Non ho mai visto un cartello per cantiere di lavori pubblici più esilarante di quello fissato con quattro robusti chiodi a vite direttamente sul frontespizio lapideo della torre civica di Noha giusto qualche giorno fa: farebbe più ridere di una barzelletta, un film di Totò, o un comizio del nostro Sindaco, se non avesse tutta l’aria di una presa in giro.
Si sa quanto il Big Ben nohano, ormai 163enne, si regga sulle proprie gambe quasi per quotidiano miracolo, mentre le stanze al primo piano del medesimo complesso edilizio non esiterebbero a mandarci all’inferno, o in qualche altro incavo indebito altrettanto tenebroso, se solo possedessero il dono della favella.
Per venire al dunque, il suddetto avviso riporta alcune informazioni importanti, tipo il committente (vale a dire il Comune di Galatina, bontà sua), i progettisti e i direttori della fabbrica (che in questo caso sembrano coincidere), i responsabili rispettivamente del procedimento e della sicurezza, e soprattutto la durata dell’opera: “150 giorni” [sic], non uno in più, né uno di meno.
Mistero fitto, invece, sull’importo dell’appalto, benché in teoria la spesa dell’operazione sarebbe tutta a carico nostro, e non, chessò io, del solito sponsor privato (tipo il cavaliere eugubino che ci compra e soprattutto ci vende a bordo di un elicottero), mentre segretissima rimane la data della prima pietra che, s’intende, potrebbe essere anche domani stesso, e quindi il momento (o l’era) di fine attività. In pratica allo stato attuale non sappiamo quando potrà partire il contatore di quei famosi 150 giorni: dies certus an et incertus quando, direbbero i latini (Dies incertus an et incertus quando, mi suggerirebbe il mio inguaribile pessimismo cosmico tendente ormai all’eroico).
E comunque, a ben pensarci, 150 giorni, vale a dire più o meno 5 mesi di lavori per il consolidamento strutturale e il ripristino di alcune parti franate (come per esempio la pietra in cima alla guglia), la sistemazione delle crepe e la riparazione di cornicioni, balcone e decorazioni, il rifacimento ex-novo del solaio pericolante e dei pavimenti delle due sale del vecchio “Municipio” un tempo nel medesimo stabile, la pulizia di tutta la facciata dell’edificio turrito, nonché il restauro delle arcate del campanile, oltre che della grande aquila dalla testa mozzata e dello stemma di famiglia del mecenate del tempo che fu, in uno con l’installazione del parafulmine, per non parlare del rifacimento delle banderuole segnavento in ferro battuto, e dunque della ri-messa in funzione dell’orologio e della ri-sonorizzazione delle due campane (quella delle ore e quella dei quarti) - magari con esclusione notturna e/o pomeridiana per la sacra siesta soprattutto estiva - e infine dell’illuminazione artistica di tutto il monumento in pietra leccese, se non altro per rendere un po’ più decorosa tutta la prospiciente piazza San Michele; dicevo: 150 giorni per tutte codeste incombenze paiono davvero un po’ pochini. E in effetti sarebbero pochi anche se gli operai venissero sottoposti ai lavori forzati, con turni diurni e notturni, giacché frustati a sangue, senza pause, ferie, malattie, e contratto collettivo nazionale di lavoro; ma esigui, quei giorni, pure se intervenissero simultaneamente l’esercito, le stampanti 3D, la meglio tecnologia automatica e l’intelligenza artificiale in persona.
Questo sempre che quel cartello non contempli l’istintiva subliminale locuzione “rronza e camìna”, o non contenga una buona dose di presaperilculismo (elemento imprescindibile di ogni manifesto elettorale); ovvero non funga da consueto specchietto per pollowers rincitrulliti plaudenti a ogni scemenza del loro Beniamimo. Che stavolta non è De Maria.
Antonio Mellone
Lunedì 11 marzo alle ore 18:00, nella Sala Conferenze dell’ex “Palazzo De Maria”, in Corte Taddeo, avrà luogo la presentazione di un Laboratorio di scrittura autobiografica, dal titolo “La scrittura e lo specchio, il cassetto dei ricordi”, che la nostra Associazione intende proporre ai soci e agli amici che vorranno frequentarlo.
Ad animare l’avvio di questa nuova esperienza sarà il prof. Antonio Errico, apprezzato narratore, saggista e opinionista, particolarmente attento a questa tipologia di scrittura. L’incontro sarà presentato dalla consigliera Daniela Vantaggiato.
Quali motivazioni ci hanno spinto ad avvicinarci alla narrazione autobiografica?
Riteniamo sia utile sollecitare un interesse non episodico o improvvisato, ma ben fondato e fertile, verso il racconto di sé e dei propri vissuti familiari, con l'idea che sia adatto sia per riprendere confidenza con la scrittura, in un tempo in cui si tende quasi a dimenticarla, ma anche quale "terapia" efficace al fine dell'elaborazione dei nodi problematici, dei conflitti, come delle positive esperienze, che appartengono ad ogni storia individuale. Secondo quanto sostiene Duccio Demetrio, uno degli studiosi più accreditati con riferimento a tale ambito di scrittura, “l’autobiografia, come scrittura di sé, non è un rifugio nel passato ma è ben piantata nel presente e orientata, piuttosto, al futuro. E’ tesa a trovare il senso della propria vita nel presente, orientati al futuro e riconciliati con il passato. Sapendo che non ci sono risposte definitive ai quesiti che vengono man mano individuati nella pratica autobiografica, che è anche un viaggio di ricerca continuo.”
Antonio Errico, per chi non lo conoscesse, è nato in provincia di Lecce dove vive ed è dirigente scolastico di un liceo. Ha pubblicato libri di narrativa e saggistica, saggi e racconti in volumi collettivi e collabora a quotidiani, riviste letterarie e scolastiche.
Per meglio comprendere il significato della sua presenza, oggi, per accompagnarci nella ri-scoperta dei nostri “luoghi della memoria”, riprendiamo un passaggio di un suo scritto sul tema della memoria quale nutrimento dello scrivere di sé: “Per esempio: i luoghi dell’infanzia. Un vicolo cieco con la ghiaia, un cortile con il glicine, un giardino con l’altalena tra i rami di un melograno. Luoghi che ricordiamo a stento, galleggianti, sfumati nel pensiero, come paesaggi nel fondo di un dormiveglia. I luoghi non sono mai come li ricordiamo. Sì, forse resta qualcosa: il verde forte, rugoso, screpolato, del portone di una casa che nessuno abita più, un tufo che fa da gradino, l’insegna arrugginita di una barberia; sì, forse resta qualcosa, come fosse una ruga riconoscibile in una fisionomia mutata; resta qualcosa ma i contesti si trasformano, i particolari vengono sostituiti, non ci sono più i volti che si ricordavano, non ci sono più le voci, le piccole storie che sembravano universali.”
Il Presidente
Mario Graziuso