giu162018
“Lento all’ira e grande nell’amore”, era il verso di un salmo responsoriale (allora non sapevo fosse a cura del re Davide) che da giovane imberbe chierichetto ero chiamato a leggere, guarda un po’, nei matrimoni, subito dopo la prima lettura che in genere era di spettanza della sempre commossa sposa.
E “Lento all’ira” (“grande nell’amore” è sottinteso) è l’ultimo lavoro letterario del mio amico Alessandro Romano (edizioni Esperidi, Monteroni di Lecce, 2017).
Per come l’ho visto io, “Lento all’ira” (ma veloce nella lettura: 123 pagine, note dell'autore incluse) non è la semplice opera romantica di un viaggio nella storia e nella geografia della terra nostra, e dunque non necessariamente la ricerca delle radici, del diritto di cittadinanza, delle tradizioni e della cultura della terra che fu dei Messapi; sì, ci sta anche tutto questo per carità (e addirittura ancora una volta – che goduria – anche la leggenda trasposta di Cosimo Mariano da Noha e le sue Casiceddhre che stavolta sono la riproduzione in miniatura di Masseria Tridente), ma qui siamo di fronte al dialogo profondo tra Leonida Karydis, archeologo alla Schliemann (quello della città di Troia e delle altre civiltà sepolte) e il buon Donato Zappo (un cognome che è anche voce del verbo).
Questo dialogo, che avviene anche attraverso la lettura del diario dello Zappo, è il vero scavo archeologico nelle viscere di un’anima lenta all’ira per formazione, e grande nell’amore per indole. Spesso Donato Zappo finisce per essere lo specchio nel quale si riflette l’archeologo ricercatore venuto dalla Grecia dei miti, sicché Zappo e Karydis sono alla fin fine due personaggi in cerca del loro autore.
Così, pagina concettosa dopo pagina concettosa, realizzi che gli ingredienti indispensabili per una vera grande Rivoluzione non sono mai il furore o peggio ancora l’odio, bensì i loro antonimi, vale a dire la virtù dei forti non disgiunta dall’amore che, si sa, è causa efficiente che “move il sole e l’altre stelle”.
Queste e non altre sono le condizioni necessarie e sufficienti per fronteggiare i vari baroni Arciero di ieri e di oggi, epigoni del capitalismo che continua a rapinare Salento e dintorni, idolatri del plusvalore che da sempre è un furto, vassalli di un neo-feudalesimo più oscurantista che pria, spalmatori di multistrati di cemento e asfalto, importatori di tubi e di fonti fossili (come il gas azero), sicari del diritto di parola contraria, estensori di fogli di via, comminatori di multe prefettizie, giornalisti da passeggio, e dunque registi attori e comparse della trasformazione della nostra terra antica e bella in una scena del delitto.
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Dio solo sa quanto vorrei che per una volta sola non scrivessi una recensione elogiativa dei libri di Alessandro Romano, ma una stroncatura bell’e buona, un po’ come a suo tempo Umberto Eco ne scrisse sul conto di Ken Follet (“Oggi ho riscritto il capolavoro del Manzoni affinché la generazione più giovane non si annoi leggendo le sciatterie nanesche come quelle di Ken Follet”); e parimenti quanto mi piacerebbe che Alessandro Romano mi rispondesse per le rime come Ken Follet fece a sua volta con Umberto Eco (“A Eco preferisco Dan Brown”).
E questo non solo in termini di copie vendute (cinquanta milioni “Il nome della rosa”, per dire, e quindici milioni “I pilastri della terra”) ma perché mi accontenterei di essere l’ultimo tra gli scrittori, piuttosto che – come vado vieppiù convincendomi - il penultimo degli scriventi.
Antonio Mellone
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