Checché se ne dica in giro e nonostante i correnti festeggiamenti d’ordinanza, Dante Alighieri non è scomparso dalla circolazione settecento anni fa.
Vero è che ci han provato in tutti i modi - a farlo fuori, dico - ma il tipo è duro a morire.
Ultimamente ce la stiamo mettendo tutta (riuscendoci senza tante difficoltà) non solo a botte di incendi alla selva oscura e al giardino dell’Eden, ma anche con il politically correct, la satira degradata a barzelletta, l’ideologia imperante che non prevede l’uso del No ma solo teste in continua annuenza, l’illusionismo dello sport (tipo calcio e olimpiadi: il famoso oro alla patria), l’eclissi di pensatori, intellettuali e filosofi in grado di immaginare un’alternativa al solito andazzo, l’ostracismo nei confronti di chi osi formulare un pensiero autonomo, la criminalizzazione del dubbioso, del disubbidiente e (dio ce ne scampi e liberi) addirittura del critico di tecnici, comitati, competenti e migliori, spesso autori dei più leggendari fiaschi della storia.
Si sa che l’Alighieri non aveva peli sulla lingua e non le mandava a dire, tanto che (semplifico) fu costretto a svignarsela in esilio per sottrarsi a una condanna a morte causata dalle sue idee politiche. Per la cronaca codesta condanna rimase diciamo in vigore fino al 2008, allorché il consiglio comunale di Firenze, bontà sua, pur con qualche secolo di ritardo, gliela revocò.
È inutile qui riaffermare quanto Dante fosse poco o punto incline al Dolce stil novo quando aveva da mandare al diavolo qualcuno: le sue invettive sono ormai proverbiali e ne sparpagliò a bizzeffe in molti suoi scritti, inclusa dunque la Commedia. Chi non ricorda quella contro la “serva Italia di dolore ostello”, il violento attacco nei confronti di Pisa e dei pisani “vituperio delle genti”, e la filippica addosso ai genovesi “d’ogne costume e pien d’ogne magagna”; per non parlare di critiche e atti d’accusa verso papi, ordini monastici, personaggi politici, e le sempre numerose pecore in gregge, ammassate, credule e imbelli nella (vana) attesa di una qualche immunità.
Ed eccovi allora un brano dell’Inferno - il canto XXXIII per la precisione - girato nel perimetro delle mura del Castello di Noha: è quello nel quale il Poeta fa raccontare al conte Ugolino della Gherardesca la sua tragica storia, quella della morte per fame prima dei suoi figli e poscia sua, avvenute nell’antica torre della Muda. In questo pezzo sentirete parlare di tradimento (il peccato più grave in assoluto) e di traditori, e quindi di accuse, incriminazioni e sfuriate.
Ora non vorrei, dal mio canto, aver assestato il colpo di grazia all’ancor vivo ghibellin fuggiasco; voi, dal vostro, siate indulgenti con me, evitando per una volta di spedirmi all’inferno.