"La verità è che da parte della gerarchia non si nega il diritto ad una scelta, si nega il diritto ad una scelta opposta a quella che la gerarchia stessa ha compiuto." (Mario Melloni, detto Fortebraccio, Dalla parte di lor signori, l'Unità, 25 giugno 1972).
Alcuni medici, giornalisti, teologi, scrittori, filosofi, storici universitari, vescovi e osservatori della comunicazione: Lina Pavanelli, Giovanni Franzoni, Piero Coda, Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Umberto Galimberti, Gianni Vattimo, Hans Kung; Valerio Gigante, Paolo Flores D’Arcais, Emanuele Severino, Andrea Riccardi, Fernando Savater, Leszek Kolakwski, Angelo Marchesi, Carlo Augusto Viano e Vincenzo Paglia, hanno espresso la propria opinione a proposito della beatificazione del Papa Karol Wojtyla considerando le scelte manifestate durante il suo papato. Dalle pagine del volume ("Karol Wojtyla Il Grande Oscurantista"-inserto del bimestrale Micro Mega, Aprile 2011, Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A.) in cui sono raccolti i pensieri degli autori, traspare un uomo semplice e forte contemporaneamente che, volente o dolente, si prende in carico le colpe di un'istituzione che cammina a rilento, legata a vecchie regole non sempre condivise da tutto il contesto della modernità. Scopriamo anche un Papa che percorre il piacere della Filosofia al maiuscolo, del tipo Aristotelico e non mondano (la filosofia della tv, del nostro settore di vendite, ecc.). Un Papa che si ostina a voler sottomettere la ragione alla Fede, scavando nell’animo umano per dimostrare che nel più profondo del cuore dell’uomo è seminato il desiderio e la nostalgia di Dio, e che dunque inconsapevolmente credente è anche lo scettico e l’ateo, poiché altrimenti non sarebbe uomo(pag.160). Viene fuori un grande padre del Novecento, un vero riferimento per le generazioni che vivono in scarsezza di riferimenti.
La cosa che più di tutto colpisce, come avviene anche nell’ultimo film del regista Nanni Moretti: "Habemus Papam", è l’umanità del Papa e di tutti i cardinali, con relative virtù e debolezze, legati ancora al lusso dell’esteriorità e remore o tradizioni arcaiche, celate da prescrizioni non più condivisibili da molta parte dei fedeli, come per esempio: il celibato dei preti, la par condicio delle donne nella gerarchia ecclesiale, il diaconato femminile, la ricerca scientifica (per es. cellule staminali), il “rendere nullo” il matrimonio in certe condizioni, il connubio con i poteri forti, (vedi Pinochet), la necessità di gestire l’alta finanza attraverso l'Istituto per le Opere di Religione (meglio noto con l'acronimo IOR e comunemente conosciuto come Banca Vaticana) oppure tramite movimenti di dubbia purezza spirituale (vedi per es. “l’Opus Dei”, oppure “I Legionari di Cristo”), l’esasperata omofobia senza sconti e, dulcis in fundo, la difesa della vita senza se e senza ma con l’obbligo dell’accanimento terapeutico mediante nutrizione e idratazione artificiale, quest’ultima in accordo con il governo, mediante il ddl Calabrò, in corso d’opera. Lo stesso Wojtyla, a detta del dottor Renato Buzzonetti, l’archiatra pontificio che lo ebbe in cura durante la sua malattia, rifiutò il metodo costrittore della vita oltre la vita (il cosiddetto svp: stato - vegetativo - permanente), pur avendo egli stesso scritto L’Evangelium vitae, enciclica pubblicata nel Marzo del 2005, in cui si legge del dovere di usufruire del supporto di tutti i mezzi resi disponibili dalla medicina moderna. Cosa che invece lui rifiutò, ben sapendo che la sua malattia lo avrebbe portato a morte certa per soffocamento e impedimento nutrizionale (il Parkinson di cui era affetto da 15 anni, gli causava sempre più una contrazione muscolare del tratto tracheo-faringeo che gli impediva la deglutizione. Il Papa è morto “naturalmente” per denutrizione e conseguente calo della sua difesa immunitaria. Negli ultimi 20 giorni aveva perso 19 chili di peso e subìto una tracheotomia urgente che lo salvò dal soffocamento ma non dall’incapacità di deglutire) [pag. 266]. “Lasciatemi andare” furono le sue parole rifiutando una qualsivoglia terapia di accanimento terapeutico, scelta rispettata e vissuta in piena dignità e sacrificio.
A proposito dei diritti dell’ammalato, l’art.32 della nostra Costituzione detta così:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
Il ddl Calabrò viola l’art. 32 della nostra Costituzione in quanto al comma 5 dell’art. 3 recita: “… la Nutrizione e l’Idratazione Artificiale (NIA) sono forme di sostegno vitale finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita, secondo la lettera della legge, quindi, devono essere mantenute fino al termine della vita e non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”. Di fatto contrasta e annulla la Dichiarazione Anticipata di Trattamento obbligando il paziente inabilitato o incapace, a non morire fino alla fine. E’ ovvio che la materia è complessa e i meandri in cui si attorciglia il ddl Calabrò riguardano molti attori del sistema: ammalati, medici, parenti legittimi, ed eventuali ricostruzioni di volontà dello stesso paziente. Il sospetto che venga strumentalizzato in funzione di interessi di parte è difficile da digerire. Resta comunque scandaloso il fatto che non venga riconosciuto vincolante e quindi resti escluso il DAT (Dichiarazione Anticipata di Trattamento). Quindi in attesa dei successivi passaggi parlamentari è opportuno augurarsi che un argomento di tali dimensioni, non venga approvato a colpi di “maggioranza” di alcuna estrazione politica, di destra o di sinistra, verde, bianca, rossa o tricolore o religiosa che sia, ma lasciata al libero arbitrio dell’individuo che è l’assoluto responsabile del proprio destino oltre questo mondo.
Concludo dicendo che nessuno, né medici, né dottori di nessuna chiesa e tantomeno politici, sono oggi in grado di dirci se le persone in stato vegetativo permanente (spv) soffrono perché si rendono conto del loro stato e non possono urlare la loro disperazione a causa del loro corpo menomato o se invece sopportano la loro situazione perché sanno che chi gli sta vicino gli vuole bene. Nessuno può decidere del corpo di altre persone soprattutto se incapaci di intendere e di volere. Nessuno può decidere del nostro corpo se non noi stessi e Dio, in qualsiasi modo lo si conosca o lo si intenda.
Marcello D’Acquarica