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I minatori di Noha
Di Marcello D'Acquarica (del 08/08/2024 @ 00:50:38, in NohaBlog, linkato 1146 volte)

Finita la guerra, l’Italia era in macerie e la popolazione in estrema sofferenza. Era prevedibile che i nuovi governanti dovessero chiedere ulteriori sacrifici agli italiani per avviare la cosiddetta “ricostruzione”, questo c’era da aspettarselo, ma non certo con l’inganno. Non lo meritava nessuno, tantomeno la povera gente che aveva già vissuto cinque anni di tragedie.

Il 2 Giugno 1946, gli italiani furono chiamati al voto, e per la prima volta nella storia l’Italia divenne una Repubblica.

Il 25 giugno 1946, pochi giorni dopo, fra le macerie lasciate dalla guerra, si riuniva a Montecitorio l’Assemblea costituente, composta da 556 deputati, e per la prima volta in Parlamento vennero elette 21 donne. Con la Costituzione saranno garantiti i principi che affermeranno i valori fondamentali di Libertà, Uguaglianza, Solidarietà che sono ancora oggi vitali.

La Costituzione entrò in vigore il primo gennaio del 1948, ma occorrevano ancora molti anni prima che tutti gli articoli trovassero applicazione nella vita reale degli italiani.

A pochi giorni dalla nascita dell’Assemblea costituente, il 20 giugno del 1946, il governo italiano e quello belga, siglarono un accordo cosiddetto “uomo-carbone”. Esattamente 2 mila e 500 tonnellate di carbone ogni mille minatori. Il carbone doveva servire ad avviare la macchina industriale, che avrebbe portato lavoro e benessere alla nazione. Invece si rivelò un vero raggiro.

La propaganda avviata dai due governi per attirare l’attenzione di chi cercava un lavoro fu subdola, faceva leva su promesse di grossi salari, di una sanità gratuita e di case per tutti. Invece il lavoro si rivelò in tutta la sua pericolosità, in quanto alle case i nostri emigranti, una volta in Belgio, trovarono baracche di lamiera o di legno, residui dei campi di concentramento adoperati durante la guerra. E non per ultimo, ci fu l’obbligo perentorio di non poter fare altri lavori se non dopo almeno 5 anni di miniera. “La mina” la chiamavano nel gergo popolare.

Cinque anni era il tempo previsto da uno studio sanitario eseguito dal governo belga, in cui veniva appurato che il rischio di ammalarsi di silicosi per i minatori sarebbe avvenuto quasi con assoluta certezza, appunto entro un massimo di 5 anni, il tempo necessario quindi per sfruttare la manodopera fino all’ultimo respiro. Un lavoro sporco in tutti i sensi.

Per chi si rifiutava c’era la prigione per almeno un anno, in attesa di essere rispedito indietro con il divieto incondizionato di ritornare. Tra questi “imprevisti” dissimulati dalla propaganda dal “manifesto rosa”, così era chiamato il comunicato affisso in tutti i Comuni d’Italia, il peggiore inganno è stato il mancato riconoscimento della silicosi come malattia professionale, una malattia che si sapeva essere mortale. Esistono sul tema decine di libri e articoli che hanno sviscerato quasi ogni aspetto della vicenda dei circa 300mila italiani che dal 20 giugno del 1946 presero la via del Belgio, al ritmo di duemila a settimana, per gettare i propri corpi nelle miniere di carbone. Oggi nessuno di noi si sognerebbe di mandare i propri figli a fare un lavoro così gravoso, tanto meno a mille metri sottoterra, a sputare carbone senza l’ausilio di protezioni, con pochissime norme di sicurezza e con la certezza di morire prematuramente.

All’ombra di quel trattato, quindi, si aprirà il dramma di migliaia di lavoratori, che si troveranno ad affrontare durissime condizioni di vita e di lavoro, e queste saliranno drammaticamente alla ribalta alcuni anni dopo, quando la mattina dell'8 agosto del 1956, in un incendio scoppiato nella miniera del Bois du Cazier di Marcinelle, a mille metri sottoterra, perderanno la vita 262 persone, tra cui 136 immigrati italiani, di cui ben 16 salentini. Nessuno di quei 16 era di Noha, ma alcuni dei nostri concittadini ci andarono molto vicini.

Le testimonianze di tante sofferenze e dei sacrifici che hanno dovuto fare anche le famiglie dei nostri compaesani, sono tantissime. Ne abbiamo raccolte alcune di Noha. Il valore che può scaturire dalla lettura di quei vissuti, seppur velato dal tempo, è talmente prezioso per il nostro quotidiano e per il futuro delle nuove generazioni che vale la pena considerare con impegno. Un insegnamento quello del sacrificio e del dono della propria vita pari ad un martirio. E con mia grande sorpresa scopro che dall’altra parte, dalla parte di chi è custode di quei preziosissimi segreti, c’è un forte desiderio di condivisione, quasi una liberazione.

Angelo Chezzi

E’ grazie al mio amico Roberto, che incontro Angelo in uno dei miei tanti andirivieni a Noha. Lo incontriamo nella sua casa di campagna, verso Sirgole. Dove, dopo 27 anni di miniera, va a godersi il suo giardino. E’ in questa occasione che ritrovo Aldo, figlio di Angelo e mio vecchio compagno di scuola.

Non vedevo Aldo Chezzi dai primi anni delle elementari, quasi una sessantina di anni fa, eppure è viva l’immagine di quei due bambini che uscendo da scuola si lanciavano in una corsa folle giù per la discesa di via Fabio Filzi con attorno al collo il grembiule a mo’ di mantello da super eroi, sognavano di librarsi in volo nel cielo. E Siamo volati

davvero, lui in un cielo un po’ diverso dal mio, e me lo racconta.

Suo papà Angelo si “arruola” per il Belgio nel 1946. Dopo appena un paio di anni, ritorna a Noha per sposare Lucia Congedo.

Beringen è a nord est, verso il confine con l’Olanda. La destinazione della miniera in cui andare a  lavorare la sceglieva il Governo belga al momento della selezione. Questa di fatto era una visita molto approfondita, così raccontava Angelo: “ci visitavano anche nella bocca, come se fossimo dei cavalli”. Sotto la stazione di Milano avevano organizzato un grande centro per le selezioni, dove due medici italiani e due belga, si occupavano delle visite che erano talmente meticolose da durare anche tre giorni.  Per essere considerati idonei occorreva essere in perfetta

salute, alcuni li rispedivano indietro solo perché avevano lievi difetti fisici, bastava anche solo una venuzza più evidente, e venivano respinti. Angelo nella miniera di Beringen fa il carpentiere, in pratica è addetto alle armature delle gallerie che i suoi compagni di lavoro scavano man mano. Dopo solo 5 anni compra casa a Noha. La sua vita procede in minera con una breve pausa per malattia che trascorre al paese, fino al 1974 anno in cui va finalmente in pensione.

Aldo invece, fa parte della generazione che ha vissuto la miniera con molti meno rischi degli anni ’50 e ’60, si scavava ancora, certo, ma con l’ausilio di mezzi meccanici e asserviti dalla tecnologia più moderna. Ha studiato nelle scuole belga ed è diventato un tecnico di impianti elettrici. Dopo 26 anni di lavoro e di vita in Belgio, non dimentica Noha, ma deve restare in Belgio dove crescono i suoi figli, e appena può vola giù a Noha anche per pochi giorni, a continuare il sogno di Angelo, rifugiandosi nel suo meraviglioso giardino di Sirgole, fra la vigna e gli alberi da frutta e gli ortaggi ed ogni ben di Dio che la nostra Terra se trattata bene sa dare.

Raffaele Rizzo, nasce a Noha il 22 gennaio 1919 in Vico Congedo, la sua è l’ultima casa del vico, dopo ci sono solo prati e fichi d’India. Raffaele è uno dei tanti braccianti senza terra. Insieme ad altri si raccolgono la mattina presto in piazza dove il possidente di turno seleziona la forza lavoro, a giornata.

Noha in quel tempo contava poco più di mille abitanti e offriva pochissime possibilità di lavoro, i braccianti erano numerosi e venivano sfruttati senza un adeguato salario.

Raffaele ha un sogno, quello di costruire un forno per continuare l’attività di sua mamma Maria, che al paese era conosciuta come “a Maria Furnara”.

Nel 1948 si sposa con Maria Annunziata Congedo, una bella ragazza di Aradeo. Intanto di nascosto da Maria, con la complicità di suo fratello Narduccio che lavorava già a Marcinelle insieme al cognato Mario Mangia di Galatina, organizza il suo trasferimento in Belgio. Vuole andarci solo per lavorare qualche anno e realizzare il suo sogno. Maria quando viene a saperlo non è contenta, ma sapendo che sarebbe stato in compagnia del fratello e della sorella Donata, stringe i denti e dopo appena due anni, nel 1950 acquistano la casa davanti  all’edificio  scolastico,  oggi piazza Ciro Menotti. Ma il sogno di Raffaele è sempre quello di comprare la zona attigua alla nuova casa per costruire il forno.

La vita in miniera è dura, soprattutto quella di Bois du Cazier di Marcinelle, è una delle miniere più vecchie, risale alla fine del 1800. Vi sono già accaduti molti incidenti gravi. Una volta morirono 40 persone a causa di una esplosione di gas. La proprietà non intende investire denaro per la ristrutturazione di quella miniera già così sfruttata e bisognosa di alti costi di ammodernamento. I pozzi sono profondi oltre mille metri e le sue gallerie sono lunghe anche decine di chilometri. Lì sotto scarseggia l’aria, e la bocca si impasta di carbone, ma la cosa peggiore è la polvere di silicio, quella è talmente sottile che penetra nei polmoni fino a farli indurire e ahimè, scoppiare.

Poi vi era anche il pericolo del grisù, il gas inodore e incolore che a volte si sprigionava sotto i colpi dei picconi, e faceva addormentare gli sfortunati che, se non se ne accorgevano in tempo per fuggire via, ci lasciavano la pelle.

Intanto sta per nascere Antonio, il terzo figlio di Raffaele, è il mese di maggio del 1953. Raffaele purtroppo non riuscirà a vedere il suo piccolo. Manca solo un mese al rientro a casa ma durante gli scavi in galleria, viene travolto da un crollo ed un masso lo colpisce in testa ferendolo mortalmente. Stranamente in quel momento è solo e nessuno gli presta soccorso. Raffaele muore così, solitario, in una galleria profonda e buia in un incidente mortale a Marcinelle nel 1953. I suoi resti saranno trasferiti nel cimitero di Noha, all’incirca un anno dopo, accompagnati dal fratello Narduccio, che dopo la tragedia in famiglia, non ne vuole più sapere di miniere in Belgio, tant’è che dopo qualche anno va a lavorare in Germania. Ma siamo già negli anni ’60, e le cose non sono più come nel 1946.

Torquato Carallo

Ho avuto l’onore di incontrare una persona davvero esemplare, d’altri tempi: Carmelina Patera, moglie di Torquato Carallo morto nel '96. Carmelina ha un carattere meraviglioso,  nonostante  le sue sofferenze, mi accoglie con un sorriso dolcissimo, mi aspettava e tra una frase e l’altra non finisce mai di dire: “…bei figli, belle persone, molto educate”. Si ricorda dei D’Acquarica  che  abitavano  in via Aradeo all’angolo con via Messina. Lei stava con la sua famiglia nella casa in via Benevento, a due passi dalla casa di Raffaele Rizzo e di Cesare Lisi, in fondo Noha è tutta lì. Sembrava che li unisse il destino.

Si ricorda di tutti i suoi vicini, e me li elenca uno per uno, di ogni casa e di ogni famiglia, nome per nome perfino in ordine di età. Carmelina ha una memoria di ferro.

Canta, mentre racconta canta canzoni dei suoi tempi. E piange, si, ogni tanto piange per i dolori che ha ai piedi. È sofferente Carmelina, dobbiamo fare presto perché la sua resistenza richiede sostentamento e riposo.

Carmelina nasce nella casa di via Benevento nel 1928, a 20 anni lei dice di essere “donna da marito” e mi racconta che sapeva cucire perché era andata alla scuola di taglio da Toma a Galatina. Grazie ad un suo cugino incontrò Torquato che veniva da Aradeo, se ne innamorò subito. Torquato aveva già un lavoro in Belgio, anche lui è stato uno dei primi a rispondere alla seconda chiamata della Patria. Torquato e Carmelina si sposarono nel 1954 senza tanti preamboli, una “fuitina”. Racconta Carmelina che a portarla via da casa fu suo cugino, con la macchina andarono in una campagna, e subito dopo il matrimonio in chiesa, a Noha ovviamente.

Don Paolo che conosceva bene i suoi parrocchiani e sapeva a cosa sarebbero andati incontro quelli che partivano per il Belgio, come forma di incoraggiamento, diede loro la benedizione dicendo testuali parole: “ …e così finalmente vedremo i soldi del Belgio”.  Il viaggio, racconta Carmelina, cominciò in corriera fino a Lecce, si partiva presto, alle 4 del mattino. Il treno era brutto, duro, di legno. Ma nella valigia oltre alla farina, c’era una bottiglia di vino, e il pane e pomodoro e le sarde, e pure una bottiglia di olio. Il viaggio durava quasi tre giorni. Tre lunghissimi giorni. Era il mese di maggio e per fortuna non faceva freddo.

Giunti a destinazione, a Beringen, nel cantone Fiammingo, lo stesso posto dove stavano i Chezzi, il treno si fermò in una stazione di scarico merci, la stessa dove insisteva il campo di lavoro, lontano dal paese. Ai nuovi arrivati non era concesso scendere in stazione, per evitare di farli incontrare con gli altri operai belga. Gli immigrati non erano ben visti dai cittadini belga, perché a causa loro, il costo del lavoro diminuiva. La solita lotta fra poveri, insomma. Una volta arrivati al campo, “la femme”, così la chiama Carmelina, la signora addetta all’accoglienza, li accompagnò ognuno nella sua baracca. Case di legno e di lamiera, le stesse adoperate per i campi di concentramento durante la guerra. In pratica si ritrovarono in un campo di concentramento. Case normali, quelle fatte con i mattoni, in Belgio non c’erano ancora per i minatori stranieri.

Fra i suoi ricordi, Carmelina lamenta le frequenti visite dietro la porta della baracca di ragazzi marocchini e turchi che la corteggiavano, operai della loro stessa miniera, ma senza famiglia. Aveva paura Carmelina, perché lei era bella e allora lo diceva alla Femme che aveva paura. Poi finalmente, i datori di lavoro gli diedero una casa di mattoni. Da quel momento in poi nella vita di Carmelina e di Torquato c’è un solo desiderio: tornare a casa. A Noha, dove l’accoglienza ha un solo calore, quello del nostro sole e della nostra aria mite.

Sembrava tutto calcolato, il 24 maggio di quest’anno, dopo poche settimane dal nostro incontro, Carmelina decide di non soffrire più e sicuramente torna dal suo Torquato a riprendere quell’altro viaggio che li renderà entrambi felici per sempre.

E’ stato un grande onore per me incontrarti e salutarti. Grazie Carmelina.

Antonio Martella, classe 1923.

Nasce a Monteroni il 2 marzo.

A Monteroni lavora insieme al padre in una cava di pietre di proprietà della famiglia. Ma si guadagna poco e come la maggior parte dei salentini si muove per cercare fortuna altrove. Anche lui, terminata la guerra, a poco più di vent’anni aderisce alla chiamata per le miniere del Belgio. Il primo libretto di lavoro lo ottiene a Chatelineau, un villaggio belga situato nella provincia dell'Hainaut. Lavora in miniera dal 17 luglio 1946 fino al 6 giugno 1950, allorquando si trasferisce a JUMET. Città del Belgio nella provincia del Hainaut, circondario di Charleroi. Forma, con altri centri, quasi un solo abitato con Charleroi, sita 5 km. più a sud in piena zona carbonifera, è un centro estrattivo, e possiede

varie industrie metallurgiche, soprattutto fabbriche di caldaie.

Antonio, dopo aver soddisfatto i 5 anni obbligatori di miniera può finalmente  lavorare in una fabbrica di bottiglie. È il 5 settembre del 1950. Da qui esce per l’ultima volta il

16 dicembre del 1955. Entra nella S.A. des charbonnages du Nord de Gilly. E’ una vecchia miniera e quindi pericolosa quanto quella di Marcinelle. Dopo l’incidente di Marcinelle, spaventati per l’accaduto, non riuscendo a vivere con quell’incubo terribile che incombeva su di loro, insieme alla moglie Brigida Bolognese di Noha, e la figlia Ada che era nata in Belgio nel loro primo anno di matrimonio, fanno finalmente ritorno a Noha.

Cesare Lisi, classe 1930,  vive  con  la sua famiglia nella vecchia casa paterna di via Benevento, angolo con vico Scotti.

Nel 1953 si sposa con Maria Concetta Bray di Neviano. Nel 1964, consigliato da alcuni suoi parenti che sono già in Belgio, nelle miniere di Corso, sempre dalle parti di Beringen, per guadagnare qualche soldo in più, anche Cesare parte per andare a fare il minatore e per stare insieme alla famiglia porta tutti con sé.

Ma sentono fortemente il distacco della terra natia, la casa è piccola e mancano i servizi necessari. Così decide di far tornare al paese la moglie e le due bambine. Si sacrifica restando solo in Belgio a lavorare nelle miniere. Il viaggio è lungo e costoso; quindi, torna a casa una volta l’anno a passare qualche giorno con la sua famigliola.

Anche Cesare, dopo qualche anno di sacrifici, riesce a comprare una casa più grande a Noha, la nuova casa ha tre camere ed un garage. Qui fa crescere tutta la sua famiglia che con il passare degli anni diventa numerosa. Cesare è una persona determinata, va avanti così fino al 1980, quando finalmente in pensione, ritorna a Noha definitivamente. Purtroppo, i sacrifici fatti durante tutta la vita incidono gravemente sulla sua salute. Muore fra le braccia del figlio Gianni a soli 53 anni di vita.

Per concludere possiamo dire che è vero che per la salvezza del Paese, nel 1945 a fine guerra, ci son voluti grandi uomini, ma chi ha realizzato i fatti invece, chi ci ha rimesso del suo, anche la vita, è stata la gente comune, e sono loro i veri grandi uomini.

Oggi noi dobbiamo molto a questi partigiani del lavoro che, pur avendolo fatto perché costretti dalla necessità, è anche vero che con il loro sacrificio si sono prestati al gioco di quel drammatico momento storico e hanno concesso all’Italia il tempo di consegnare ai posteri la Costituzione, quella carta gloriosa che è nostro dovere difendere a denti stretti, oggi più che mai, dalle malversazioni di politici senza scrupoli. Un motivo in più per continuare a difendere i nostri diritti, gli stessi per cui i nostri concittadini hanno sacrificato la loro giovinezza in un paese straniero, affrontando enormi sacrifici, a volte rischiando la vita, e altre rimettendocela. Per lasciare a noi una condizione sociale più dignitosa.

Ringrazio gli amici, figli dei protagonisti di questa importante storia, per avermi aiutato a ricordare:

Aldo e Manola, Gina, Salvatore, Luigina, Gianni e Vito.

Marcello D’Acquarica