Ora non sentirò più dalla sua viva voce: “Ciao, beddhru mio”. O anche: “Come sta la Danzia? E lu Giovanni? Me li saluti, sai”.
Me lo ripeteva ogni volta che, prima dei divieti di socialità imposti per decreto, andavo a salutarla, oppure quando più spesso mi scorgeva di passaggio, con il mio passo eternamente affrettato, nella nostra cara vecchia via Trisciolo: lei, specie nelle calde stagioni, seduta nel suo piccolo giardino prospiciente la pubblica via, oppure in “garage” (abbiamo sempre chiamato così quel vano di ingresso, con la scala che porta su in terrazza), il cui portone – ricordo – ha avuto la chiave nella toppa per decenni interi, dico senza soluzione di continuità.
Gentile era Maria, di nome e di fatto, e generosa. Non c’era festa di compleanno di qualcuno di casa Gentile-Scrimieri, senza che un trancio delle sue torte non arrivasse anche a casa nostra (“Na, è solo un assaggio”, diceva), e di sicuro nelle case di molti altri, vicini e lontani. Come fetta di dolce, o sotto altra specie.
Ero e sono amico di Salvatore, Antonella e Adriano, i suoi figlioli. Con Adriano, poi, compagno di classe, si può dire che, insieme agli altri pari, abbiamo condiviso gli anni “ruggenti” di elementari, medie e superiori: dalla mattina, al dopopranzo dei compiti, sino al pomeriggio inoltrato, quest’ultimo perlopiù trascorso in mezzo alla strada. E la Maria in qualche modo era sempre presente, pronta a non farci mancare niente (io – giuro - ho scoperto per la prima volta il prosciutto crudo proprio grazie a lei: mai visto e assaggiato prima di allora).
Ai tempi della scuola, ogni mattina, la prima persona che incontravamo (dopo le nostre rispettive madri, s’intende) era proprio la Maria Gentile, a casa sua, nel suddetto “garage”: era lei ad accoglierci verso le otto nell’attesa che Adriano suo si desse una mossa e ci evitasse (specie in quinta superiore) gli endemici ritardi alla prima ora di lezione, onde la scusa delle gomme sgonfie della sua Renault4 (era l’unico fra noi a essere “macchinizzato”), o l’alibi della fila inventata alla stazione di servizio, o la risibile giustificazione dell’orologio pubblico di Noha che si era fermato proprio quella mattina (invece era precisissimo: l’arresto arrivò anni dopo e dura tuttora), o le altre arrampicate sugli specchi, a un certo punto non ressero più di fronte ai professori un tantino, e forse a ragione, spazientiti.
Poi il tempo ha divaricato un po’ i nostri contatti, ma rimane tutto il resto, e soprattutto la memoria: quella che tiene in vita tutto. Anche la Maria nostra.
Come vorrei oggi poterle dire in qualche modo: “Ciao, beddhra mia. E salutami lu Donato, la Cetta e la Rita, sai”.
Antonio Mellone