“Iancu, un paese vuol dire” è un folata di vento: per più di un’ora le ante delle infinite finestrelle che si affacciano sui nostri ricordi sbatacchiano ostinatamente sulle pareti dell’anima. Piovono sulla nostra testa polverosi calcinacci, vengono giù travi tarlate di un soffitto oramai troppo vecchio per opporre resistenza e si sfalda, si sbriciola sotto il peso di una folgorante luce, che ora ci riveste di bianco e tutt’intorno illumina oggetti dismessi, abbandonati, che credevamo perduti sotto polverose lenzuola, seppelliti dentro la bruma del passato.
Accade in una piacevole serata d’agosto, in una piazza gremita nel centro storico di Tuglie, di fronte ad un palco sul quale siede un uomo vestito di bianco, sotto una tenue luce bianca, sullo sfondo di un pannello bianco. Iancu non è un colore in questa produzione dei Cantieri Teatrali Koreja, ma diviene spettacolo, pretesto per dare sfogo ad un affascinante monologo, un tragicomico resoconto di una domenica di agosto del 1976 raccontato attraverso gli occhi di un bambino di otto anni. Fabrizio Saccomanno sembra schiudere il suo pugno, con quell’armonioso gesto che rimanda alla semina, e rilasciare manciate d’infanzia salentina su un pubblico ammutolito, incantato, affascinato.
E dal bianco dei ricordi sembra prendere un po’ di colore quel Sud di oggi, pavido e oramai flemmatico, in contrasto con il turbinio di personaggi, figure mitiche, scorribande, miti e leggende, che caratterizzano un passato che sfuma ora nel sogno, ora nella Storia. Iancu è un’esperienza utile per l’anima, una maniera originale per esorcizzare la paura che tutto un giorno possa cadere nell’oblio ed imputridendo in qualche buco recondito della memoria possa emanare per il resto della nostra vita disgustosi miasmi.
Iancu è quel sassolino che finalmente qualcuno ha trovato il coraggio di lanciare nelle acque stagnanti del passato e che ancora ora continua a saltellare nella nostra mente. Forse per sempre.