta immerso nel ghiaccio. Lucifero ha tre teste ed in ogni bocca sgranocchia anzi maciulla coi denti un peccatore. I tre traditori rosi dal diavolo sono Bruto, Cassio (entrambi responsabili della congiura contro Cesare) ed ovviamente Giuda (traditore di Gesù).

Vediamo ancora un attimo insieme la struttura dell’Inferno per vedere dove ci troviamo con questo canto quinto. Siamo nel II cerchio. Vedete? Subito dopo il primo cerchio che contiene il Limbo, che è quello in cui si trovano le anime di coloro che non furono battezzati. Ma prima ancora c’è la famosa porta dell’Inferno sulla quale c’è scritto (recito): Per me si va nella città dolente/ per me si va nell’eterno dolore / per me si va tra la perduta gente./Giustizia mosse il mio alto fattore/fecemi la divina potestate/la somma sapienza e il primo amore./ Dinanzi a me non fuor cose create/se non etterne ed io etterno duro/ lasciate ogni speranza voi ch’intrate.

Poi c’è l’Antinferno, dove ci sono gli Ignavi, quelli che non si schierarono mai, quelli che vissero sanza infamia e sanza lode, di cui lo stesso Virgilio dice a Dante: non ti curar di lor ma guarda e passa. Fanno così ribrezzo che non li vuole manco l’Inferno! Dunque c’è la necessità di schierarci.

Il terzo cerchio è quello dei Golosi, il IV quello degli Avari e Prodighi, nel V troviamo gli Iracondi e gli Accidiosi; il sesto cerchio è quello dove sono puniti gli Eresiarchi (o Eretici).

Il settimo cerchio è quello dei Violenti. Questo cerchio a sua volta è diviso in tre gironi: il primo dei violenti contro il prossimo e le sue cose; il secondo dei violenti contro se stessi e le proprie opere; il terzo dei violenti contro Dio e le sue cose.

Dopo una ripa scoscesa si va all’ottavo cerchio: quello dei violenti contro chi non si fida. L’ottavo cerchio è diviso in dieci bolge: 1) Seduttori; 2) Adulatori; 3) Simoniaci; 4) Indovini; 5) Barattieri; 6) Ipocriti; 7) Ladri; 8) Consiglieri Fraudolenti; 9) Seminatori di discordia; 10) Falsari.

Dopo c’è il pozzo dei giganti. Ed infine si arriva al nono cerchio (dove sono puniti i violenti contro chi si fida: cioè i traditori). Il nono cerchio è diviso in quattro zone: la prima dei traditori dei parenti (la cosiddetta Caina. Nel canto di questa sera vedremo che Francesca farà riferimento a questa zona del nono cerchio), la seconda dei traditori della patria, la terza dei traditori degli amici, la quarta dei traditori dei benefattori. In fondo c’è Lucifero, come detto sopra.

Ora ritorniamo sopra, al secondo cerchio e vediamo un po’ di focalizzarci su alcuni personaggi che Dante incontra nel suo viaggio.

* * *


La storiella dei due amanti che Dante incontra è questa.

Per sedare antichi rancori, due potenti famiglie di Romagna (i Polenta da Ravenna e i Malatesta da Rimini) pensano di pacificarsi combinando un matrimonio. Gli sposi sono Francesca da Polenta, bellissima, e Giovanni Malatesta detto Gianciotto, brutto e sciancato.

Per evitare un rifiuto secco da parte della giovane, le famiglie decidono di celebrare il matrimonio per procura. Questo fatto rappresenterà un altro raggiro, in quanto Francesca per un attimo pensa che lo sposo promesso sia l’ambasciatore o meglio il procuratore: Paolo Malatesta, uomo bellissimo, fratello di Giovanni, lo zoppo.

Ma così non è.

Francesca capirà subito chi sarà il vero marito e, sottomessa com’è, si sottopone al vincolo coniugale.

Però la scintilla era scoppiata. A sua volta a Paolo piacque subito Francesca, così come a Francesca piacque subito Paolo. Vedremo anche questo concetto: amor che a nullo amato amar perdona.

Ed una sera di maggio, in una loggia panoramica del castello di Gradara (che è bellissimo: v’invito a visitarlo come ho fatto io tempo fa) basterà la lettura a due della pagina di un famoso romanzo cavalleresco, in cui si raccontano gli inizi di una vicenda extraconiugale, perché i due cognati si bacino finalmente non riuscendo più ad andare avanti. Qui pare che irrompesse il marito (Gianciotto, cioè Giovanni Malatesta, lo zoppo) sorprendendo i due in flagranza di adulterio (un bacio!) e infilzandoli con una spada o una lancia in un’unica stoccata.

Tra l’altro a quanto pare questo duplice omicidio non sembra aver sciupato la vantaggiosa alleanza per le due famiglie che anzi viene rinsaldata con questa specie di patto di sangue.

* * *

Ora iniziamo a commentare il canto (prima di cercare di recitarlo tutto intero a memoria). Il canto è quello in cui Dante incontra i due amanti appunto in questo secondo girone dell’Inferno.

Dante con Virgilio discendono dal primo cerchio giù nel secondo, che ha una circonferenza più piccola, ma che contiene più dolore che spinge al lamento (che punge a guaio).

Piantato nell’entrata sta Minosse, giudice dell’inferno, che giudica e manda secondo ch’avvinghia. Ovviamente il giudizio è sempre inappellabile e soprattutto qui si parla di ergastolo. Qui la pena ed il carcere è vita. O meglio a vita eterna.

Dunque, quando l’anima mal nata (nata alla propria dannazione) gli capita davanti, confessa tutti i suoi peccati. E Minosse individua il comparto dell’Inferno che fa per lei e glielo comunica o glielo notifica secondo ch’avvinghia: cioè avvolgendosi nella coda un numero di volte pari all’ordine del grado o cerchio in cui l’anima deve precipitare. Per esempio quattro giri di coda, quarto cerchio; otto giri di coda, ottavo cerchio, e così via.

Il flusso delle anime è incessante: a turno vanno al giudizio, si confessano, ascoltano la sentenza, e poi sono scaraventate di sotto a capofitto.

Come vede Dante, Minosse s’accorge che non si tratta di un’anima ma di un uomo in carne ed ossa (in quanto Dante proietta un’ombra) e subito interrompendo l’atto di cotanto uffizio, gli urla: Tu che vieni in questo ospizio di dannati, stai attendo a dove ti stai cacciando. Non t’inganni l’ampiezza dell’entrata.

E Virgilio (compagno di viaggio di Dante) gli ribatte: Perché pur gride? Non tagliargli la strada. Vuolsi così colà dove si può (puote) ciò che si vuole e più non chiedere (dimandare).

Poi Dante viene al nocciolo del racconto. Or incomincian le dolenti note (il suono del dolore) a farmisi sentire, or son venuto là dove molto pianto mi percuote (mi investe e mi turba).

Io venni in loco d’ogne luce muto, cioè nel buio, silenzioso di luce, che mugghia come fa mare in tempesta quando è schiaffeggiato dai venti.

La bufera infernale che mai non s’arresta, e tormenta le anime dei dannati nella sua rapina sbattendole di qua, di là, di su, di giù.

Quando giungono davanti alla ruina si scatena un coro stonato di strida, singhiozzi, lamenti e bestemmie.

A questo punto Virgilio dice a Dante che i dannati sottoposti a quella pena sono i peccator carnali che la ragion sommettono al talento, cioè che subordinano l’ordine della ragione ai disordini del desiderio. Cioè sottomettono la ragione alla passione: sono in una parola i lussuriosi.

Ecco la legge del contrappasso: sbattuti dal vento delle passioni da vivi, questi peccator carnali saranno allora strapazzati dalla bufera infernale nei secoli dei secoli, amen.

Ecco allora due similitudini (ce ne stanno molte nella Divina Commedia).

La prima. Gli spiriti di questo cerchio, la massa dei lussuriosi, sono paragonati allo stormo largo e pieno degli storni (un tipo di uccelli) che in massa turbinano alla rinfusa.

La seconda. Le ombre travolte dalla medesima tormenta (de la detta briga) striano gemendo, come gru che disposte in lunga riga van cantando lor lai (cioè si lamentano). Dunque sono gru lamentose queste anime selezionate, ch’amor di nostra vita dipartille, cioè che han perso la vita a causa dell’amore.

Dante domanda: chi sono queste anime-gru?

Risponde Virgilio. La prima è Semiramide, la leggendaria imperatrice, che succeduta al marito Nino, regnò sulla terra che il Soldan corregge, cioè la città che oggi è retta dal sultano d’Egitto. Questa Semiramis, Semiramide, fu donna talmente depravata che per abrogare l’ignominia a cui s’era ridotta, decretò la liceità di ogni sfrenatezza: libito fe’ licito in sua legge. Insomma si fece una legge ad personam. Le leggi ad personam evidentemente non sono un’invenzione di questi nostri giorni!

La seconda delle anime in riga è colei che s’uccise per amore, dopo aver rotto il patto di fedeltà giurato sulle ceneri del marito Sicheo: si tratta della vedova Didone, regina di Cartagine: la quale folle di Enea (quando questi partì) si lanciò tra le fiamme.

Segue Cleopatra lussuriosa: Cleopatra amante di Cesare e Antonio e di molti altri (si suicidò morsa da un aspide).

Segue ancora Elena, per cui tanto reo tempo si volse, (dieci anni della guerra greco-troiana)

Vedi Parìs: vedi Paride, amante di Elena, e vedi Tristano (quello che preleva la bella Isotta in Irlanda per tradurla sposa a suo zio Marco, re di Cornovaglia: poi i due bevono una pozione, un filtro d’amore. Ma poi Marco mette a morte il nipote… Ma questa è un’altra storia).

L’elenco dei sette morti lussuriosi, completato da mille altri nomi di donne antiche e cavalieri, sgomenta Dante e pietà lo coglie.

Quando ecco che qualcosa, sconvolgendolo ancor di più, cattura la sua attenzione. E si rivolge a Virgilio e gli dice: poeta, mi piacerebbe parlare con quei due che volano insieme e sembrano essere così leggeri al vento. Ed il maestro gli risponde: non ti preoccupare, quando saranno più vicini a noi, pregali in nome dell’amore che li sbatte a destra e a manca e vedrai che verranno.

E così Dante, non appena il vento sembra rallentare un attimo, si rivolge a loro dicendo: oh anime affannate, venite a parlare a noi, se altri (se Dio, cioè) non lo vieta.

Dalla riga di gru, come due colombi, si staccano due anime, tratte dalla forza dell’appello affettuoso. Ma inizia a parlare solo lei. Lui (Paolo) non parlerà mai in questo canto. Piange in silenzio.

Francesca si dice allora disposta a dire tutto quello che Dante, quella creatura vivente vorrà sapere. Mentre che il vento come fa ci tace.

Francesca per designare la sua città, si dichiara nata sulla marina dove sfocia il Po per aver pace con i suoi affluenti. Ed aggiunge che se qualche udienza lei e Paolo potessero ottenere (ma mai l’otterranno) nei cieli, pace pregherebbero per il pellegrino commosso dalla loro pena. Pace e niente altro: pace che altro non è che la disperata aspirazione di questa signora che, con l’amante, tinse il mondo di sanguigno, e ora gira e rigira furiosamente nell’aere perso del secondo cerchio dell’Inferno.

Amor, che in un cuore nobile attecchisce subito, prese questo Paolo del bel corpo di cui sono stata privata, ed il modo ancor m’offende. Può significare: la smodatezza della passione di Paolo mi tiene ancora in sua balìa; oppure: il modo dell’omicidio continua ad offendermi.

Amor gentile. Amor cortese. Dolce stil novo: quello che sublima la donna, vista come un angelo. Non vi posso a questo punto non recitare la bella poesia di Dante: Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia…[recita].

Tanto gentile e tanta onesta pare

La donna mia quand’ella altrui saluta

Ch’ogne lingua devien tremando muta,

E gli occhi no l’ardiscono di guardare

Ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d’umiltà vestuta;

e par che sia una cosa venuta

da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira,

che dà per gli occhi una dolcezza al core

che ‘ntender no lo può chi non la pruova

e par che de la sua labbia si mova

uno spirito soave pien d’amore,

che va dicendo a l’anima: sospira.

* * *


Amor che a nullo amato amar perdona.

Amore che non esonera nessuna persona amata dall’amare a sua volta, prese me della bellezza di quest’uomo, e con tanta forza che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amore ci coinvolse in un’unica morte. La Caina, cioè quel cerchio dei traditori dei parenti (che abbiamo visto anche sulle fotocopie) che è la zona del lago di ghiaccio che chiude il cratere infernale, la Caina – dicevo – attende chi a vita ci spense: cioè mio marito che ci uccise.

* * *

Ora apro una breve parentesi su quel verso 103 ormai famosissimo: Amor, ch’a nullo amato amar perdona.

Secondo questa specie di teorema si può affermare che sempre, fulmineamente, senza appello, chiunque s’innamori di una persona automaticamente non può che esserne corrisposto. Dunque c’è reciprocità d’amore. Istantanea e perfetta.

C’è chi dice invece che questo funziona solo con l’amore di Dio per cui amare Dio ed essere amati è un’unica cosa. Ma senza approfondire questi concetti ché si sconfinerebbe in altri campi (teologici, morali, psicologici, filosofici…) diciamo che nel tempo altri poeti pensarono invece che non esiste questa corrispondenza d’amorosi sensi.

Per esempio nel seicento ci fu una suora di lingua spagnola, Suor Juana Ines de la Crux, di Città del Messico che scrisse questa poesia molto bella che ora vi recito: “L’ingrato che mi lascia cerco amante”… [recita].

Chiusa la parentesi.

L’ingrato che mi lascia, cerco amante

L’amante che mi segue, lascio ingrata;

costante adoro chi il mio amor maltratta

maltratto chi il mio amor cerca costante.

Chi tratto con amor, per me è diamante,

e son diamante a chi in amor mi tratta;

voglio veder trionfante chi mi ammazza,

e ammazzo chi mi vuol veder trionfante.

Soffre il mio desiderio, se ad uno cedo;

se l’altro imploro, il mio puntiglio oltraggio:

in ambi i modi infelice io mi vedo.

Ma per mio buon profitto ognor m’ingaggio

A esser, di chi non amo, schivo arredo

E mai, di chi non mi ama, vile ostaggio.

Ecco: in questa poesia si evidenzia molto bene non la simmetria ma la asimmetria degli amorosi sensi…

* * *

Ma torniamo al nostro canto V.

Dopo aver ascoltato quelle anime offense, Dante abbassa gli occhi e tanto li tiene bassi, finché Virgilio gli chiede: che pensi? Cosa ti passa per la testa?

E Dante risponde dopo un po’: Ahimè, quanti dolci pensier, quanto desìo menò costoro al doloroso passo.

Poi si rivolge a Francesca dicendole: Francesca, le tue pene, il tuo dolore mi impietosiscono fino alle lacrime. E poi le chiede, quasi morbosamente curioso: ma dimmi, per quali indizi ed in quali circostanze vi ha consentito Amore di conoscere i vostri titubanti e mutui desideri?

E Francesca: Nessun maggior dolor …premesso che nulla fa più male che ricordarsi del tempo felice nella miseria, dirò come colui che piange e dice: dirò come direbbe chi piangendo dicesse.

E continua: un giorno, per svago, senza essere insospettiti da alcun presentimento, lei e Paolo leggevano insieme un romanzo francese, dove era raccontata la storia d’amore di Lancillotto e Ginevra, moglie di re Artù (qualcuno ricorda il film con Richard Gere e Sean Connery, su questa storia. ecc.).

Più di una volta la lettura costrinse i loro sguardi ad incrociarsi, ed i loro visi a sbiancare. Ma a sopraffarli fu una pagina: proprio quella. Quando lessero il desiderato sorriso di donna Ginevra essere baciato da cosiffatto amante, questi che mai da me non fia, non sia, diviso la bocca mi baciò tutto tremante.

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, quel giorno più non vi leggemmo avanti.

Il Galeotto di cui si parla è il siniscalco Galehaut, che nel romanzo francese istiga il leale Lancillotto a dichiarare il suo amore a Ginevra; e sotto i suoi occhi, Ginevra prende Lancillotto e lo bacia.

Dunque: Galeotto fu il libro: il libro o meglio il suo autore, ci ha fatto da mezzano.

Quel giorno più non vi leggemmo avante…

Questa frase di Francesca ha dato luogo a diverse interpretazioni. Può significare che la lettura, interrotta dal bacio, sarebbe stata immediatamente e definitivamente troncata dall’irruzione del marito zoppo e quindi dal doppio omicidio.

L’altra interpretazione forse più plausibile, benché più piccante, è quella per cui da quel giorno, i due abbiano accantonano le perlustrazioni letterarie sul tema dell’amor cortese, per abbandonarsi alla passione.

Il canto finisce con Dante che sviene cadendo come corpo morto cade.


Eccovi dunque la recita integrale del canto V dell’Inferno.

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.

Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d'inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.

«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,

«guarda com' entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.

Intesi ch'a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.

E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali

di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid' io venir, traendo guai,

ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera sì gastiga?».

«La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.

A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.

Ell' è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.

L'altra è colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.

Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.

Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.

Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

I' cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri».

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega!».

Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov' è Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettüoso grido.

«O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.

Quand' io intesi quell' anime offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».

Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».

E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.

Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com' io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

 

Ed eccoci a scrivere e promuovere un libro che non può mancare sotto l’ombrellone, tra uno schizzo d’acqua, il rumore dei bambini che giocano in spiaggia ed il vociare della massa indistinta, che si bagna nelle dolci acque del Mediterraneo. Un libro intrigante, pieno di mistero ed avventura, che avrò l’onore di presentare a Galatina il 26 agosto 2014 alle ore 20.30 presso il palazzo della Cultura, per la serie di eventi nota come ” L’estate della cuccuvàscia “. Un mistero antico come quello della Nike di Samotracia, ha la forza secolare di costruire una rete di rapporti, unire terre lontane e custodire segreti. Il Dr. Silli Solari è un archeologo irrequieto, sicuro di se e alla continua ricerca di percorsi avventurosi in cui addentrarsi e perdersi. Insieme al suo migliore amico greco, Christos, partecipa a una poco entusiasmante spedizione archeologica in Grecia. Proprio lì? conosce Brigitte, una ragazza francese, e Renate, tedesca, a capo della spedizione. Entrambe archeologhe, entrambe attratte da Silli, con caratteri e destini diversi. Silli e Christos decidono di abbandonare la spedizione greca e partono alla volta del Baltico, con l’obiettivo di raggiungere l’arcipelago di Aland e scoprire il segreto della Nike alata. Brigitte, ormai invaghita di Silli, sceglie di accompagnarli, e da quel momento, dopo una serie di terribili omicidi, iniziano pian piano a svelarsi le identità insospettabili dei vari protagonisti. Ferdinando Scavran sociologo di origini venete, nasce a Taranto nel 1957 e vive e lavora nel Salento. Da sempre innamorato della Grecia, lì passa spesso le sue vacanze, lì il suo cuore e la sua anima. L’amore di Ferdinando per la Grecia nel nome trasmesso ai suoi due figli, intrisi di storia mito e leggenda, due nome legati indissolubilmente con la madre patria Hellas, Ares e Dafne. Un thriller " Le Ali della Follia " che si abbandona alle carezze della Storia, della Mitologia e dei sentimenti e, che pur lottando con l’orrore, affronta senza esitazione un percorso intricato e affascinante.

Raimondo Rodia

 
Di Albino Campa (del 19/04/2006 @ 09:40:40, in Libro di Noha, linkato 8753 volte)
nohastoriaarteleggenda

Il libro è di imminente pubblicazione ed è indirizzato e dedicato al ricercatore, allo storiografo, allo studioso, all’archeologo, e al curioso di fatti e di pensieri di ieri e di oggi; a chi, pur costretto a vivere la sua vita altrove (dedito all’incremento del PIL, prodotto-interno-lordo, delle contrade che non sono quelle in cui nacque), non imbastardisce volutamente la sua cadenza, per non dimostrare di essere cittadino del sole, magari con le “s” sibilate in maniera goffa, sicché non sai più se si tratti di cadenza del Nord, del Sud o di nessun luogo; a chi ritornando “al paese” non si sente come un pesce fuor d’acqua; a chi non snobba le sue origini, ma ne va fiero; a chi, per studio o per lavoro, ha dovuto lasciare la propria terra natìa per portare altrove le proprie braccia, il proprio cervello e i propri sogni; a chi vivendo lungi da Noha, pur avendo a volte il viso pallido e contratto dallo stress, si rilassa pensando al ritorno nella sua terra, ai suoi orizzonti, al suo mare, alla sua aria pura, al bianco delle case su cui riverbera la luce meridiana che quasi abbacina gli occhi; a chi è attaccato alle proprie radici; a chi prova nostalgia fin nelle fibre più intime; a chi ama la pennichella pomeridiana; a chi sa apprezzare il profumo della campagna che fu degli avi, che coltivarono gli ulivi, attorcigliatisi nel corso dei secoli, ed il tabacco, che assorbiva il lavoro di tutta la famiglia intenta ad infilare le foglie nei canapi dei taraletti;  a chi ama il mare in tutte le stagioni e non soltanto d’Agosto; a chi vive interiormente la passione di quella sorta di cordone ombelicale che lega ai propri parenti, ai nonni, agli zii, ai fratelli, ai padri, alle madri; a chi è legato alla piazza del proprio paese dove trova sempre un amico, anche senza il bisogno di fissare un appuntamento; a chi crede che un libro faccia viaggiare più di un aereo, faccia sentire suoni, gustare sapori e annusare odori; a chi pensa che la micro-storia del proprio paese, per quanto piccolo questo possa essere, contribuisca comunque a fare la macro-storia o storia generale; a chi vive a Noha, o a chi, pur non vivendoci, vi è legato, in un modo o nell’altro, da un sentimento o da un ricordo.

Per visualizzare la copertina completa del libro clicca qui.

 

 

 
Di Antonio Mellone (del 23/02/2020 @ 09:37:08, in don Donato Mellone, linkato 1464 volte)

Insomma, due giorni interi di messaggi a non finire sulla magnificenza del concerto, gente che ti ferma per strada, o ti chiama al telefono per complimentarsi (mica con te, che non c’entri niente, ma con il Maestro).

E così lo Scarcella Francesco di Andrano, maestro d’organo, dopo aver suonato all’estero e nel resto d’Italia, vinto concorsi, composto opere, registrato dischi, diretto orchestre, inventato festival (tipo l’Organistico del Salento), promosso restauro di organi antichi, architettato di moderni, tenuto seminari, e insegnato in conservatorio e in mille altre scuole di ogni ordine e grado, l’altra sera si è presentato a Noha in frac e dunque papillon bianco, abito d’uso dei direttori d’orchestra, per farci girare la testa.

L’ha fatto non solo dando fiato alle canne del nostro Continiello del 1971, che obbedienti gli han risposto per le rime, ma facendoci capire che un organo si deve suonare anche con i piedi (in senso letterale non letterario, eh), che per di più la musica, fosse anche quella di un’opera buffa come il Barbiere di Siviglia del Rossini, è pur sempre sacra, e che, benché sacra, o forse proprio perché sacra, non può non essere ribelle.

Per farla breve, l’Arte (in questo caso dei suoni) è sovvertimento di canoni: sì, certo, c’è quello di Pachelbel, di Canone dico, che si ripete costante, imperturbabile, ma siccome il cantus firmus rischia di essere monotono arriva finalmente la lotta di classe da parte di quella cosa sublime che è il Contrappunto, forma d’indipendenza, e  talvolta contrasto di melodie che è sale e pepe, ma sa diventare zucchero e crema pasticciera quando serve.

Händel, poi, sa il fatto suo, e tra il sei e il settecento suona a corte per re e regine, compone su pentagramma l’arrivo presso il saggio Salomone della Regina di Saba, e, come suole, fa musica aristocratica. Ma le canne tutte del Continiello di Noha, per mani e piedi del prof. Francesco, diventano spade da investitura al cavalierato, che dico, di proclamazione regale, con l’elevazione di ogni esponente del popolo in ascolto, al rango di re e regine, principesse e principi (rospi inclusi).

Del sovrano del Contrappunto, tal Johann Sebastian Bach, delle sue suite (da cui la celeberrima Aria sulla quarta corda, propedeutica a una seduta di Yoga) e della sua Toccata e Fuga ci sarebbe da dissertare a lungo, ma qui ci limitiamo a dire che a Noha diventano stoccata e foga (di applausi).

Il Te Deum, canto antico di ringraziamento, che si esegue in genere alla fine, si anticipa per anticonformismo all’inizio dell’esibizione (non erano forse i Nomadi che lo suonavano come brano di apertura di ogni loro concerto?). Quello di Charpentier, in particolare, scritto per soli coro e orchestra, comincia sempre con un rullo di timpani, ma stasera in questa terra non servono per l’ouverture strumenti a percussione con membrana tesa su bacino emisferico: bastano i cuori pulsanti in concerto dei suoi abitanti.

Si vola verso la conclusione con l’Improvvisazione Scarcelliana sul tema del Symbolum, simbolo cioè che la classe è finalmente acqua di colonia, profumo d’immenso, per giungere in men che non si dica ai saluti e alle congratulazioni finali. Non può mancare certo il fuoriprogramma: un bis soave con organo e popolo tutto che intona “È l’ora che pia”: uomini e donne astanti armonizzati come un sol corpo e una sola voce e, forse, una sola anima, in una lode giubilare maestosa e perfetta.

Si omaggia infine Maister Scarcella coram populo con un niente al confronto dell’emozione che ci ha donato: un po’ di storia arte e leggenda nohane rilegate in un libro, una scultura di Marcello D’Acquarica, un bigliettino diciamo promemoria, e un libretto di musica datato Anno Domini 1910, rinvenuto nelle carte musicali del compianto don Donato Mellone, cui la serata è dedicata.

Né si può tacere il fatto che tra cose del compianto Don si son rinvenuti, tra gli altri, dei vinili dal titolo “Canti di Lotta e di Speranza”, e poi ancora “In cammino con noi verso la Liberazione”, nonché degli spartiti musicali su “La Natura non ha frontiere” (che diede il titolo a un brano ecologico ante litteram che imparammo a memoria, lui al suo Continiello 1971), e infine appunti e parole eterne tipo queste: “Per molti non esiste che il lavoro materiale, esso solo è degno di compenso, ad esso solo si attribuisce il progresso umano. Ma c’è un lavoro più alto e nobile: quello del pensiero, quello della poesia, della musica e dell’arte, e quello ancora più sublime della creazione della santità. Senza questo lavoro non può esserci popolo civile.” [Don Donato Mellone, Appunti].

Se non è rivoluzione questa, ditemi voi cos’è.

Antonio Mellone

 

CONCERTO D^ORGANO NEL QUINTO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI DON DONATO MELLONE. CHIESA MADRE DI NOHA 21.02.2020 CONCERTO D^ORGANO NEL QUINTO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI DON DONATO MELLONE. CHIESA MADRE DI NOHA 21.02.2020
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Di Albino Campa (del 06/07/2006 @ 09:14:10, in Libro di Noha, linkato 3492 volte)
Presentazione Libro Clicca sulla foto per visualizzare tutta la foto gallery della serata.
 
 

 

 

 
Di Albino Campa (del 07/07/2006 @ 09:09:24, in Libro di Noha, linkato 3717 volte)
Seconda Foto Gallery della presentazione del libro.



P.S.
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Di Albino Campa (del 25/07/2011 @ 08:59:32, in Letture estive, linkato 3015 volte)

Il mastino dei Baskerville sino a qualche giorno fa giaceva del tutto ignorato nella sotto-sottocategoria “LIBRI DIMENTICATI” della mia libreria. Ad essere sinceri era già da qualche mese che aveva raggiunto questa nuova posizione, dopo aver transitato inconsapevolmente per “LIBRI IN LETTURA”, “LIBRI IN STAND BY”, “LIBRI DA LEGGERE” e da ultimo “LIBRI DA LEGGERE SENZA FRETTA”. Poi domenica mentre cercavo di togliere un po’ di polvere e cambiare per l’ennesima volta la disposizione dei libri negli scaffali – è un’operazione che tendo a ripetere più volte durante l’anno – mi sono accorto che il vecchio Holmes sonnecchiava, sicuramente con immenso disappunto, tra i libri che in genere ripongo nell’angolo inferiore sinistro della libreria nascosto da una poltrona, libri che mi sono stati regalati da persone che non erano al corrente dei miei gusti letterari oppure che ho comprato perché stupidamente attratto dal titolo o dalla copertina.

Ho cercato quindi di sfilarlo con delicatezza, poi sono stato costretto ad usare la forza per sottrarlo alle morbose attenzioni di un libro di Fabio Volo e uno sull’antica saggezza vedica. Sono sprofondato sulla poltrona e sfogliandolo sono stato assalito oltre che da un nuvolone di polvere, anche da una ventata di ricordi. Il mastino dei Baskerville che ho tra le mani, infatti, è stato acquistato da una bancarella di libri usati, è una vecchia edizione BUR introdotta da una stupenda indagine preliminare in forma di dialogo di Fruttero e Lucentini, con illustrazioni di Sidney Paget,  pagine ingiallite zuppe d’umidità e un cattivo odore. E ora il ticchettio delle pagine che scorrono sull’impronta del pollice della mia mano sinistra mi porta con la memoria indietro nel tempo e con la vista al reparto “LIBRI LETTI”, dove ritrovo con piacere il mio primo acquisto in libreria: Uno studio in rosso di Arthur Conan Doyle. Lo leggo, quindi, seduto su quella stessa poltrona; mi bastano due ore per arrivare alla fine dell’indagine e accorgermi che in realtà la vicenda raccontata non è il massimo dell’originalità e della bellezza, ma sicuramente nella mia mente rimarranno per sempre impressi luoghi, paesaggi e personalità di personaggi caratteristici dell’epoca vittoriana. I colpi di scena non mancano, la spiccata capacità intuitiva di Sherlock Holmes non vi lascerà indifferenti e sarà impossibile resistere alla tentazione di indicare il colpevole dei delitti. La narrazione fluente e ricca di descrizioni vi permetterà di metter su in breve tempo la vostra scenografia: vi sembrerà di attraversare di notte le stanze buie del misterioso castello della famiglia Baskerville al fianco di Watson e di attraversare la spettrale brughiera in cerca dell’assassino.

Avete poche informazioni a vostra disposizione (in realtà saranno molti i dettagli che contribuiranno alla soluzione del caso): le due persone assassinate nella storia non mostrano segni di colluttazione, né portano ferite sul corpo; la morte sopraggiunge la prima volta per un attacco di cuore, la seconda per una caduta. La cosa certa è quindi che entrambi i personaggi fuggivano da qualcosa o qualcuno. Altro elemento che potrà tornarvi utile: nella brughiera si racconta che una strana leggenda perseguita la famiglia Baskerville, si parla di un enorme e orrendo cane, forse un mostro o un fantasma, comunque qualcosa di soprannaturale che non convince affatto l’Holmes di Doyle, personaggio troppo intelligente per star dietro alle credenze popolari.

Non aggiungo altro, se non che il colpevole si saprà solo nelle ultime pagine e i dettagli del caso saranno snocciolati nell’ultimo capitolo per bocca dello stesso Holmes.

Michele Stursi

Il mastino dei Baskerville, Arthur Conan Doyle, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, pp. 276, € 7,90

 

Riceviamo e pubblichiamo con molto piacere l'interrogazione che ha presentato il Consigliere Comunale Antonio Pepe al Sindaco di Galatina nel corso del Consiglio Comunale del 30 luglio u.s. per porre, all'attenzione dell'Amministrazione Comunale, la preoccupante situazione delle "Casiceddhre"

Interrogazione urgente a risposta orale. Interventi di ristrutturazione e recupero c.d. “Casiceddhre o Casette dei nani” site in via Castello, Noha.

http://www.noha.it/photogallery/view.asp?dir=casiceddhre_di_novella

Il sottoscritto Antonio Pepe, Consigliere Comunale dell’UDC,

premesso che

  1. - nella frazione di Noha (via Castello), insistono sul terrazzo del palazzo baronale delle costruzioni in miniatura in pietra leccese policroma, dai più denominate e conosciute con il termine di “Casiceddhre o Casette dei nani”, di notevole importanza storica, artistica e culturale;
  2. -  tali costruzioni costituiscono la fedele riproduzione in miniatura di palazzi seicenteschi, ricche di dettagli e particolari architettonici (capitelli, volte a stella, volte a croce, etc.), definiti da studiosi e tecnici che hanno avuto la possibilità di visionarle interessanti e sorprendentemente uniche e rare;
  3. - a causa di alcune crepe presenti sul lastricato del terrazzo, che interessano anche il muro dell’edificio sottostante, e della vicinanza di alcuni alberi di pino, che con i rami stanno letteralmente e costantemente “schiaffeggiando” tali “opere d’arte”, e con le radici, probabilmente, provocando le lesioni precedentemente descritte, le condizioni di tali costruzioni stanno visibilmente ed irrimediabilmente peggiorando;
  4. - il testo consultato per la ricostruzione storica narra che “tra le notizie, non documentate, abbiamo quella secondo la quale le “casiceddhre” sono opera di un giovane morto nella guerra del 1915 – 1918. Un’altra vox populi afferma che un pastorello per diletto le abbia costruite in epoca ignota. Un’altra ancora addirittura indica in un mastro fabbricatore, tale Cosimo Mariano di Noha, l’artefice di quel gioiello d’arte. In questo settore in cui non possiamo esprimere che dubbi, incertezze, ipotesi, una facile congettura è quella secondo cui la contemplazione di dette casette contribuiva sia ad alleviare le fatiche e gli impegni profusi nell’amministrazione del feudo, sia a ritrovare tra amici e parenti il gusto dell’esercizio dell’otium letterario e non, ingannando il tempo passato nel paesello in attesa di raggiungere Lecce o Napoli, onde godere e respirare a pieni polmoni l’aria della nobiltà e dell’aristocrazia” (Noha – Storia, Arte, leggenda di Francesco D’Acquarica e Antonio Mellone - Aprile 2006, Istituto Grafica Silvio Basile S.p.a.);
  5. - sono state numerose le recensioni fatte da esperti d’arte e giornalisti, a testimonianza della curiosità e dell’importanza che rivestono;
  6. - negli scorsi anni sono stati saltuariamente effettuati degli interventi di potatura degli alberi, per prevenire ulteriori deterioramenti;

considerato che

  1. - tali costruzioni rappresentano un patrimonio storico, culturale e artistico per la comunità di Noha e potrebbero sicuramente costituire motivo di attrazione per numerosi visitatori, se adeguatamente restaurate;
  2. - per la ristrutturazione alcuni tecnici sarebbero disponibili a prestare la loro opera gratuitamente, elaborando idoneo progetto;
  3. - insistendo su un edificio di proprietà privata, sarebbe auspicabile contattare i proprietari e prevedere di stipulare, ove possibile, forme convenzionali che prevedano il totale recupero e la ristrutturazione di tali “casette” interamente a spese del Comune, prevedendo anche l’illuminazione con idonei corpi illuminanti e, se necessario, l’abbattimento degli alberi, per salvaguardarle e renderle maggiormente visibili;
  4. - trattandosi di interventi di poche migliaia di euro, si potrebbe dare una risposta immediata alla risoluzione di tale problema;

con la presente,

chiede

alla S. V. se ritiene opportuno intervenire immediatamente per porre rimedio a tale situazione, se ritiene possibile contattare nel breve periodo la proprietà al fine di verificare la realizzabilità di quanto prima esposto e se ritiene utile reperire le somme necessarie, ricorrendo anche a finanziamenti extra-comunali, consapevole che ciò costituisce un’importante occasione per l’ulteriore crescita non solo culturale della frazione di Noha, ed in attesa di altri interventi tesi a recuperare l’importante patrimonio presente sul territorio della frazione.

 

Nella sua risposta  Sandra Antonica ha assicurato l'impegno dell'amministrazione comunale.

Antonio Pepe

 
Di P. Francesco D’Acquarica (del 26/03/2020 @ 08:42:55, in I Beni Culturali, linkato 2154 volte)

Sul portale della porta accanto alla chiesetta dell’Annunciazione sono venute alla luce alcune

lettere di una scritta che quasi certamente si riferisce al Duca di Galatina “SPINOLA” che fu anche padrone di Noha.

Come si può vedere dall’albero genealogico qui riportato, da Gio.Filippo Spinola (1677-1753) nacque Maria Teresa Spinola che sarà la moglie di Gio. Battista Scotti. E proprio costui avrà dagli Spinola in eredità il feudo di Noha, che quindi apparterrà alla famiglia Scotti.

Nel mio libro “La Storia di Noha” avevo già scritto:

Nel 1754 morì Francesco Maria Spinola, Duca di San Pietro in Galatina. La vedova Anna Maria, tutrice dell'unica figlia ed erede universale Isabella Maria Spinola, si affrettò a prendere possesso del patrimonio ereditario.  

Noha ne faceva parte ed è probabile che quella scritta si riferisca alla volontà di far sapere che anche il Palazzo Baronale di Noha con proprietà annesse appartenga agli Spinola/Scotti.

Giulio Cesare De Noha fu l'ultimo Barone di Noha. Non essendoci alla sua morte (1583) discendenza maschile il feudo della famiglia De Noha si divise. Il Casale

di Merine passò alla famiglia Palmieri. Quello di Giurdignano agli Alfarano Capece e quello di Cellino ai Chiurlia, Conti di Lizzano. Restò solo la Terra di Noha con i suffeudi di Pisanello e di Padulano che le appartenevano. Questo residuo dell'antica baronia toccò in eredità ad Adriana, figlia primogenita del defunto Barone Giulio Cesare. Quando costei si sposò con Geronimo Montenegro*, Marchese di Marigliano, gli portò in dote l'eredità avuta dal padre.

I Montenegro* furono un antichissimo casato genovese, le cui prime vestigia, rimontano al 1130, propagatosi, nel corso dei secoli, in diverse regioni d'Italia. La famiglia, passata in Napoli, già al tempo di re Federico II, il 14 aprile 1573, divenne possidente di alcuni terreni, tra cui il contado di Marigliano, in provincia di Napoli, grazie all'acquisto effettuato da Geronimo Montenegro, banchiere napoletano e tesoriere del Regno. In data 23 dicembre 1578, lo stesso Geronimo, ottenne il titolo di marchese di Marigliano, dall'Imperatore Filippo II. Nel 1611 Geronimo si sposò con Adriana figlia del nostro barone Cesare De Noha.

In un atto notarile del 1611 il Marchese Geronimo dichiarò di essere signore e padrone della Terra di Noha situata in Terra d'Otranto, con i feudi di Pisanello e di Padulano. Questa Terra confinava con Galatina, Soleto, Corigliano, Sogliano e altri confini.

Il Marchese di Montenegro a sua volta subaffittò a Giovan Battista Personè di Lecce, per un quadriennio a 2100 ducati l'anno la sua terra di Nohi e feudi di Padulano e Pisanello con giurisdizione civile e criminale. Ma l'affittuario si impegnava a non modificare, senza l'espressa volontà del Marchese il Castello, e a pagare una tassa sul grano, sull'orzo, sulla frutta e su tutti i prodotti della terra.

Nel 1631 Noha era posseduta da Pompeo Colonna Principe di Gallicano. Ma nel 1644 i Marchesi di Marigliano fallirono. Noha con i suffeudi di Pisanello e Padulano fu comprata da Giovanni Maria Spinola*, che aveva nello stesso anno comprato anche il ducato di Galatina e rimase in possesso della famiglia Spinola fino a tutto il Settecento.

La Famiglia Spinola* era una grande famiglia genovese di antica origine. Costituisce una delle quattro famiglie di nobiltà feudale più importanti della Repubblica di Genova, con i Grimaldi, i Doria ed i Fieschi. Arricchitasi con la mercatura, la finanza, e l'acquisto di terre, si divise in numerosi rami.

Nel 1754 morì Francesco Maria Spinola, Duca di San Pietro in Galatina. La vedova Anna Maria, tutrice dell'unica figlia ed erede universale Isabella Maria Spinola, si affrettò a prendere possesso del patrimonio ereditario.

Possediamo l'atto di possesso della Terra di Noha in cui sono descritti tutti i diritti e le prerogative spettanti questa Terra, come corpo distinto dagli altri beni del defunto Duca.

(Per chi volesse leggere il documento del 1754 può consultare “Noha - Storia, arte, leggenda” Francesco D’Acquarica-Antonio Mellone edito da Infolito Group nel 2006, alla pagina 78/79).

P. Francesco D’Acquarica

 

Per riscaldare l'inverno 2023 Raimondo Rodia vuole proporre un talk show con grandi personaggi noti del Salento trattando argomenti di attualità. Così nascono i 6 eventi che tra la fine di gennaio ed il 23 febbraio illumineranno le Gallerie Tartaro a Galatina, in via Principe di Piemonte al centro della città.

  • Iniziamo con Mino De Santis il 25 gennaio, così lo descrive suo fratello Giuseppe che ben lo conosce : "E' un sognatore ingenuo e intellettualmente onesto. Insofferente a qualsiasi regola, non scenderebbe mai a compromessi, ha l’anima libera e resta anarchico anche quando non sarebbe il caso… ha una singolare genialità, un'autentica vena artistica che differisce da qualsiasi accomodante musicalità “popolare” oggi cosi volgarmente e insopportabilmente stereotipata ". Con lui si parlerà di un tema altamente spirituale : alchimia, esoterismo, un tuffo nel mondo reale ed irreale dove contano i sentimenti, il nostro mondo interiore e molto altro.
  • Il 2 febbraio 2023 data unica fissata alle ore 18 la presentazione del secondo romanzo di Fernando Blasi in arte Nandu Popu dei Sud Sound System dal titolo " Li Menati ". Li menati in Salento sono i reietti, letteralmente gente da buttare, da evitare. Raramente però finiscono in discarica e anzi, affondano le loro radici nel territorio rendendolo marcio e inospitale. Molti dei menati che Fernando Blasi, in arte Nandu Popu, racconta in questo suo secondo libro, subiscono una metamorfosi profonda e irrefrenabile tanto da diventare boss della Sacra Corona Unita. Una metamorfosi che riguarda tutti, non solo i menati. Riguarda chi la incoraggia, chi sta a guardare, chi si rende invisibile lasciando il territorio alla loro mercè. Nandu Popu regala al lettore un racconto che attraversa il tempo e le vite di chi ha vissuto la Puglia soprattutto in determinati anni. Uno squarcio sul passato di una parte del territorio salentino, Casalabate in particolare, e sui trascorsi autobiografici dell'autore. Un continuo cammino tra passato e presente, tra credenze e storia, un atto d'amore nei confronti della propria terra e un avvertimento alle nuove generazioni affinché imparino a non restare a guardare e a intervenire, per cambiare le cose senza subirle. 

    Giovanni Piero Paladini, salentino di 65 anni, laureato in Giurisprudenza e Presidente della CONFIME-Confederazione Imprese Mediterranee. Esperto in relazioni internazionali e geopolica, ha acquisito pluriennale esperienza nel campo dell’internazionalizzazione delle imprese e della cooperazione accademica con particolare riguardo all’Area MENA. Da circa quindici anni ha dato concretezza alla sua passione, cioè la narrativa, attraverso la quale racconta le proprie esperienze, sensazioni ed emozioni vissute nei tanti viaggi in giro per il mondo. Ne sono nati cinque romanzi tra cui ultimo ‘Jihad’. In precedenza la trilogia dedicata all’affarista internazionale Marco Latini, comprendente ‘L’onore perso’, ‘Il decimo cerchio’ e ‘Il giuramento del falco’ ed infine ‘…e adesso tutto cambia’.

    Jihad è la storia di un giovane immigrato tunisino, aristocratico e ricco, Mohamed, scappato dal suo Paese a seguito della persecuzione del presidente Ben Ali nei confronti del partito Ennadha, di cui faceva parte il padre. Giunto in Sicilia, accolto dagli amici del padre, scopre di essere stato destinato a un futuro di leader della Jihad e manager di una compagnia finanziaria che, grazie a complicità mafiose locali e poteri forti internazionali, è dedita al malaffare, al traffico di armi e droga e al finanziamento del terrorismo islamico. Le contraddizioni personali, tra principi religiosi e vita sentimentale, lo travolgono trasportandolo in un vortice di dolore, angoscia e sensi di colpa.

  • Il terzo ospite sarà Giampiero Khaled Paladini che presenterà il suo ultimo romanzo " Jihad " l'8 febbraio, un tema molto in voga in questo momento in cui c'è bisogno di trovare un compromesso tra occidente ed oriente tra ricchi e poveri in un mondo sempre più globalizzato.

    La millenaria civiltà contadina; una civiltà che nei centri rurali del Salento aveva realizzato, pur in un quadro diffuso di povertà, sfruttamento ed ingiustizia, straordinari risultati di risposta ai bisogni collettivi, di socialità ed identità culturale. Le piazze di quei paesi, che negli ultimi anni sono state oggetto di importanti rifacimenti strutturali ed estetici dagli effetti spesso scenografici, perduta ogni funzione economica e sociale, oggi si presentano come spazi vuoti di presenza umana, freddi, senza storia, senza anima e memoria e ormai da decenni attendono nuova linfa e nuova vita, che sarà, se mai, del tutto diversa da quella di un passato leggendario ed irripetibile. L’ottava rima, con la musica e le cadenze sue proprie, poggia sulla strepitosa padronanza di una lingua che, già grande di suo, si è strutturata nei secoli con scambi, arricchimenti i più diversi, consentendo al popolo del Salento straordinarie capacità espressive, comunicative e creative; lingua che nel poema è strumento formidabile per il disegno di quadri, situazioni e personaggi, lo sviluppo del pensiero e del racconto, il dipanarsi di nostalgiche ricostruzioni e di ironiche, ma spesso amare e desolate invettive, tutte giocate tra il semiserio rimpianto del passato e la icastica condanna del presente.

    Fabrizio Romano Camilli imprenditore e politico, sarà l'ospite di mercoledi 15 febbraio nel corso della sua carriera politica è stato assessore ai trasporti, vie di comunicazione e demanio marittimo della regione Puglia, Presidente del comitato regionale Protezione Civile e componente della Commissione regionale antimafia. Dal 2004 autore di romanzi autobiografici e narrativa politica in genere aprirà una sua pagina come autore nel giugno 2020 con lo pseudonimo di Faro Milli. Con lui divagheremo del mondo politico di ieri e di oggi.

  • Il quarto ospite venerdi 10 febbraio sarà il prof. Giovanni Leuzzi, da sempre impegnato con progetti nel campo culturale e sociale, con lui il 15 febbraio con un tema ad ambedue molto caro dal titolo " Salentinità " tutto ciò che caratterizza e ci rende orgogliosi di essere nati nel tacco d'Italia.
  • Infine giovedi 23 febbraio 2023 alle ore 18 il cantautore P40- Il progetto P40 nasce nel 2002 dall’idea del musicista Pasquale G. Quaranta, personaggio emergente ed estroso della grande fucina di artisti salentini, subito balzato agli occhi del pubblico della sua terra natía per l’originalità della sua opera e il carisma del personaggio. Alla base del lavoro di P40 c’è l’osservazione attenta e critica del suo tempo che l’artista cerca di ri-significare nei suoi spettacoli, attraverso un repertorio di brani inediti composto dallo stesso. Incarnando un incontro tra la figura del cantautore e quella dell’attore, che insieme convivono sul palco portando in scena una rappresentazione quasi teatrale, essenziale, a tratti geniale ma nello stesso tempo ricca di improvvisazioni che giocano sugli equivoci e sulle sensazioni del pubblico. 

 

Le serate si svolgeranno nell'arco di un mese circa presso le gallerie Tartaro via Principe di Piemonte Galatina alle ore 18.00 e saranno riprese dalla Web TV :  TV Sud Tele Galatina e rimarranno archiviate sul canale Youtube dell'emittente.

Raimondo Rodia

 
Di Redazione (del 26/05/2015 @ 00:24:14, in NohaBlog, linkato 3090 volte)
Lunedì 25 maggio 2015, presso l'Istituto Scolastico di via degli Astronauti, sono stati consegnati in dono agli alunni della scuola elementare e media di Noha oltre 200 volumi del "Noha - storia, arte e leggenda" di P. Francesco D'Acquarica e Antonio Mellone (che ne è anche il curatore). 
Alla dirigente scolastica, dott.ssa Elenora Longo è stato regalato un classico: "Il Mangialibri" di Michele Stursi, il primo romanzo ambientato a Noha. 

Eccovi di seguito la lettera di Antonio Mellone indirizzata ai ragazzi di Noha, e la fotogallery a cura di Federica Mellone (che si ringrazia per la collaborazione).

Noha.it

 

Cari Alunni delle Scuole di Noha,

è con vero piacere che vi offro in dono codesto “Noha – storia, arte, leggenda”, volume da me curato e scritto a quattro mani con padre Francesco D’Acquarica.

Questo libro, forse, non avrebbe mai visto la luce dieci anni orsono senza l’interessamento ed il contributo del compianto Michele Tarantino, la cui famiglia - nel suo ricordo - gioisce oggi insieme a me per questo omaggio.

Sì, cari ragazzi, è bello fare regali: direi anche che è molto più bello (e divertente) dare che ricevere, a condizione che si doni con letizia e senza tornaconti.

Vi prego allora di accettare questo volume, frutto di tanto lavoro e altrettanta passione da parte di padre Francesco, storico nohano, da oltre mezzo secolo alla continua ricerca dei segni della storia della nostra piccola patria, del sottoscritto osservatore di fatti di ieri e di oggi (e ove possibile anche di domani), dei maestri Pignatelli esperti nell’arte della fotografia, e di tanti altri che in un modo o nell’altro ci hanno aiutato nel lavoro di ricerca, redazione e pubblicazione di questo testo.

Prendete nelle vostre mani questo deposito di cronache, illustrazioni e reportage, sfogliatelo, leggetene una pagina e vedrete spuntare pensieri, storie e ricordi. Non frugate in questo libro come un cercatore dentro una miniera per estrarre una cosa sola, ma come uno che percorre un campo (o s’immerge in mare) per meravigliarsi del brulichio delle specie viventi.

Partendo da questa “bozza” son sicuro che scoprirete dell’altro, vi entusiasmerete nella ricerca (ma questo avviene con ogni libro), e in qualche modo anche a voi capiterà di scrivere nuove deliziose pagine di storia, arte e leggenda (e non solo nohane). Anche così potrete essere protagonisti di una comunità sempre più bella, accogliente, sana, colta, pulita e curata, solidale, responsabile, onesta e laboriosa, antica ma giovane d’animo, più attenta all’essere che all’avere, più interessata al noi che all’io, più impegnata nel pubblico che nel privato, premurosa dei suoi “spazi condominiali” e della natura che ancora la circonda; una comunità mai vinta e pronta a sperimentare la gioia della lotta per le grandi idee, propensa a valorizzare il suo capitale sociale e umano, e partigiana, sì, partigiana dei suoi beni culturali (il più importante dei quali non è l’antica torre medievale, non il frantoio ipogeo, non il castello, né la casa rossa, e nemmeno uno degli altari barocchi della chiesa madre: ma la Scuola, questa Scuola).

Cari ragazzi, il mondo non si cambia con le chiacchiere, ma con i sogni e le utopie. E io vi auguro di sognare molto. Ma sappiate che i veri sognatori dormono poco o niente.

Cordialmente Vostro.

Antonio Mellone

 

 

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Di Antonio Mellone (del 20/05/2016 @ 00:15:35, in Libro di Noha, linkato 3410 volte)

Ricordo benissimo quell’attimo. Un’emozione indescrivibile, una fra le più belle della mia vita (e sì che ce ne sono state parecchie, grazie al cielo). E fu quello in cui la lama del taglierino fendeva il nastro adesivo col quale era sigillata la scatola di cartone contenente i libri. I miei libri.

*

Potevano essere le nove di una splendida mattinata di metà maggio. Erano appena arrivati da Milano i due ragazzi che per tutta la notte si erano alternati alla guida del furgone carico di non so più quanti scatoloni di pezzi di storia, arte e leggenda del mio paese. Si trattava di decine, che dico, centinaia di volumi di pagine rilegate e racchiuse con copertina in tela rosso fuoco, e sistemati in numero di dieci per ogni pacco.

Non so come, in pochi minuti arrivò anche il muletto di un compaesano per scaricare dal cassone dell’automezzo tutti quei colli (a Noha funziona così, non c’è manco il bisogno di chiedere le cose). Se avessimo dovuto usare mani e braccia, oltre alla fatica, avremmo impiegato tutta la mattinata, e forse anche un pezzo del pomeriggio.

Erano due estranei, quei corrieri, ma per la contentezza li invitai a pranzo a casa mia. E non volli sentir ragioni. Mangiarono con gusto le specialità salentine preparate da mia madre, e subito dopo il convivio, prima del loro rientro nella città meneghina, decisi di far loro il regalo del panorama, o meglio, dello spettacolo del nostro litorale.

Li accompagnai a Santa Maria al Bagno, offrii loro un affogato al caffè, mentre il mare ai nostri piedi sembrava il contenuto di uno scrigno immenso di zaffiri e smeraldi. Ho avuto sempre il dubbio che quella più che una gentilezza fosse uno sgarbo, anzi un dispetto (non voluto, per carità) nei loro confronti, costretti a ritornare di lì a poco sui loro passi, diretti alla volta del loro porto d’imbarco, quello delle nebbie.

Sembra ieri, ma son passati dieci anni esatti da allora. Il libro che mi si materializzò fra le mani, espulso da quell’utero a forma di scatola di cartone, era proprio come l’avevo immaginato io, voluto, desiderato. Quel formato, quelle pagine, i colori, l’immagine della sovra-copertina, le scritte, le fotografie, i caratteri, le didascalie, perfino il profumo: tutto come sognato, progettato, predisposto. 

E sì che non è stato per niente facile raggiungere questo risultato.

Certo, non ero alla mia prima esperienza quanto alla redazione di libri. Oltre a quello della mia tesi di laurea (il classico mattone dal titolo interminabile), nel 2003 avevo consegnato alle stampe un altro dei delicta iuventutis meae, il “Don Paolo” (frutto di una ricerca tra le carte, le foto e le cronache del tempo sul conto di un mio prozio arciprete e monsignore, scomparso un lustro prima del mio arrivo).

Ma questo terzo mio libro era tutt’altra cosa. Intanto era opera di due autori: il sottoscritto (che ne è stato anche il curatore) e quel grand’uomo, maestro e amico che risponde al nome di P. Francesco D’Acquarica, storico, ricercatore, scrittore, nonché - come il sottoscritto - affetto da un’incurabile mal d’amore per Noha. E si sa che un’opera a due mani costa sempre il doppio, non la metà della fatica.

*

Guardate che scrivere un libro è la cosa più semplice di questo mondo: il difficile è ciò che viene dopo. Nella stragrande maggioranza delle volte quel “difficile” diventa “impossibile”. Non fu così nel mio caso. Sulla mia strada incontrai dei facilitatori incredibili. Il primo fu quell’esaurito di mio cugino Matteo (è questione di geni), il quale m’introdusse al cospetto di un altro pazzo scatenato: Michele Tarantino, nohano trapiantato a Milano.

Il colloquio con Michele, nel corso dell’estate 2005, fu, come dire, surreale. Ancora oggi stento a crederci. Gli parlai del libro per sommi capi. Mi disse soltanto di sbrigarmi a finire l’opera. Lui avrebbe pensato a tutto il resto. “E’ così – mi venne di pensare - che la dimensione onirica delle cose diventa realtà concreta”.

C’è chi dice che Michele se ne sia andato nel mese di febbraio del 2012. Io non ci credo. Non può essere. Michele è ancora qui con noi. Sarà in giro da qualche parte, quel mattacchione. No, non gli permetterò mai di sparire dalla circolazione.

*

Dalla data di quel colloquio, il film da slow passò in fast motion.

Sbrigati a scrivere e a collegare il tutto, fai riprodurre le foto da quei santi martiri che sono Daniele, Michele e Rinaldo Pignatelli, chiedi una mano a Giuseppe Rizzo per le foto dall’alto (scattate poi da un Tucano, aereo ultraleggero levatosi in volo grazie ad Antonio Salamina. Sì, un tempo non c’erano i droni o le diavolerie di google), chiedi uno stradario di Noha al geometra Michele Maiorano, fai leggere le bozze al (compianto) prof. Zeffirino Rizzelli (che poi ne scrisse pure la prefazione), sentiti più volte con la stupenda Gabriella Zanobini Ravazzolo di Genova per l’impaginazione, ricevi e inviale per ogni paragrafo le relative pesantissime e lentissime mail, senza Adsl e con un pc del ciclo carolingio e bretone costantemente impallato), vai e vieni da Milano dall’Istituto Grafico Basile, dove il tomo doveva prender forma…  

E firma finalmente il menabò per l’imprimatur.     

*

Dopo l’arrivo del mio libro portatomi in dono dai due re magi di cui all’inizio di questo pezzo, trascorre giusto il tempo di una settimana, non di più, per la sua presentazione. Che a detta di molti fu un vero show, grazie al talent dei diversi ospiti-artisti intervenuti in quella sala convegni dell’Oratorio, gremita come non mai.

Per la cronaca, alla “prima”, furono venduti 115 volumi. Un record assoluto. Anche d’incassi, considerato oltretutto il costo non proprio popolare del tomo.

Ne seguirono delle altre, di presentazioni, dico: alla Festa dei Lettori nell’atrio del Castello di Noha riaperto per l’occasione, all’Università Popolare di Galatina, e poi presso le scuole, e addirittura al centro Polivalente-senza-cabina-elettrica.

*

Oggi, a distanza di dieci anni, posso dire che lo rifarei. Rifarei tutto. Dalla A alla Zeta. Dove c’è gusto c’è sempre guadagno. E poi credo che in fondo, e nonostante tutto, Noha, la sua storia, la sua arte e le sue leggende meritino questo e molto altro ancora.

Potrei parlarvi ora del sito dell’Albino (Noha.it), del nostro mensile (L’Osservatore Nohano), dei convegni (I dialoghi di Noha), eccetera. Ma ora conviene che mi fermi qua.

Solo su questo tema e per queste note, s’intende. Rischierei seriamente di scriverne un altro libro. Il mio sesto.

Antonio Mellone

 
Di Albino Campa (del 18/03/2011 @ 00:00:01, in La Storia, linkato 3167 volte)
Mi è sembrato doveroso aggiornare gli appunti di storia inseriti nel Menu Principale di www.noha.it nel capitoletto “Storia di Noha” che Albino Campa fin dall’inizio dell’esistenza del sito aveva inserito.
Questi aggiornamenti fanno parte di un volumetto che ancora non è stato dato alle stampe.
Mi sono occupato delle notizie storiche su Noha fin dal 1973 quando pubblicai la prima edizione. Nel 1989 il Comune di Galatina mi sovvenzionò una seconda edizione. Queste due edizioni sono esaurite.
Nel 2006 per il forte interessamento di Antonio Mellone uscì un volume poderoso intitolato “Noha, storia, arte e leggenda” che insieme allo stesso Antonio Mellone demmo alle stampe. Questo volume è molto noto e penso che sia presente in tutte le famiglie di Noha.
Ma Noha è una cittadina antica, ricca di storia e di documenti che mi hanno stimolato nella ricerca. Perciò io ho elaborato un altro volume, ancora non pubblicato su materiale cartaceo ma presente nel mio computer, che secondo me meriterebbe essere dato alle stampe per gli aggiornamenti che comprende. Per esempio in quest’opera si parla del "Menir" di Noha, si parla del cristianesimo a Noha "documentato" fin dalle origini, si parla della chiesetta bizantina o basiliana di Santu Totaru e di tante altre cose non ancora pubblicate e che sicuramente interessano a coloro che amano la Storia e la Storia di Noha.
Ebbene, gli aggiornamenti inseriti sono stati presi da quest’ultimo volume che per ora è solo digitale.

Grazie Albino per la diligenza con cui curi il sito e le notizie che riguardano Noha.

P.Francesco D'Acquarica

 
Di Antonio Mellone (del 05/06/2012 @ 00:00:00, in Un'altra chiesa, linkato 3354 volte)

Quando scrissi il mio romanzo «Habemus papam. La leggenda del Papa che abolì il Vaticano» che esce in questi giorni nelle librerie, non potevo immaginare la concomitanza con quanto sta succedendo in quel lupanare che si chiama Vaticano, ma conoscendo alcuni restroscena, ho tenuto in conto il contesto di delinquenza semplice e organizzata che lo circonda e lo alimenta.

Il Vaticano è sempre stato un covo di vipere e di faccendieri senza scrupoli, uomini (le donne lì sono pleonastiche o funzionali solo in senso sessuale, per il resto non esistono) malati di carrierismo e mondanità che per riuscire nel loro intento sono disposti a vendersi anche gratis. Da quando c’è Bertone a capo della Segreteria di Stato, il livello della nefandezza si è abbassato fino a sprofondare negli inferi perché l’uomo è un senza Dio, pieno di sé e tronfio nella sua vuotezza.

Sono certo che a lui pensasse Sant’Antonio da Padova quando tuonava nel sec. XII con parole di fuoco contro la curia e i curiali corrotti che pretendono di rappresentare Dio, mentre invece rappresentano solo abiezione, delinquenza, misfatti, orrori, immoralità e prostituzione:
«Nelle curie dei vescovi i birboni fanno risuonare la legge di Giustiniano [leggi: Diritto Canonico, ndr] e non quella di Cristo: fanno grandi chiacchiere, ma non secondo la tua legge, o Signore, che ormai è abbandonata e presa in odio”. “Se un vescovo o un prelato della Chiesa fa qualcosa contro una decretale di Alessandro, o di Innocenzo, o di qualche altro papa, viene subito accusato, l’accusato viene convocato, il convocato viene convinto del suo crimine, e dopo essere stato convinto viene deposto. Se invece commette qualcosa di grave contro il vangelo di Gesù Cristo, che è tenuto ad osservare sopra tutte le cose, non c’è nessuno che lo accusi, nessuno che lo riprenda».
Il pomposo abbigliamento religioso con il quale gli ecclesiastici incedono «tronfi e impettiti, a pancia in fuori», per sottolineare la sacralità della propria persona e distinguersi dai comuni mortali, non impressiona il santo, che anzi così li ridicolizza:
«Che cosa dirò degli effeminati prelati del nostro tempo, che si agghindano come donne destinate alle nozze, si rivestono di pelli varie, e le cui intemperanze si consumano in lettighe variopinte, in bardature e sproni di cavalli, che rosseggiano del sangue di Cristo?».

Antonio è spietato nella sua denuncia. Non trova alcuna attenuante o virtù nei prelati: vescovi e preti non sono pastori, ma lupi rapaci che «predicano per denaro», mentre i chierici, «molli, effeminati e corrotti, si presentano per denaro nei tribunali e nelle curie, come le prostitute». Per Antonio prelati e chierici sono i «predoni del nostro tempo», che eccellono solo nella loro insaziabile ingordigia: «Non c’è in essi alcuna forma di virtù, non c’è onestà di costumi, ma solo marciume di peccati; fa eccezione la formazione delle unghie, con le quali arraffano i beni dei poveri… questi indegni prelati della Chiesa non hanno alcuna energia nella mente, non essendo capaci di resistere alle tentazioni del diavolo: ma tutta la forza l’hanno nelle braccia e nei fianchi, forza di rapina e di lussuria».

Mentre Cristo «da ricco che era si è fatto povero» [2Cor 8,9], i suoi immaginari rappresentanti si arricchiscono impoverendo il popolo: «Il prelato della Chiesa è un leone che rugge con la sua superbia, un orso affamato con le sue rapine, che spoglia il misero popolo». «Ecco a chi viene affidata oggi la sposa di Cristo, il quale fu avvolto in panni e adagiato in una mangiatoia, mentre essi si rivestono di pelli e si abbandonano alla lussuria in letti di avorio».
Quando lessi la lista degli ultimi cardinali, fatti da Benedetto XVI, un senso di frustrazione mi colpì al cuore perché mi resi subito conto che lo sfacelo aveva superato il livello di guardia e non si poteva più tornare indietro, ma si poteva solo andare verso l’abisso, come i fatti di oggi stanno dimostrando.

Il 24 ottobre 2010, su la Repubblica(edizione ligure, p. XIX) scrissi: «La nomina del genovese Mauro Piacenza a prefetto della congregazione vaticana del clero, nominato
cardinale fresco di giornata è un brutto segno espressione di un pontificato disperato.

Come prete dovrei dipendere dal nuovo prefetto, ma non ne ho alcuna intenzione e dichiaro pubblicamente che in quanto prete non riconosco a Mauro Piacenza alcuna autorità su di me né morale né dottrinale e sono pronto a renderne ragione in qualsiasi sede competente. Con Piacenza fa carriera anche il suo pupillo Marco Simeon, già indagato a Perugia per lo scandalo di Propaganda Fide. Dell’uno e dell’altro, purtroppo, sentiremo parlare ancora e presto».

Conosco Piacenza, conosco Bertone e le loro carriere. Mauro Piacenza ha impiegato 25 anni di leccaggine e di asservimento a uno o più padroni e di padrone in padrone, finalmente è arrivato al club esclusivo che può eleggere il papa. Egli è il padrino di Marco Simeon, la cui figura è semplicemente orripilante. Egli andò via da Genova nel 1987, pochi giorni dopo l’arrivo del card. Giovanni Canestri che egli giudicava «di sinistra» (risate e applausi convinti!). Si trasferì a Roma e qui cominciò il lento pellegrinaggio di tessitura silenziosa e proficua: un giorno ti vendi a questo, un giorno fai il servo a quello, fai vedere che sei affidabile, offri i tuoi servigi senza riserva, metti da parte la coscienza, proteggi gli uomini giusti come Marco Simeon, stai a cuccia sulla soglia delle porte giuste, se necessario in quell’ambiente non si disdice neanche il letto profumato d’incenso, e alla fine ti ritrovi cardinale senza nemmeno accorgerti come ci sei arrivato.

Come possono costoro condannare gli omosessuali se poi li custodiscono e li usano nel segreto delle mura vaticane che esonda di travestiti? Almeno stessero zitti! Se, però, condannano, devono guardarsi prima allo specchio e solo dopo avere tolto la trave dal loro occhio, solo dopo, potrebbero pretendere, chiedendo permesso, di togliere la pagliuzza nell’occhio degli altri. Come possono presumere di dettare legge in campo sessuale, se poi sono loro stessi gli utilizzatori concomitanti e finali della pederastia, della devianza e di ogni perversione? La via sessuale è una via maestra per fare carriera e dentro il Vaticano vi è il mercato delle vacche con buona pace per la dignità della persona.

Una Chiesa sana e discepola di Cristo non avrebbe nemmeno preso in considerazione un individuo scellerato come Piacenza, così come avrebbe mandato alla Caienna il Tarcisio Bertone, uomo che non doveva nemmeno diventare prete perché è solo l’incarnazione della vacuità e del potere fine a se stesso. I cardinali Tarcisio Bertone e Mauro Piacenza con i loro affiliati e scherani, vere bande di malaffare, sono una sciagura per la Chiesa sia da un punto di vista teologico che umano. La colpa esclusiva ricade sul papa che li ha scelti o se li è lasciarti imporre da una cricca che vuole condizionare anche lo Spirito Santo.
Oggi il cardinale Mauro Piacenza, l’uomo più retrivo che io conosca, più fondamentalista dei lefebvriani, nemico acerrimo del Vaticano II, che egli ha subito come un oltraggio alla Chiesa e a cui non si è mai rassegnato. Quest’uomo, insieme a Bertone, è al centro dello scandalo che colpisce il Vaticano. Sua creatura e discepolo è il neo patriarca di Venezia: la tela del ragno clericale nefasto avanza, ma si frantumerà davanti alla Chiesa del popolo di Dio e del Vaticnao II che non cederà.

Questa Chiesa, quella delle manovre e della corruzione, può stare allegra: con questa gente non andrà lontana, ma toccherà il fondo della sentina come stiamo vedendo in questi giorni.
Si dice che il papa non governi. Per forza! Gli uomini di cui si è circondato li ha scelti lui e non un altro. Ha voluto contro la Chiesa del Vaticano II togliere la scomunica ai lefebvriani e fargli ponti d’oro? Ha voluto minimizzare le orrende immoralità dei Legionari di Cristo? Ha voluto tacere omertosamente la piaga purulenta della pedofilia? Ora non pianga e non si triste, perché è lui il vero colpevole di questo disfacimento ecclesiale. E’ lui che ha lasciato spazio alle bande, colpendo chi difendeva il Concilio e innalzando e onorando chi lo denigrava e ostacolava.

Ha voluto circondarsi di uomini sicuri, di servi attenti e premurosi e questi fanno sul serio: si cercano lo spazio per realizzare la «loro» Chiesa che non è di certo quella di Cristo, il quale in questo frangente se n’è andato alle isole Cayman per avere un alibi di ferro: non essere stato presente sulla scena del crimine nella notte del pontificato del Pastore Tedesco.
Lo yacht lo mise a disposizione il Celeste Formigoni, a cui lo ha prestato Daccò che paga di tasca sua, ma ad insaputa di tutti.
A costoro non riconosco alcuna autorità. Insegnano che lo Spirito Santo guida la Chiesa e che anche il papa è eletto per ispirazione dello Spirito Santo.
Se fosse vero quello che insegnano non si darebbero così da fare per manovrare a fare eleggere questo o quello o per condizionare il conclave a «papa ancora vivo». Costoro sono miscredenti che usano Dio e lo Spirito come un elastico per adattarlo alle loro nefandezze che ha un solo Dio: il potere, cioè la frenesia di volere imporre una chiesa a loro immagine e somiglianza di uomini falliti e per questo presuntuosi: si credono Gesù Cristo e ne sono anche convinti.
Essi sono solo la banda della Magliana con cittadinanza vaticana, ma le loro colpe non verranno mai alla luce direttamente, perché il loro ambiente naturale è il buio. Quando Giuda pensava di tradire il Maestro per appena 30 denari, l’evangelista Giovanni annota la tragedia con sole tre parole: «Ed era notte!» (Gv 13,30).

Don Paolo Farinella - parrocchia San Torpete – Genova, 31 maggio 2012

Note-
* Cfr. ALBERTO MAGGI, Le cipolle di Marta (profili evangelici), Cittadella Editrice, Assisi (2002)
* Le citazioni sono tratte da SANT’ANTONIO DI PADOVA, Sermones Dominicales (I Sermoni, edizione italiana a cura di G.Tollardo), Padova, EMP, 1996

 
Di P. Francesco D’Acquarica (del 25/01/2013 @ 00:00:00, in La Storia, linkato 3182 volte)

Cappella cimiteriale della Confraternita  della Madonna delle Grazie costruita nel 1951E’ risaputo che a Noha fino al 1850 vi erano 3 confraternite: quella del Santissimo Sacramento, quella del Rosario, e quella della Madonna delle Grazie.
Delle prime due, quella del Santissimo Sacramento e quella del Rosario, possiamo dire che  si è persa completamente la memoria; troviamo solo qualche accenno nella “Relazione per la visita pastorale del 1850” fatta dall’arciprete di allora Don Michele Alessandrelli.
Infatti a proposito della Confraternita del Sacramento così scrive:
Nella mano sinistra del Coro vi è uno stipo, nello quale il Priore della Confraternita del Sagramento tiene riposta la cera che abbisogna per le funzioni del Corpus, della terza domenica, e del S.Sepolcro: lo stesso è colorito verde oscuro, detto stipo tiene la sua serraglia e chiave.
Anche della Confraternita del Rosario è ancora l’Alessandrelli che, parlando di una statua della Madonna (ora non più esistente) spiega: di questa ha cura, e conserva gli abiti il Deputato della Confraternita del SS.mo Rosario Vitantonio Benedetto.
Della Confraternita della Madonna delle Grazie invece, che aveva la sua sede nella chiesa ottagonale detta “chiesa piccinna”,  possediamo lo Statuto.
Il manoscritto originale di questo Statuto (oggi documento molto prezioso) si conserva nell'Archivio Parrocchiale. Chi volesse consultarlo lo può trovare nel volume “Noha - Storia, Arte, leggendastampato nel 2006. E’ costituito da 50 articoli in nove capitoletti e da quel manoscritto spulciamo alcune informazioni che danno l’idea della vivacità della Confraternita attiva quasi fino ai nostri giorni. Io conservo ancora ricordi molto vivi nella memoria della mia infanzia.
Lo Statuto inizia così:
La suddetta Congregazione sotto il titolo di Maria SS.ma delle Grazie è antica ed è aggregata a quella di Maglie, che sotto lo stesso titolo si regge e vive colle stesse regole munite di Reggio Assenso nel dì 23 agosto 1777.
Le confraternite sono associazioni cristiane ancora presenti in molti paesi anche del nostro Salento. Furono fondate con lo scopo di suscitare l'aggregazione tra i fedeli, di esercitare opere di carità e di pietà e di incrementare il culto. I loro componenti conservavano lo stato laico e restavano nella vita secolare. Essi non avevano quindi l'obbligo di fare i voti o di condurre vita in comune, né di fornire il proprio patrimonio e la propria attività per la confraternita.
Per adempiere le opere cristiane e per testimoniare la fede, l’umiltà, la carità e la penitenza sentirono il bisogno di indossare un saio e non mostrarsi pubblicamente, nascondendo la propria identità e il proprio volto coprendolo con un cappuccio, annullando in tal modo completamente la propria personalità, da cui la tradizione tuttora in uso in molte congreghe.
Anche la Confraternita della Madonna delle Grazie di Noha aveva il suo abito. Nello Statuto così è descritto:
Art.39 - Nelle funzioni, processioni ed accompagnamenti funebri, i fratelli indosseranno un sacco bianco, legato ai fianchi con una fascia celeste, una mozzetta celeste; uno scudo metallico su cui è incisa l'immagine della Madonna, ed un cappuccio bianco in testa.
Art.40 - Ogni fratello custodirà in casa il proprio sacco; lo custodirà scrupolosamente, e per nessuna ragione lo farà mai indossare da altri che non sia un confratello.
A Noha abbiamo visto l’abito indossato dai soci della Confraternita fino alla morte dell’ultimo confratello, Pietro Costa (u Malampu), avvenuta alla fine del 2012. La salma è stata portata alla sepoltura con l’abito di “Confratello” come se lui stesso avesse avuto il desiderio di testimoniare sino alla fine la sua appartenenza. Ora non c’è più nessun iscritto e perciò possiamo considerare la Confraternita giuridicamente chiusa. Ricordiamo qualcuno degli ultimi confratelli, oltre a Pietro Costa, Andrea Miri, Michele Paglialunga (Pichinnanni), Nino Specchia e Gerardo Paglialonga (Pata). La popolazione li chiamava "Confratelli" perché così voleva lo Statuto e anche perché  nei confronti di questi personaggi forse nutriva un certo rispetto, se non proprio una certa ammirazione.
Il direttivo era costituito da un Priore e da due Consiglieri maggiori, oltre ad altri otto detti minori che erano: il segretario, il cassiere, due maestri di cerimonie, il sagrestano, l’organista e due revisori dei conti.
Queste persone erano elette ogni anno nella terza domenica di dicembre con votazione segreta. Potevano essere confermati solo per un secondo anno, ma il sagrestano e l’organista potevano essere riconfermati finché si riteneva opportuno. Prendevano ufficialmente possesso dell’incarico il giorno di Capodanno.
Notiamo la finezza con cui sono descritti gli impegni dei due cerimonieri e del sagrestano.
Art.9 - I maestri di Cerimonia "la cui scelta sarà fatta dal Rettore d'accordo col Priore" ordineranno e guideranno i fratelli nelle Processioni e nei funerali facendoli procedere a due a due composti e devoti. Veglieranno perchè i Fratelli stiano modesti e raccolti in chiesa per non dar motivo di dissipazioni e di scandalo ai circostanti.
Art.10 - Il Sacrestano suonerà la campana al solito, terrà pulita la chiesa, conserverà con cura e diligenza i paramenti ed i vasi sacri, accomoderà le lampade, non farà entrare persone estranee durante le adunanze, farà insomma tutte quelle cose concernenti il suo ufficio.
L’articolo 13 ricorda che oltre a questi incarichi c’erano anche due commissioni formate da quattro membri ciascuna. Una aveva il compito di discutere l’ammissione o meno di nuovi iscritti e l’altra di discutere quali multe applicare nei singoli casi necessari.
Pur essendo una associazione laicale aveva un Rettore Spirituale che era un Sacerdote scelto e proposto dal Direttivo, nominato a voti segreti dalla Confraternita riunita in maggioranza e approvato dal Vescovo. L’ultimo Rettore Spirituale è stato Don Gerardo Rizzo (1924+2007). Lo Statuto precisa quale erano le funzioni che di solito doveva compiere, e cioè:
- Celebrare la Messa in tutte le domeniche e festività dell’anno
- Cantare la Messa nel funerale di un socio defunto
- Celebrare due messe mensili per tutti gli iscritti vivi e defunti
- Cantare la messa funebre il primo giorno dopo l'ottava dei morti, in suffragio dei fratelli e sorelle defunte
- Fare la pia pratica della Via Crucis durante i venerdì di quaresima
- Fare la processione del Cristo Morto la sera del Venerdì Santo e quella della protettrice a settembre.
- Fare la funzione per l’ammissione dei fratelli in 4 festività della S.S.Vergine, e cioè: il 2 Febbraio, il 25 Marzo, l'8 Settembre e l'8 Dicembre
- Curare che si celebrino al più presto le messe per i confratelli defunti
- Fare quelle altre funzioni che crederà più opportune (sempre lo Statuto) per l'incremento della pietà dei fratelli, purché però queste funzioni non siano di diritto parrocchiale, o non impediscano quelle parrocchiali. Nel dubbio se le funzioni nuocciano al ministero parrocchiale, spetta all'ordinario diocesano decidere e stabilire le norme pratiche da seguirsi.
Per essere ammessi alla Confraternita erano richieste alcune caratteristiche:
- età minima di anni 15
- una condotta cristiana
- fare domanda al Priore
- avere il consenso dei genitori se si trattava di uno minore di anni 21.
Le norme di comportamento sono chiarite negli articoli 22/23. Li rileggiamo perché ci aiutano a capire l’impostazione educativa e cristiana che si intendeva dare ai soci.
Art.22 - Tutti i fratelli assisteranno alle funzioni che si terranno in congregazione, entrando nella quale faranno un tantino di orazione all'altare, e quindi siederanno al proprio posto. Si ameranno e correggeranno scambievolmente, fuggiranno le cattive pratiche, le male abitudini, le mormorazioni, le liti, i dispetti, i rancori; eviteranno il più che si può la frequenza delle bettole, le ubriachezze, ecc.
Art.23 - Tutti i fratelli sono tenuti ad intervenire alla riunione mensile(ordinaria) nelle ore pomeridiane di ogni terza Domenica del mese (ad eccezione nei mesi luglio, agosto, settembre). Chi manca abitualmente a queste riunioni sopporterà quella pena che il Priore crederà infliggergli.
Si poteva anche essere puniti, di solito con ammende in denaro, o anche espulsi dalla Confraternita per il cattivo esempio. A proposito degli espulsi è scritto:
Art.36 - Saranno espulsi: tutti coloro che, lungi dal serbare una condotta lodevole, s'immergono in ubriachezze ed immoralità; coloro che resistono alle correzioni, e si rendono insubordinati ai superiori; tutti coloro che non hanno pagato le multe in cui sono incorsi, nello spazio di due mesi; e coloro che hanno ritardato il pagamento della quota annuale per sei mesi. In questi casi però ci sarà sempre l'avviso per iscritto fatto almeno 10 giorni prima.
Anche le donne, che in Congrega erano chiamate “Sorelle”,  potevano essere ammesse con gli stessi diritti e doveri, ma non avevano voce né attiva e né passiva, e potevano essere espulse per gli stessi motivi degli uomini.
Oggi a Noha non c’è più nessuna Confraternita. Solo nel camposanto c’è la cappella che ospita confratelli e consorelle defunti. Sicuramente a suo tempo le Confraternite hanno fatto del bene alla gente di Noha. Se nel 1850 tre Confraternite erano attive significa che più o meno tutto il paese ne era coinvolto.
Oggi non è più così.
E’ vero che i tempi sono cambiati, ma forse anche lo spirito cristiano è venuto meno. Le speranze sono tante, ma anche i problemi rimangono aggravati da modelli di vita lontani dall’etica cristiana.
E’ risaputo che purtroppo oggi si privilegiano situazioni di potere oppressivo, concetti capitalistici disumani, sfruttamento del lavoro, egoismi personali e collettivi con spinte irrazionali di auto affermazione a qualsiasi condizione, quindi arrivismi, spesso prevaricazioni, talvolta sopraffazioni e comportamenti malavitosi. Sembra che l’unico intento sia quello di conseguire profitti sempre e comunque, successi materialistici ed effimeri, soddisfazioni edonistiche, anche a costo di venire a patti con la coscienza e la dignità delle persone.
L’ultimo articolo dello Statuto proclama:
Art.50 - Speriamo che queste regole siano sufficienti, con l'aiuto divino, non solo a stabilire questa confraternita, ma a farla progredire ed aumentare sempre più per la maggior gloria di Dio e della B. V. delle Grazie, e pel vantaggio spirituale e temporale di tutti gli ascritti. Così sia.
Lasciamo perdere la prima parte di questo articolo dove si augura che "queste regole siano sufficienti non solo a stabilire questa confraternita ma a farla progredire sempre più". Però, visto che siamo quasi tutti battezzati un po’ più di spirito cristiano non guasterebbe.

P.Francesco D’Acquarica

 
Di Antonio Mellone (del 07/06/2021 @ 00:00:00, in NohaBlog, linkato 1202 volte)

Nella mia vita ho conosciuto un bel po’ di pazzi, ma mai uno lucido come P. Francesco D’Acquarica. Ormai ci conosciamo da diversi lustri e la sua follia principale (che invero ci accomuna) è Noha. Oddio, lui ha iniziato per primo quando io non avevo ancora diciamo il lume della ragione, ma certe malattie – dovremmo averlo ormai ben compreso - fanno presto a trasformarsi in epidemie.

Tutto partì allorché questo ragazzo - classe 1935, e oggi 7 giugno compie 86 anni - trovò per caso nella sacrestia della nostra chiesa madre un libretto di tal prof. Gianferrante Tanzi edito nel 1906, nel quale si raccontava di una Noha ricca di storia e di vestigia importanti e non certo di un insignificante agglomerato di case con un nome strano, come qualche politico locale dalle lenti un po’ appannate aveva cercato di far passare insieme al suo codazzo, probabilmente pure in mala fede.

Francesco D’Acquarica dunque non si dà per vinto, e da visionario qual è (non per nulla è anche un missionario), quando torna a Noha dai suoi giri intorno al mondo continua a cercare notizie, documenti d’archivio, testimonianze, reperti archeologici, ma soprattutto i sentimenti costitutivi dell’identità nohana e quindi del suo genius loci: mai arrendendosi di fronte a una certa sociologia spicciola, anzi se possibile con ancora più slancio davanti al rischio di derisione e quindi di pregiudizio così comuni in ambienti delimitati da confini provinciali.

V’è da dire che questo Indiana Jones nostrano ogni volta che becca qualcosa di interessante non tiene mica tutto per sé, ma anzi, guardandoti con l’espressione soddisfatta di un virologo che ha appena individuato al microscopio un nuovo ceppo dell’influenza, non vede l’ora di tradurre, riportarne agli altri il contenuto, scrivere un pezzo per Noha.it, e pubblicare finalmente il suo bottino su carta rilegata a libro o a rivista (per esempio su L’Osservatore Nohano di venerata memoria). E così è stato per le ultime notizie e le curiosità contenute negli archivi parrocchiali, per i registri delle confraternite, per i rapporti della chiesa particolare con i vescovi di Nardò, e per mille altre notizie, proverbi, quadri, cronache, sculture, personaggi, monumenti, spartiti musicali (tipo quello dell’Inno al San Michele di Noha, poi arrangiato dallo stesso P. Francesco che è pure organista), i soprannomi delle “razze” nohane, gli antichi utensili paesani utilizzati si può dire fino all’altro giorno, e così via.    

Iniziò una cinquantina di anni fa con la sua prima Storia di Noha (Grafiche Borgia, Casarano, 1973) andata a ruba, e in pratica non si è mai più fermato.

L’ultima sua creatura in ordine di tempo è “Noha – la sua Storia”, libro a tiratura limitata, ancora caldo di stampa, uscito dai torchi di Arti Grafiche Marino di Lecce: un tomo di 490 pagine, con molte immagini a colori, giuntomi qualche giorno fa da Martina Franca, attuale dimora dell’autore, e con tanto di dedica: “Omaggio al carissimo Antonio Mellone, in occasione del mio sessantesimo anniversario di Sacerdozio, per avermi sempre stimolato nelle ricerche e approfondimenti della Storia di Noha”. Troppa grazia. Ebbene sì, il 18 marzo 2021 ricorreva anche il sessantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale, e non so se è chiaro: è il festeggiato che anziché ricevere auguri e doni per l’occasione, continua a elargirne agli altri a piene mani.

Non so come faccia questo giovinotto a non stancarsi mai, forse utilizza il trucco analogo a quello di Dorian Gray, facendo invecchiare un quadro (o tutto il resto) al posto suo. Sta di fatto che la pazzia di P. Francesco è ormai proverbiale, di più, leggendaria: del resto abbiamo già dimostrato nel nostro comune volume “Noha, Storia Arte e leggenda” del 2006 (pubblicato esattamente un secolo dopo il pamphlet del Tanzi), quanto il mito, la narrativa e appunto la leggenda altro non siano che la prosecuzione della storiografia con altri mezzi.

Antonio Mellone

 

Canto notturno di un pastore ...

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