set012018
Premetto che adoro la Notte della Taranta. Il sistema dei concerti a ragnatela nei diversi paesi del Salento. La iatrodanza e la iatromusica, la contaminazione, la ricerca e la sperimentazione di nuovi linguaggi musicali, gli artisti nostrani, e i “forestieri” che si cimentano con il dialetto della mia terra. E ammiro tutto il lavoro di organizzazione che ci sta dietro.
La seguo fin dagli esordi, quando i concerti melpignanesi si tenevano in piazza San Giorgio all’ombra della chiesa madre. E mi auguro di poter continuare a farlo in futuro.
A dirla tutta, negli ultimi tre o quattro anni - sarà per via dell’età -, assisto alle prove il giorno prima della prima, cioè il venerdì che precede il Concertone: lo spettacolo inizia a un orario ragionevole, non termina il giorno dopo, non trovo chissà quale confusione, e riesco ad arrivare fin sotto lo stupendo palcoscenico senza alcun rischio di agorafobia.
Insomma siamo in pochi intimi, vale a dire i soliti 30/40.000 spettatori (più o meno un terzo rispetto a quelli dell’indomani).
Premetto ancora che anche questa volta ho ascoltato e visto tutto fino alla fine, e l’ho trovato sublime. Durante le esibizioni ho pure suonato il mio tamburello - ma non ballato onde evitare di fare la figura di un ulivo colpito da Co.di.ro [per la cronaca io ballo da solo, quando non mi vede nessuno. Vabbè, ho pure frequentato un corso di Latino-Americano ma ho imparato solo il latino; ma questa è un’altra storia, ndr.].
ago262018
Certe volte il mio amico Dino mi mette in difficoltà. Lui, attento osservatore, ricorda tutto, i nomi delle persone, i loro gradi di parentela, la sequenza dei fatti del tempo che fu e molto altro ancora.
Io no, ma ogni tanto ci provo.
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Dino, vale a dire Gerardo Paglialonga, è un anno più piccolo di me, ma abbiamo frequentato le stesse scuole e dunque condiviso alcuni insegnanti.
I suoi genitori erano troppo giusti, proprio dei bravi cristiani: Michelino (Pichinnànni), sempre gioviale, amico di mio padre, aveva costruito casa mia e quella di molti nohani; sua mamma, la Mimì, se n’era improvvisamente volata sulle nuvole molto prima di suo marito, quando Dino frequentava ancora le elementari.
Ricordo come fosse ieri il giorno in cui a Noha, per l’ultimo saluto alla povera Mimì, piansero pure le pietre.
Il dì dei funerali io avevo la febbre alta. Il termometro non voleva saperne di scendere al di sotto dei 40°. Per la debolezza non ce la feci nemmeno ad affacciarmi per vedere il corteo con tutti i compagni di classe che sfilavano proprio sotto la finestra della camera da letto dei miei dov’ero, nel talamo, ospite temporaneo. In quel pomeriggio con me c’era solo mio padre. Mia madre, invece, non mancò alle esequie della sua amica. Passato il feretro, e le salmodianti preghiere del parroco, mio papà si voltò verso di me e mi toccò la fronte scottante senza dire nulla. Mi accorsi che più di una lacrima aveva imperlato i suoi occhi rigandogli poi il viso.
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ago042018
Il vocabolario d’italiano della mia famiglia non contemplava il lemma “vacanza”: che invece credeva fosse (e crede tuttora sia) arabo.
Sicché, come detto altrove, nell’infausto mese di giugno da noi iniziava la Raccolta Del Tabacco e sul tema non erano previsti margini per chissà quali speculazioni filosofiche da parte di uno sbarbatello come il sottoscritto che prima di diventare un No-Tap era giustamente un No-Tab (Tab = tabacco).
Si partiva senza indugio con il frunzone, cioè le prime foglie in basso, quelle che toccavano terra, le peggiori, le più infide. Io raccoglievo ginocchioni queste benedette foglie, strisciando nella polvere della dura gleba manco fossi un devoto pellegrino genuflesso in uno dei santuari del Prodotto Interno Lourdes (Pil).
Avevo le ginocchiere a quei pantaloni inguardabili di due taglie più grandi. Nel frattempo ogni foglia strappata alla pianta era un’imprecazione dentro di me e una fervida preghiera a Zeus, dio del fulmine, affinché benigno scagliasse su quelle piantagioni la più portentosa delle sue sajette. Credo di essere stato uno dei precursori, se non proprio l’inventore, della Giornata Mondiale Senza il Tabacco che tanto successo riscuote oggi in ogni angolo della terra.
La raccolta avveniva la mattina presto prima del canto del gallo. Per dirvi il livello di disperazione ero arrivato a invidiare perfino quello stupido pollastro che, per quanto stupido, aveva comunque il privilegio di svegliarsi dopo di me. E voi non potete nemmeno immaginare il groviglio dei miei pensieri all’indirizzo dei suoi avi defunti.
Si lavorava dunque al lume di luna e stelle: e io mi sentivo alternativamente un po’ Giacomo Leopardi pervaso dal pessimismo cosmico, a tratti un licantropo (il famoso lupo mannaro americano a Noha), e talvolta un vampiro ormai terrorizzato dalla luce del sole.
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Il tabacco si cuciva con l’acudeddhra, un ago lungo trenta o quaranta centimetri. Quest’aculeo d’acciaio, venduto anzi spacciato dagli zingari al mercato del giovedì di Galatina, presentava una cruna dove si infilava lo spago di circa un metro di lunghezza. Io da quella cruna m’aspettavo di veder passare tranquillamente un cammello, piuttosto che il ricco di turno - che si stava viepiù arricchendo anche grazie al mio indefesso lavoro - entrasse nel regno dei cieli.
Quando si riempiva la filza si staccava dall’ago e, doppiandola, la si parcheggiava di fianco insieme a tutte le altre. C’era anche una sorta di gara fra poveri cristi su chi ne sfornasse di più. Anni dopo all’università appresi che questa abiezione si chiama produttività, ovvero asserto di Kunta Kinte (quest’ultimo enunciato è copyright del sottoscritto).
lug272018
Finalmente, come ogni outing che si rispetti, ho trovato il coraggio di confessarlo al mondo intero: ebbene, quando ero piccolo, i miei coltivavano il tabacco e io con loro.
Sapete, l’infanzia è come certe pietanze che pensi tu abbia digerito ma quando meno te l’aspetti tornano su.
In genere si dice che la puerizia sia il periodo più bello della nostra vita. Sì, va bene, io ne ho avuto una sostanzialmente tranquilla, due ottimi genitori, e la tragedia non è mai andata al di là di uno scappellotto altrimenti detto mappina.
Ebbene, io credo che non esista età più disperata, terribile e disgraziata di quella in cui la tua occupazione principale è quella di provare a diventare un uomo: qualsiasi cosa tu faccia spontaneamente non è mai quella giusta, e devi dipendere di continuo dal giudizio, dalle prescrizioni e dagli orari degli altri (anche se questi altri ti amano alla follia).
Se poi a questa infanzia, già di per sé drammatica, tu ci aggiungi pure il tabacco capite il livello di crudeltà.
Insomma, odiavo con tutto il cuore la coltura fumogena del tabacco: che non rientrava punto nei miei orizzonti lavorativi, non dico come impiego ma nemmeno come ripiego.
Meno male che allora non esisteva il Telefono Azzurro, altrimenti ne avrei intasato le linee con le mie continue richieste di aiuto. Certo, non avrei nemmeno saputo come fare visto che non possedevo né un telefonino portatile (che era ancora in mente dei), e nemmeno quello fisso di casa, che arrivò intra-moenia qualche decennio più tardi. Per farvi comprendere il contesto, e visto che siamo in tema di Outing, aggiungo che in quel periodo avevo pure una zita di Bolzano, una ragazza bellissima conosciuta al mare. Ci scrivevamo lunghe lettere. Eh sì, altri tempi. Tempi d’attesa, dico. Sicché il postino non fece in tempo a recapitarmi l’ultima lettera in cui la mia adorata asseriva di amarmi alla follia, che la medesima era già bellamente convolata a nozze. Oltretutto felici.
Ma cerchiamo di ritornare sui filari ché le divagazioni potrebbero portarci fuori dai semenzai.
La coltivazione di codesto maledetto tabacco aveva inizio in pieno inverno, durante il mese di febbraio. Si iniziava con le ruddhre (i semenzai, appunto), che spesso erano ricoperte da un telo onde evitare che le gelate potessero colpirne le piantine. Io, fra tutti gli dei dell’Olimpo, pregavo con particolare zelo il loro capo Zeus affinché su quelle ruddhre scagliasse il suo fulmine: che da noi si chiamava sajetta.
lug222018
Non c’era il bisogno di essere i soliti maligni ovvero complottisti per capire che il sopralluogo comune effettuato nel Salento il 19 luglio scorso dal “nuovo” ministro dell’agricoltura Centinaio (ideal-tipo Calenda: ma li fanno con lo stampino?) avrebbe portato al nulla cosmico o alternativamente al tutto comico.
Certo, a leggere i titoli tossici e i cloni delle cronache dei Diciamo Giornalisti glocal - che più che sulla tastiera talvolta sembra battano sul marciapiede - la visita del brillante ospite leghista è stata tutta un susseguirsi di incontrovertibili trionfi.
Il novello Alberto da Giussano (che detto tra noi pare non sia mai esistito), lancia in resta, elmo in capo e petto in fuori, s’è messo in testa, e non c’è verso di smuoverlo, di debellare la Xylella Fastidiosa a tutti i costi: fosse anche con un bel decretino Martina-bis (cioè con eradicazioni anche di alberi incolumi nel raggio di 100 metri al quadrato per Pi Greca e pesticidi a gogò), e la possibilità, ovviamente, di reimpianti di Favolosa, un cespuglio che osano chiamare ulivo e che sta alla Puglia come il pecorino sulle cartellate.
Qualcuno dei piccoli scrivani salentini, evidentemente con l’ausilio di un apparato digitale strettamente connesso all’apparato intestinale – specialmente nel tratto finale - senza il bisogno di transitare (postulando la sua presenza) da quello encefalico, ha scritto che il ministro “ha le idee molto chiare” [sic] ed è “venuto in Puglia per rendersi conto direttamente dei danni provocati dall'infezione”. Povera stella, anzi cinque.
lug082018
Il fatto che i vari tg Orba, le mezze gazzette quotidiane e i leoni da betoniera si siano schierati a tastiere unificate come un plotone di esecuzione nei confronti di un articolo di Petra Reski, nel quale si evidenziano legittimi dubbi in merito a come sia stato finora gestito l’affaire Xylella, la dice lunga su quanto abbia ragione da vendere la giornalista e scrittrice tedesca, amica del Salento, mia e soprattutto della verità.
Per la sua attività letteraria e giornalistica, Petra ha ricevuto numerosi premi e candidature internazionali, e ovviamente querele. Queste ultime, provenendo quasi sempre dai mammasantissima dei più svariati settori (mai dagli esponenti del popolo), per chi scrive in buona fede e non sotto dettatura di padroni o in ascolto della voce del padrino sono da considerarsi veri e propri trofei, medaglie al valore, attestati di benemerenza di gran lunga più importanti di un Pulitzer. Cosa non si fa per sigillare la bocca con un bavaglio, sfilare la penna di mano, tentare di schermare la brillantezza della ragione e della perspicuità, colpirne un paio per educarne centocinquanta.
Nella foto scattata con il mio telefonino nel mese di maggio di quest’anno, Petra Reski è a Noha in piazza San Michele. Era di passaggio insieme a Francesco Zizola, antropologo e fotografo, anch’egli pluripremiato in tutto il mondo per i suoi reportage, di ritorno da un lungo tour in tutta la Puglia per un’inchiesta sugli ulivi nel corso della quale i due corrispondenti hanno posto domande a tutti, dagli scienziati agli agricoltori, dalle associazioni di categoria ai politici, ai comitati di cittadini liberi e pensanti. Petra e Francesco, poi, accompagnati da Anita, han voluto conoscere la storia di mio padre neo-novantacinquenne, contadino da sempre, e visitare il suo appezzamento di terreno. Per dire della loro capacità di ascolto a tutti i livelli.
set032017
Non è mai stata mia intenzione di pontificare sulle sorti sempre magnifiche e progressive dell’Italia intera (poveretta). Nelle mie modeste note sfregate sulla carta (viepiù virtuale), mi son limitato a qualche denuncia concernente le cose di casa nostra (e talvolta di Cosa Nostra), che molti finti tonti locali han sempre considerato come la topica filippica a firma del sottoscritto cui non dare seguito alcuno (e dimostrando così quanto superfluo fosse quel “finti”).
Confesso subito che spesso ho dovuto contare fino a cento prima di vergare certe chiose che avrebbero rischiato altrimenti di essere composte soltanto da espressioni indistinguibili da quelle proferite da uno scaricatore di porto infuriato formate da improperi, invettive e 'castime' tra le più triviali (benché il mio idioma aborra certi scurrili frasari).
E’ che non ce la faccio proprio a bendarmi gli occhi, turarmi le orecchie, imbavagliarmi la bocca, incerottarmi le dita e stravaccarmi sopra un divano (che tra l’altro non possiedo: sarebbe del tutto inutile a casa mia), come invece usano fare molti nohani e altrettanti loro compari di merende galatinesi.
Prendiamo, ad esempio, la torre dell’orologio di Noha.
Ebbene, mi son consumato le dita su questa tastiera per certificare l’estremo degrado in cui versa da diversi lustri codesta specie di torre di Pisa - o meglio degli asinelli (in minuscolo) - oltre al mancato rispetto delle più elementari condizioni di sicurezza.
Quel complesso monumentale si regge ancor oggi quasi per quotidiano miracolo, mentre le stanze ubicate al primo piano - la casa comunale del tempo che fu - sembrano essersi trasformate in un ricettacolo degno di una torre colombaia. Vi lascio immaginare il sudiciume, l’aria mefitica, l’olezzo pestilenziale che si sprigiona da codesto novello B.&B. per topi e piccioni stanziali più che viaggiatori, tanto che davvero non si ha più il coraggio di pensare a cosa possa nascondersi sotto il primo corposo strato di guano, altrimenti detto merda.
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A proposito di effluvi immondi, c’è da ricordare che intorno alla torre civica e all’orologio pubblico nohani sono state condotte intere campagne elettorali.
ago262017
Preambolo. Sappiamo dalle medie che il mitologico Cariddi era un enorme mostro marino simile a una lampreda, con una gigantesca bocca piena di varie file di denti e una voracità infinita. Cariddi risucchiava l'acqua del mare per poi risputarla con forza, creando enormi vortici che provocavano naufragi alle navi in transito nello stretto di Messina (cfr. Wikipedia).
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Con molte probabilità questa premessa non c’entra un bel nulla con quanto segue. Solo che, come diceva quel tale, “nomina sunt consequentia rerum”. E a volte anche i cognomi.
Cariddi – quando si dice la combinazione - è anche il cognome di Pierpaolo, novello sindaco di Otranto, fresco di suffragi, fratello del predecessore Luciano. Mica potevano gli otrantini cercare un’alternativa. Nossignore. Non ci pensate nemmeno. Cariddi forever. Un cognome, una garanzia. Del resto la lista cosiddetta civica che l’ha supportato è la famosa “Otranto non si ferma” [in effetti sarebbe davvero un bel peccato fermare la corsa di un territorio verso il suo baratro, ndr.].
Dunque, sembra che tra il prima e il dopo non vi sia alcuna soluzione di continuità, ma una sublime e costante ricapitolazione.
Tutto in famiglia, dite? Embè? Lo vuole la democrazia, lo vuole Otranto e soprattutto lo vuole l’Europa.
Certo, ora non conosciamo di preciso i contorni delle diciamo politiche di codesto Cariddi Due fresco di giuramento addirittura sulla Costituzione. Ma, sapete, il buongiorno si vede dalla notte precedente, e soprattutto buon sangue non mente.
Per la cronaca, e salvo smentite dell’ultima ora, Cariddi Uno era il sindaco dell’esultanza per il nuovo porto turistico di Otranto da “cantierizzare” as soon as possible, nonché l’amministratore a favore del gasdotto Poseidon – una specie di TAP 2, la vendetta - e, visto che c’eravamo, anche il primo cittadino pronto a benedire il Twiga, vale a dire lo stabilimento balneare briatoregno extra-lusso ed extra-large [cinque stelle su cinque ettari: una stella per ettaro, insomma, ndr.], di cui Cariddi Due era – ma guarda un po’ - progettista e direttore dei lavori.
Ci mancava giusto un ok di massima idruntino anche al ponte sullo stretto [quello tra Scilla e Cariddi, per dire, ndr.] e avrebbero completato il secondo sacco di Otranto, dopo il primo del 1480 per mano dei turchi.
ago182017
Figurarsi se, con tutto quel che di meglio ci sarebbe da leggere, possa io mettermi pure a dare uno sguardo al ‘Pompiere della Sera’ ovvero ‘Corriere della Serva’, come lo definiva quel tale, con l’inserto ‘Corriere del Mezzo-Scuorno (anzi tutto)’, come modestamente lo definisco io.
E’ che un mio amico milanese (che stava per esser annoverato nella categoria degli ex-amici) aveva il ghiribizzo di acquistare questo Diciamo Giornale, nel corso delle sue vacanze salentine.
Si sa che spesso in vacanza ci va pure il cervello e si fanno cose futili, irrecuperabili, diversamente intelligenti, roba da accendere ipoteche sui neuroni superstiti, e questo capitava impietosamente anche all’amico caro (che rischiava dunque di diventare estinto).
Mi sgolavo: “Ma compra piuttosto, che so io, ‘Novella 2000’ o tutt’al più ‘Chi’! (t’ha morto - era sottinteso): sono più formativi di queste deiezioni sfregate sulla carta”.
E niente. Ci ha impiegato qualche giorno, ma alla fine credo (spero) abbia capito. “Anche perché – gli ho detto – il Corriere e gli altri giornaletti, li leggono ormai quei quattro sfigati (sempre troppo numerosi, purtuttavia) che vanno a fare la spesa nei supermercati e nei centri commerciali anche di domenica e nelle feste comandate, ferragosto incluso”.
Insomma, senza perderci troppo in chiacchiere, un dì visto che ormai la corbelleria l’aveva fatta - cioè quella di buttar via i soldi per l’acquisto del suddetto Corriere - usandomi violenza psicologica ho voluto dare un’occhiata di insieme al contenuto di quei lunghi veli resistenti e morbidi buoni per la differenziata, così, per avere la conferma di quel che ho sempre pensato di certi “giornali” e quindi di certi “giornalisti” (virgolette obbligatorie): vale a dire che se dalla maggior parte dei quotidiani italiani togli bave e popò (o pupù) ci rimane giusto la carta.