Non so se qualcuno ricorda le autocarrozzerie di una volta, quelle che ti rimettevano a nuovo la macchina dopo le nozze d’argento (voglio dire le nozze tra te e la tua auto). Intendiamoci, non è che i carrozzieri odierni non facciano altrettanto, ché quanto a tecnologia sono così avanti che tramite computer, robot, software e meccatronica riuscirebbero anche a ricostruire i connotati del conducente come manco un chirurgo plastico: è che invece siamo cambiati noi altri, o meglio il rapporto con il nostro mezzo di locomozione: un tempo emblema di fedeltà assoluta (finché morte non ci separasse), oggi di volubilità, e addirittura in nome della transizione ecologica.
L’Autobianchi 500 Giardiniera (cioè station wagon) caffelatte di mio papà Giovanni, per esempio, fu rifatta ab imis fundamentis dopo circa un trentennio dal taglio del suo cordone ombelicale con la concessionaria. Il carrozziere che si chiamava Antonio Rizzo e aveva la sua officina in via Aradeo fu così bravo da non farci quasi più riconoscere la nostra vecchia Famigliare decappottabile: nuova di fabbrica sembrava, fiammante, profumata, “smaltata” nel suo originario colore neutro tattico (così – a parere della regina madre - non si sarebbe notato lo sporco). Il portapacchi in cima, ridipinto d’argento, era la corona di una principessa. Quella povera auto da soma che aveva caricato mante di tabacco, frese, zappe, tini d’uva, rape e cicorie, sacchi di grano, e due volte l’anno tutte le masserizie necessarie per “ritirarsi” in campagna ovvero per rientrare al paese a fine estate, sembrava pronta per un matrimonio di lusso. Le mancava giusto il fiocco di tulle.
Poi mio padre, monogamo per indole e convinzione, l’ha utilizzata fino alle nozze d’oro, che dico, di diamante e mi pare pure di platino (sempre tra lui e la 500 dico): mai un incidente, ricovero in garage la notte, e lavaggio con spugna secchio e suca (pompa collegata al pozzo), ma soltanto quando non se ne poteva più fare a meno.
Tutto questo per introdurre la storia dell’autocarrozzeria di Pietro Serafini, e per dire che c’è ancora chi è legato ai cimeli locomotivi del passato e che per poterne nuovamente godere deve trovare chi se ne occupi con passione e competenza. Sia chiaro, a Noha è pieno di artigiani del settore: abbiamo officine rinomate in tutto il Salento, o meglio in tutta d’Italia (basta leggerne le recensioni on-line); addirittura Antonio della F.lli Mariano, oltre a essere il presidente regionale della Confartigianato del settore, siede anche nel direttivo del Consiglio Nazionale, per non parlare di quei colossi che rispondono ai nomi dei F.lli Bonuso e di Idolo Officine che portano in giro per il mondo (appiccicato alle targhe degli autoarticolati transitati dal loro pronto soccorso) il nome di Noha, e per finire a Ciofficar dei Cioffi, padre e figlio, anch’essi professionisti ad alti livelli.
Dunque non farò un torto agli altri carrozzieri di Noha se questa volta tratto del più piccolo fra loro, Pietro appunto, che nel 2015 ereditò la carrozzeria del papà Roberto, il quale aveva deciso, prematuramente, di andare a riparare le ali degli angeli.
La carrozzeria di Pietro la trovi in via Cadorna al 49, a un fischio dai giardini Madonna delle Grazie e, pur micro, è dotata di tutto quel che occorre: banconi, strumentazioni le più disparate, l’impianto per la verniciatura, il forno per l’essiccazione della dipintura. Ma prima di tutto trovi la pazienza, l’olio di gomito del titolare, la sua arte.
Pietro, trentasei anni d’età e quaranta di esperienza, mascherina, scarpe antinfortunistiche, guanti e tuta di prima mattina, studia i pezzi, si fa uno schema delle procedure e s’immerge nel suo lavoro senza sosta. L’ultima volta che lo vidi era alle prese con una “cosa degli anni ’60”, mi disse: il proprietario non aveva voluto interventi di altri se non il suo, e gli aveva presentato un ferrovecchio osando definirlo “la mia Vespa”. Ebbene quel “ferrovecchio” tempo dopo, non so più in quale concorso, s’era aggiudicato quale primo premio una targa d’oro: una medaglia al merito che starebbe bene anche sul petto di questo cerusico estetico di automezzi.
Non finirei più se volessi scendere nei dettagli del lavoro di questo ragazzo, la sua inventiva applicata agli attrezzati specifici che di volta in volta addirittura s’inventa per salvare geometrie distrutte, la ricostruzione dei punti di riferimento del progetto iniziale, la gestione dei piccoli spazi di un’officina dove non vola nemmeno un granello di polvere, la più duratura stagnatura (che comporta tempo e lavoro) che Pietro s’è incaponito di utilizzare al posto della più caduca stuccatura dei pezzi (più facile e veloce), e la sua tenacia nel non tirarsi mai indietro qualunque catorcio ignobile gli venga presentato per la rianimazione.
Capitoli di molte pagine a parte meriterebbero la sua disponibilità a lavorare con spirito di abnegazione per la comunità (l’ha già fatto ad esempio riportando al suo antico splendore il marchingegno dello storico orologio della torre civica di Noha, oggi esposto nei locali della Scuola Media), nonché il commovente filiale bisogno di conversare ancora, nel suo ideale dialogo quotidiano, con il suo (e nostro) mesciu Roberto.
Antonio Mellone