Nelle puntate uno e due di codesta mia epopea organistica occorsami per caso nella basilica di Santa Croce in Lecce un sabato di ormai tre settimane fa, ho provato a raccontare di come l’incarico del servente alla consolle a Frédéric Ledroit, noto concertista a livello europeo, conferitomi su due piedi da parte del direttore del festival organistico del Salento, Mr. Scarcella, m’avesse provocato un subitaneo stato chetonemico insensibile perfino al Biochetasi granulato: in sostanza dal Voltapagine al Voltastomaco.
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Sembra uno scherzo, ma il ruolo del Voltapagine (e non vi dico del Registrante) è fondamentale per l’esito di un’esecuzione musicale. Si parla di competenza, di tatto, di capacità di lettura del pentagramma [sia lodata e ringraziata ogni momento la buonanima di mio zio don Donato per le lezioni di solfeggiamento, ndr.], di simbiosi con l’esecutore, e soprattutto di prove ripetute più volte. Invece stavolta niente prove, solo un briefing di pochi minuti con monsieur Ledroit, che mi spiega in provenzale stretto che alcune pagine sono volanti, altre rilegate a libro, che il terzultimo brano è impresso su uno spartito a fisarmonica, ma il secondo ha un ritornello anzi due, per cui a metà foglio bisogna ritornare indietro e poi riprendere dalla penultima strofa e continuare con nonchalance (ha detto proprio con nonchalance) con la prima del brano successivo…
Mi rendo immediatamente conto della puttanata che ho fatto a non accettare l’ammiccante proposta della mia amica [“Questa sera avrei voglia, hmm, di una bella pizza” ndr.], che sarebbe bastato un mio errore per trasformare un Allegro Vivace in una Messa da Requiem, che in caso di distrazione la mia biografia avrebbe potuto prendere un’altra strada (tipo quella della latitanza), che se mi fosse caduto lo spartito dal leggio l’arcivescovo mi avrebbe riservato una cresima di insulti con tanto di schiaffi canonici, salvo una più grave scomunica pontificia, e che se, errando, avessi girato due anziché una pagina sola come previsto dal protocollo, una querela non me l’avrebbe levata nessuno unitamente al linciaggio democratico della folla inferocita: insomma in quel momento il mio “lavoro” improvvisato, già di per sé precario, poteva presentare sbocchi potenzialmente devastanti.
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Nonostante tutto questo, rimango imperturbabilmente coerente e, pur diventando rosso come un Sioux, e apparendo ai più così stupefatto che a qualcuno è venuto il dubbio che le canne di quell’organo me le fossi fumate tutte seduta stante, in seguito a uno sguardo d’intesa (o forse di commiserazione) da parte di Ciro Greco, il bravo baritono, anch’egli protagonista indiscusso della serata (il sottoscritto, invece, molto discusso), diamo inizio allo spettacolo.
Giuro, avrei voluto essere trasparente, scomparire dalla pubblica visione, magari indossando il mantello di Harry Potter: invece l’unico soggetto in HD ero io, prezzemolo ad alta definizione di ogni foto, anche di quelle panoramiche (provate a zoomarle per credere). E così entro in scena, inizia il concerto, applico le regole del gioco, afferro le pagine in alto con la sinistra, mai con la destra, attento a non coprire la vista dei pentagrammi al Ledroit: bisogna avere braccia lunghe, e io, (anche) da questo punto di vista, ne sono come dire superdotato. Seguo dunque note e tempi sul rigo musicale, o meglio, più furbescamente, ritenendolo il meno ostico dei primi due, decido per il terzo pentagramma, quello dei bassi al pedale, salvo scoprivi, strada facendo, una presenza di biscrome e semibiscrome mai viste o immaginate prima di allora da suonare alla pedaliera. Occhio dunque attento a spartito e ad esecutore per captare ogni suo pur impercettibile segnale, e tutto sommato il programma sembra filare liscio come l’olio dei catecumeni.
Ma la musica è talmente sublime che a un tratto, proprio verso la fine dello show, forse un tantino più rilassato, rimango come incantato, imbambolato dico, in estasi come la Santa Teresa del Bernini a Santa Maria della Vittoria in Roma, ovvero, molto più probabilmente, sono solo una vignetta senza parole. Mi scordo dunque di voltare pagina. Il concerto fin lì perfetto sta per trasformarsi in una gag. Il tutto avviene in un nanosecondo che dura un’eternità: Ledroit mi guarda terrorizzato quasi implorandomi: “Perché non giri?” (più o meno come Michelangelo Buonarroti che, alla fine della scultura chiede al suo Mosè “perché non parli?”), realizzo immantinente la tragedia di cui sto per diventare personaggio e interprete, mi desto dunque istantaneamente dal fulmineo stato di trance, acchiappo lo spartito e volto finalmente pagina, risparmiandomi le sajette altrui e tirando perciò il più classico dei sospiri di sollievo. Si va avanti così in un continuo crescendo, fino all’apoteosi finale.
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L’esibizione termina con un “Parfait!” da parte mia al maestro, e Frédéric (ormai ci diamo del tu) che, anziché rivolgere un deferente pensiero all’indirizzo dei miei avi defunti, mi stringe calorosamente la mano dicendomi con un grande sorriso per me liberatorio: “Merci, mon ami”. E va al centro dell’abside basilicale a prendersi il meritato applauso sfociato subito in una standing ovation.
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A distanza di giorni sogno ancora di sbagliare le pagine di uno spartito penta-drammatico durante un concerto importante: alcune planano per terra, altre appaiono illeggibili, altre ancora sembrano svanire nel nulla, mentre alcuni tiratori scelti dal parterre lanciano instancabili al mio indirizzo copiose quantità di pomodori e giacché pure fette di Mellone.
Meno male poi che a riportarmi alla decisamente meno tragica realtà c’è la mia amica, che mi fa comprendere finalmente, grazie anche all’allegoria del trancio di pizza ben lievitata, quanto sia opportuno diversificare costantemente i rischi, e dunque focalizzarsi ad esempio non soltanto sull’organo, ma anche, per dire, sulla tromba.
Antonio Mellone