Eccovi di seguito l'articolo di Antonio Mellone apparso su -il Titano- di quest'anno (supplemento de 'il Galatino' n.12 del 27 giugno 2007) dal titolo: "Giuseppe Paglialunga di Noha, Pippi Caddhripulinu, Capilega". Si tratta di un saggio breve su un personaggio di Noha, Pippi Caddhripulinu, appunto, il quale, sebbene inquadrato in un ambiente delimitato con confini provinciali, ha comunque contribuito alla costruzione della micro-storia o storia locale. Che non è da considerarsi storia di serie B o di seconda classe, ma storia tout court
GIUSEPPE PAGLIALUNGA DI NOHA: PIPPI CADDHRIPULINU, CAPILEGA.
Queste brevi note vogliono essere l’omaggio alla memoria di una personaggio di Noha, Giuseppe Paglialunga, da tutti meglio conosciuto con il nome di Pippi Capilega o Caddhripulinu, una persona che, insieme a molte altre coraggiose coscienze, ha dimostrato che anche nell’Italia del Sud (ed addirittura a Noha!) fu alta la voce dell’antifascismo, causa efficiente della repubblica democratica del dopoguerra.
Pippi, che nasce a Noha il 5 giugno 1923 da una modesta famiglia di braccianti agricoli (i nonni erano oriundi di Gallipoli, da qui il soprannome), insieme ad altri eroi contribuisce con il suo pensiero e la sua lotta a rompere un sistema crudele e disumano: quello che schiacciava la dignità del povero servo della zolla, costretto alla produzione del “plusvalore” che l’opulento agrario di turno rapinava con zelo da sempre, protetto da leggi ingiuste, e da una concezione del pensiero basata sull’ignoranza e la rassegnazione.
E’ stato con persone ardimentose come Pippi che finalmente si giunge anche nel Mezzogiorno ad un punto di rottura, alla resa dei conti tra il feudalesimo e la modernità, e alla nascita di una nuova idea di società.
Contadino di semplici origini, come i genitori ed i fratelli, Pippi, “primula rossa” nohana, comunista convinto fino alla fine, viene nominato responsabile della “Camera del Lavoro” di Noha, ubicata in umili locali nella splendida piazzetta Trisciolo, un tempo lastricata con conci di pietra viva proveniente dalle cave di Soleto, all’ombra del signorile palazzo dell’arciprete Don Paolo Tundo, Monsignore, già podestà di Noha, imbevuto di idee fasciste (come molti; anche a fascismo crollato!), e con il quale, proprio a causa della divergenza di vedute, Pippi ha un rapporto dialettico vivace e a volte polemico.
Una camera del lavoro sempre stracolma di gente, era quella di Noha, come un tempo erano anche le altre piazze della cittadina, brulicanti di persone in cerca della giornata lavorativa.
E piazzetta Trisciolo è il luogo tradizionale dei raduni popolari - dopo la caduta del fascismo s’intende – raduni che hanno come uditorio la plebe, ceto povero di mezzi, ma anche di istruzione ed educazione. In dialetto si parla anche in pubblico; si argomenta in maniera chiara e senza atteggiamenti demagogici, o menzogne ed ipocrisie; l’intransigenza diventa, prima che un dovere morale, una necessità di vita.
Pippi è capolega dei contadini, compagno di lotta e quasi coevo (solo tre anni di differenza d’età) di Isa Palumbo, la Isa, sindacalista e difensora delle tabacchine, ideologa - potremmo dire - del comunismo di Noha, inteso come voglia di riscatto del Salento e di tutto il Meridione [cfr. il nostro: Isa Palumbo. La pasionaria di Noha, in Il Titano, suppl. de il Galatino, n. 12, 27 giugno 2005]
I contadini frequentavano la piazza di buon mattino, nell’attesa che il caporale (o il fattore) ingaggiasse la manodopera per il campo; uomini esposti come cavalli, scelti dal palafreniere di turno; come schiavi con la schiena curva dall’alba al tramonto. Se eri più debole non lavoravi. Di diritti neanche a parlarne.
Solo i comunisti cercavano di far comprendere che la lotta (che si manifestava con l’arma pacifica dello sciopero) era l’unico strumento di liberazione, che non serviva solo ad un bracciante o ad un contadino ma avrebbe portato benessere a tutta la collettività. Eppure il comunista era quello “che mangiava i bambini”, schedato come “vagabondo abituale”, colui che “riceveva gli ordini direttamente da Mosca”, un “uomo senza Dio”…
Ma il compagno Pippi un Dio ce l’aveva, e lo pregava anche. Ed era il Dio cristiano di giustizia, di amore, e di pace e libertà; il Dio degli ultimi, dei poveri, dei bisognosi, degli indifesi; il suo Signore era quello della chiesa delle origini: quella nella quale i fedeli vivevano la vera Comunione, allorché “mettevano in comune i loro beni e non v’era tra loro distinzione”. Non era un fariseo, ma, oseremmo dire, un teologo della liberazione. Non frequentava il tempio, ma voleva che moglie e figli fossero puntuali alle sacre funzioni. Addirittura ricordava loro i doveri religiosi e li richiamava anche, nel caso in cui fossero in ritardo.
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Pippi era l’esponente di una generazione che ha lottato ed ha pagato in prima persona il costo delle conquiste che ormai sono patrimonio acquisito (e a volte dato per scontato se non proprio dimenticato) da noi contemporanei. Un sognatore, potremmo dire: ma un sognatore con i piedi per terra: una persona che sognava un mondo migliore, un mondo da realizzare “su questa terra” nei limiti di ciò che era possibile.
Pippi era una persona pratica; non pensava ai grandi sistemi, ma all’urgente necessità del pane e dei diritti per tutti, per i quali era disposto anche a perdere la giornata lavorativa (e ne perse più d’una).
Così Pippi scrive lettere all’onorevole Pajetta e all’onorevole Galasso per far ottenere una pensione di sussistenza a chi la meritava ma non aveva santi in Paradiso.
Zi’ Monacu di Noha (un tempo ci si conosceva con uno sciame di soprannomi) per esempio fu uno di questi. Zi’ Monacu, anziano, invalido di guerra, senza parenti che gli potessero dare una mano, ottiene quanto sperato, e vuole anche “disobbligarsi” con Pippi. Che rifiuta il regalo e invita il poveretto a spendere per se stesso le ventimila lire che voleva donargli.
Poi ancora lo vediamo impegnato contro gli agrari opulenti ed a favore alle donne, che di fatto erano più contadine dei contadini, nel riconoscimento del loro status di lavoratrici e non di casalinghe (come invece conveniva al padronato) senza diritti né contributi.
Ed infine lo si vede in prima fila nell’organizzazione degli scioperi.
Una di queste contestazioni, siamo nel 1947, si svolse con grande partecipazione di popolo. Di mira era stato preso l’aristocratico don Gino Vallone, e la sua casa gentilizia nel centro di Galatina.
L’urlio crescente, rimbalzava e rimbombava come un tuono; ogni buco del palazzotto ne rintronava: e di mezzo al vasto e confuso strepito, si sentivano forti e fitti colpi di pietre ed altri arnesi alla scala d’accesso dell’abitazione. La quale cede dopo non molto, sotto i colpi inferti dai furibondi in rivolta.
Il popolo esasperato (ma anche caricato dal tumulto), infine, si avventa quasi sull’intimidito don Gino, finalmente uscito allo scoperto, bianco come un panno lavato…
Per fortuna il capilega Pippi non era di quelli che per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per gusto del soqquadro, fanno di tutto per spingere le cose al peggio. Pippi era invece uno che cercava di ragionare, un po’ anche per un certo pio e spontaneo orrore del sangue e dei fatti atroci, tanto che lo stesso don Gino, per protezione viene abbracciato dallo stesso Pippi, e in fondo, anche grazie a questo gesto, protetto, salvato da ben più nefaste o addirittura ancor più rovinose e magari fatali conseguenze.
Ma Pippi, anche in seguito a questi eventi, è ormai segnalato, guardato a vista dalla polizia di Scelba, considerato come “socialmente pericoloso”, “turbolento”, “sobillatore”, “occupante di terre”. La sua modesta casetta (in affitto) viene perquisita di giorno e di notte. E finisce anche in arresto.
Un punto fermo del suo pensiero, però va detto, rimane il rifiuto della violenza nelle lotte di massa e nell’azione del movimento sindacale, convinto come era che nel nuovo regime democratico ai lavoratori erano dati gli strumenti pacifici, come lo sciopero, per sviluppare le loro rivendicazioni e per allargare la loro influenza sugli altri ceti della popolazione italiana.
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La vita di Pippi, che contava appena 58 primavere, fu stroncata da un’emorragia cerebrale il 23 febbraio 1981. Il malore lo colse nella sua piccola ma frequentata bottega di generi alimentari ubicata sempre a Noha nella storica via Trisciolo.
Un fascio di rose rosse fu composto dai suoi compagni di partito, che lo accompagnarono, insieme ad altra moltitudine al cimitero: quel luogo che per definizione è la più alta ed inesorabile forma di comunismo, per volenti o nolenti, ricchi e poveri.
Ecco: in queste righe abbiamo voluto ricordare la voce di un protagonista delle battaglie per l’emancipazione e l’affrancazione dall’oppressione. Ma questi appunti sono anche la dimostrazione di come quella voce possa essere soffocata dall’assenza di memoria se non si concorresse - come abbiamo cercato di fare, ci auguriamo alla men peggio – a dare un volto alla storia.
A noi piace ricordare Pippi, allorchè, in piazza San Michele, sull’uscio della sezione del Partito, conversava con i suoi amici nella sua solita postura, seduto a cavalcioni su di una sedia, con entrambi i gomiti appoggiati alla spalliera. In quella sezione gloriosa, dedicata al nome del grande Giuseppe Di Vittorio (Cerignola, 13 agosto 1892 – Lecco, 3 novembre 1957), che a tutti gli effetti era - oltre che omonimo - sindacalista e capilega come lui, il Nostro trascorreva il tempo libero.
Da quel luogo strategico, cuore di Noha, quando ti scorgeva da lontano, Pippi, ti salutava cordialmente con una mano, mentre sul suo volto si disegnava un timido sorriso…
Antonio Mellone