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Beni incolti
Di Antonio Mellone (del 30/03/2012 @ 07:30:00, in NohaBlog, linkato 3110 volte)

Nel 1519, Raffello così scriveva al papa Leone X, che lo aveva incaricato di censire e disegnare le cadenti antichità di Roma: “Ma perché ci doleremo noi de’ Goti, Vandali e d’altri perfidi nemici, se quelli li quali come padri e tutori dovevano difendere queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno lungamente atteso a distruggerle?

Queste parole vergate cinque secoli fa dal Sanzio sembrano non solo attuali, ma indirizzate proprio a noi altri, nohani del 2012.

Ho già detto altrove che Noha non è una città per turisti in fila con tanto di guida poliglotta (anche se – incredibile ma vero! – è capitato anche questo). Ma, come attestato ormai da schede storiche, libri, articoli, raccolta di firme e trasmissioni televisive, Noha presenta finalmente un patrimonio culturale di tutto rispetto. Purtroppo, accade sovente di ignorare i tesori a noi più vicini, forse perché nascosti in un angolo oscuro, in atteggiamento di umiltà o ritrosia; o perché su di essi non s’è mai fermata la superficiale attenzione degli uomini, che cercano lontano le cose belle, proprio perché non sospettano neppure che esse siano tanto vicine, in mezzo a noi.    

Fosse solo questo! A volte non ci contentiamo di snobbare i nostri beni culturali nostrani (e chi ne parla e ne scrive) ma con pervicace ostinazione finiamo per diventare noi altri i vandali (qualcuno direbbe vangàli) immemori della nostra stessa identità.    

A volte sono i proprietari stessi di questi beni che - con l’ebete consenso di qualche firma facile apposta in qualche ufficio comunale da qualche dirigente di bocca buona - non sapendo (e ormai non volendo) dare un valore all’oro che si ritrovano per le mani, permettono lo scempio diuturno che è fatto di dimenticanza, di miopi interessi, di caprino oltraggio, di oscurantismo, dunque, di mattoni e cemento senza se e senza ma, a ridosso di questi beni. E questa è storia contemporanea: solo chi gioca a mosca cieca anche da adulto non s’accorge di quello che sta accadendo ad uno dei beni culturali più singolari di Noha, e al povero giardino di aranci e zagare che lo circondava fino all’altro giorno. Io credo che una proprietà che permetta che il suo patrimonio sia devastato non è degna di possederlo: certi beni dovrebbero essere di chi se li merita!

Il patrimonio storico-artistico di Noha non ha un valore puramente speculativo e teorico, ma ha anche una “missione sociale”: quella di rendere l’ambiente nel quale viviamo più prezioso e civile. Se non salvaguarderemo il nostro patrimonio (che dovrebbe essere “comune”) saremo un territorio senza futuro. I beni culturali sono la nostra antimafia. Senza di essi la mafia (che purtroppo esiste eccome!) la farà da padrone, nei secoli dei secoli. Amen.

Un ultima chiosa.

Ho notato una sorta, come dire, di rancore, anzi di antipatia nei confronti sia dei beni culturali nohani e sia nei riguardi di chi ormai da anni combatte se non altro per evidenziarne il problema, da parte di alcuni commentatori che bazzicano su questo sito. Vorrei che fosse chiaro una buona volta che chi parla di casiceddhre, di frantoio ipogeo, di casa rossa, di torre medievale, ecc. ecc. non è contro o in competizione con le iniziative promosse da altri settori della nostra comunità. Ci mancherebbe altro.

I beni culturali nohani sono di tutti, e non soltanto di chi da qualche anno a questa parte sta rompendo i timpani e qualcosa d’altro per portarli all’ordine del giorno prima di tutto dei nohani e poi (se la specie dovesse ancora esistere: ma sembra in via di estinzione) dei politici.

Questi opinionisti per caso (che non sono di Noha, sicuramente non sono di Noha, e non possono essere di Noha) anziché coalizzarsi con noi altri (che siamo poco più che quattro gatti spelacchiati), se ne fa beffe con asserzioni, proposizioni ed espressioni tra il sarcastico e l’allocco, perpetuando di fatto una catena di vandalismo, diretto o indiretto, di cui non si intravede la fine.  

Non si capisce perché tanta animosità.

Boh? Mistero della fede.

Antonio Mellone