apr242012
Lo spread sale il giorno prima e scende il giorno dopo. Su e giù, va lo spread. Spread! Sentite che bella parola, come rimbalza sul palato, lo solletica, accarezza gli incisivi e poi vien fuori, come una condanna. Questa crisi ci ha condannato allo spread, a sentircelo rimbalzare tutto il giorno nei timpani. Tant’è che per strada non siamo più abituati a darci il buon giorno, ma piuttosto chiediamo “come va lo spread?”. “Bene, bene. Oggi siamo in discesa!”, risponde l’altro entusiasta, oppure come nel selvaggio west potremmo essere crivellati dai “Bund, BTp, BoT, CTz, CcT”.
Penserete ora che ce l’abbia con lo spread, che non mi stia tanto simpatico. Vi sbagliate: amo lo spread, o meglio gioisco all’idea che gli economisti siano riusciti ad imbucare nel vocabolario della lingua italiana un'altra parolina inglese. Welfare, business, marketing, stock e ora spread. Dobbiamo convincerci una volta per tutte che fortunatamente non esistono più barriere che impediscono l’accesso alla comunicazione tra gli individui: abbiamo i mezzi (internet e i social network) e una lingua (l’inglese, appunto) che ci permettono di essere costantemente aggiornati su quello che succede nel mondo, di affermare le proprie idee e quindi partecipare ai cambiamenti in maniera attiva. Come scriveva Claudia Galimberti sul Sole24ore “Accogliere parole straniere nell’uso quotidiano è un sintomo di tolleranza, oltre che un modo di partecipare al processo di globalizzazione in atto. La lingua è un organismo vivo, e non può restare chiuso in se stesso”.
Tuttavia ogni paese ha una propria lingua non a caso: una lingua non è soltanto uno strumento di comunicazione, ma è anche e soprattutto uno stendardo della cultura, della tradizione e dell’identità del popolo a cui appartiene. Nella bellezza e complessità della propria lingua si rispecchia ogni civiltà ed è inammissibile che questo tesoro linguistico vada perduto per una mera questione di “servilismo linguistico”. “Il nostro è un Paese – scrive Dacia Maraini sul Corriere della Sera ─ che ama e cura poco la propria lingua. Lo si capisce dalla scarsa propensione alla lettura, dalla prontezza con cui la calpestiamo sotto i piedi, la denigriamo e la imbastardiamo”.
Difatti, sempre più di frequente si ricorre ad un uso improprio del gergo della tecnologia, mettiamo la “s” plurale quando trasportiamo questi lemmi nella lingua italiana, italianizziamo alcune parole inglesi (m’è capitato di sentire qualcuno dire “la nostra azienda è skillata su …”), decidiamo di tenere in lingua inglese i corsi di laurea di un’intera Facoltà di un’Università statale italiana, senza dare la possibilità al libero cittadino italiano che paga le tasse di scegliere o meno se entrare in un contesto internazionale.
Permettetemi di concludere questo mio intervento facendo ancora una volta ricorso alle significative parole della Maraini: “Cerchiamo di investire su una migliore conoscenza e pratica dell’italiano. Da lì ci verrà la forza per affrontare e imparare le lingue straniere, fuori da ogni servilismo linguistico”.
Michele Stursi
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