Assuntina Coluccia, classe 1936, è nata a Noha da Luigi Coluccia e Aurora Tafuri.
Io e Assuntina abbiamo in comune alcuni zii. Per la precisione i coniugi Carmela Tafuri e Michele D’Acquarica, quest’ultimo noto per gli affreschi delle scene del Calvario di Noha e del San Michele di via Santa Rita.
M’incontro con lei a Cutrofiano, dove vive, mentre sono alla ricerca della sepoltura di zio Michele e, sarà per una forma di simpatia, forse per la mia capacità di ascolto, o perché il nome di Noha suscita in lei questa forma di reazione, insomma comincia a raccontarmi dei fatti del tempo che fu. Sembra una valanga inarrestabile.
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Siamo nel 1940 e Assuntina è una bambina di appena cinque anni. Oggi quella bambina è triste e se ne sta affacciata per un po’ alla finestra di casa sua, quella che guarda su via Castello. Ammira le Casiceddhre dei nani, ma i pensieri sono altrove. Suo papà, il suo grande e forte papà è stato inviato in guerra. Nell'ultima cartolina ricevuta da mamma Aurora, scrive:
“Mia cara moglie, siamo accampati sulle rive del Don, pregate per me”.
Assuntina e i suoi due fratellini attendono con trepidazione il suo ritorno. La famiglia di Assuntina vive in un appartamento della masseria cosiddetta Delle Cambare. E si spiega anche la ragione di quel nome: le cambare.
A Noha quasi tutto è di proprietà di Don Celestino, che tutti considerano ancora il “barone”, anche a feudalità abolita. Se un terreno o dei caseggiati non sono del barone allora molto probabilmente saranno della Diocesi che a quei tempi era quella di Nardò. Di fatto le cambare sono composte da un caseggiato antico, con un unico grande portone di accesso posto proprio di fronte a quello delle case di corte (quello su cui insistono ancora oggi le casiceddhre di Cosimo Mariano, l’autore). Entrando, sia a destra che a sinistra ci sono delle stanze, e a quei tempi ogni stanza era sostanzialmente un appartamento.
Dopo l’ingresso e subito a destra, racconta Assuntina, c’era una grande vasca per pigiare l’uva, e dei gradini per salire sulla terrazza dov’erano ubicate altre tre camere. Prosegue Tina: “la mia casa invece era esattamente dov’è ora la farmacia, al piano terra. Mia mamma Aurora mi raccontava di quando sulle terrazze delle case di fronte gli scalpellini costruivano le casiceddhre”.
Anche nella famiglia di suo papà c’erano gli scalpellini, a quei tempi ce n’erano tanti a Noha, e lavoravano tutti. “Sulle terrazze delle case di corte e fino alle casiceddhre, spesso si vedevano passeggiare tanti signori, solo uomini – specifica - tutti eleganti, con vestiti stirati, tanto di cappelli, e scarpe bianche. Alcuni fumavano sigarette, sigari o pipa, sembravano degli dei. A quei tempi chi poteva permettersi certi lussi se non i ricchi?” Continua così Tina: “E quando rientravano dalla caccia, li vedevamo scendere giù nel giardino senza uscire in strada, probabilmente c’era una scala che portava nel giardino e dall’interno si dirigevano verso la casa dei cacciatori. Noi bambini la chiamavamo “il locale rosso del diavolo”, perché lì in quel posto si spartivano la cacciagione ed era tutto pieno di sangue, per terra e sui tavoli, ovunque”. E ancora: ”Erano signori e bevevano il vino o il brandy nel giardino pieno di gigli e papaveri rossi. E festeggiavano un giorno sì e l’altro pure”, e mentre lo ripete mi guarda dubbiosa: “Quella casa ci faceva paura. Più paura del trabucco, dove si diceva che il barone buttasse dentro le persone per punizione”. Dalla casa dei cacciatori allo stabilimento il passo era breve.
“Appena buio, nello stabilimento del Brandy Galluccio, aveva inizio il turno di notte. Di giorno lavoravano gli uomini addetti alla fornace e alle bolliture dei pomodori e delle mele cotogne, di notte entrava la squadra delle donne che a mani nude pelavano i pomodori ancora bollenti per sistemarli nei barattoli di vetro”.
Come? dico io. Perché le donne lavoravano di notte? E Assuntina: “Le donne di giorno dovevano badare ai bambini e governare casa. Per fortuna le cose sono cambiate, e per le donne oggi c’è più rispetto”.
Tina a questo punto si interrompe, fa una breve pausa e passa velocemente al tempo in cui suo papà, il suo grande e forte papà, portava i suoi “campioni” al traino nella Salpa, fino alla rampa che era ad altezza del piano dei carri. Gli operai spingevano su per la rampa le botti di mosto bordolese destinato in Francia e quando tentennavano per il troppo peso, lui scendeva dal carro e con le sue forti braccia sistemava ogni cosa. Luigi, classe 1908, era il fiduciario dei baroni, gestiva lui la manovalanza e trasportava olive e uva. Era allevatore e padrone di tanti cavalli di razza, partecipava sempre alle feste dei cavalli a Noha, e vinceva tanti premi. E tina: “Era già vedovo quando sposa Aurora, nel 1935, lo stesso anno in cui sono nata io. Ma dopo l’addestramento a Copertino e la partenza per il fronte Russo, di lui non si seppe più nulla. Disperso”.
Tina e i suoi fratelli con la loro mamma, impiegata nel Brandy del Barone devono resistere. Per superare l’inverno riescono a recuperare il fasciame delle botti che si rompevano ancora impregnate di uva, si accendevano facilmente e servivano a scaldare la casa. Nel ’49, dopo la morte del barone, lo stabilimento, passato in mano dei nipoti, non rende più come prima, il lavoro per le operaie inizia a scarseggiare, e dunque lei e i suoi, rimasti senza papà Luigi, sono costretti a “emigrare”, cioè a trasferirsi a Cutrofiano, dove la mamma, grazie all’aiuto di mio zio Michele, trova lavoro presso la ditta Ancora, azienda di Galatina ubicata all’interno dei locali del palazzo ducale. Dalla padella alla brace dei soliti signorotti locali.
E’ qui, a Cutrofiano, che Tina vive ancora, sempre accogliente, sempre disponibile al dialogo, solare e orgogliosa della sua vita e dei suoi fantastici ricordi. Mi ha detto di ritornare perché si è ricordata di una galleria sotterranea che univa il giardino del palazzo baronale alla Salpa, e anche se non la facevano entrare nello stabilimento, lei sente ancora i profumi delle uve e lo stridio della macina e perfino il sibilo silenzioso della corrente elettrica, che per loro, poveri lavoratori al servizio del barone, era ancora fantascienza.
Marcello D’Acquarica