Ebbene sì, e nel periodo più bello dell’anno: maggio e quota parte di giugno 2021. Mo’ non dite che non ne sapevate nulla ché a Noha per esempio lo sapevano pure i cuccetti. Tranne, forse, il mio confessore (i confessori sono sempre gli ultimi a sapere le cose, seppur ne fossero messi a conoscenza dai diretti interessati).
E dunque il virus s’era preso una cotta per me, innamorato proprio, non mi voleva lasciare nemmeno con le bustine di Aulin. Fortunatamente poche noie dal punto di vista clinico, febbre ballerina per una settimana, un po’ di spossatezza (se no che gusto c’è a fare l’influenza senza neanche sentirla nelle ossa) e null’altro di rilevante. Almeno dal punto di vista fisico: psichico invece sarà tutto da scoprire vivendo. Solo che quella che voi chiamate quarantena per me è stata una quaresima: 40 (dico quaranta) giorni di domiciliari. In tal modo sono andato ad aumentare la già ragguardevole media mobile delle custodie cautelari nohane.
Insomma, dopo il 298esimo tampone, finalmente un esito positivo, vale a dire negativo (eh sì, in medicina il negativo è positivo e il positivo negativo, più o meno come nei referendum).
Ora non chiedetemi come possa essermi contagiato, ché non lo saprò mai, giacché un anacoreta al mio confronto sarebbe un gaudente epicureo da discoteca spacciata per stabilimento balneare; quanto all’uso dei dispositivi di protezione farei invidia contemporaneamente all’uomo mascherato (quello dei fumetti), a un saldatore siderurgico e a un chirurgo cardiovascolare in sala operatoria. Per non parlare poi dell’utilizzo di alcol etilico quale disinfettante (fuori e dentro il corpo), della sanificazione della scrivania prima e dopo l’uso, e del fatto che in ufficio gli avventori entrassero uno per volta e solo su appuntamento (quando si dice casa d’appuntamenti). Sta che nonostante i sistemi profilattici una variante ha bussato alla mia porta penetrandovi poi con tutte le corna, vale a dire la famosa corona.
Ma il mio dramma non è stato tanto l’esser rimasto solo come un mastino tibetano nella mia casetta downtown Noha per così tanto tempo, né quello, proprio all’inizio della storia, di aver fissato per ore il vuoto pneumatico temendo che i miei piani e quelli del Padreterno divergessero oltremodo, né la roba definita smart-working che ti fa lavorare come Kunta Kinte però con risultati tendenti allo zero assoluto, né il terrore di rimanere a corto di libri o di giornali cartacei. Tutto questo è stato alleviato intanto dall’attributo dell’evento (vale a dire paucisintomatico), ma soprattutto da amici e parentado sempre presenti seppur a distanza: e così uno ti porta il giornale lanciandotelo in veranda dopo avergli impresso l’aerodinamicità dell’aeroplanino, un’altra ti spedisce in dono un libro in “piazza del Duomo a Noha” [che non esiste] e il libro ti arriva puntualmente giusto in tempo per risparmiarti la lettura della garanzia (in ideogrammi giapponesi) dell’obsoleto e invero già rottamato cellulare, zia Egle ti telefona prima e dopo i pasti per vedere se respiri ancora, un’amichetta del cuore ti fa pervenire i cornetti e ti chiedi se questi abbiano o meno un significato recondito, per non parlare del vettovagliamento matriarcale giornaliero, talvolta sostituito a sorpresa da quell’altro con dentro il sapore del mare, preparato da ragazzi incredibili come Sara e Manuele.
Sicché l’unica vera tragedia di tutta questa vicenda ha un nome e un cognome: Pulizie Domestiche. Quelle quotidiane. Puntuali. Rigorose. Intransigenti. Imprescindibili. Con le quali, confesso, non avevo avuto dimestichezza e men che meno corrispondenza d’amorosi sensi se non come utilizzatore finale.
Ho dovuto chiedere lumi sul da farsi a qualche mia conoscenza onde evitare di mettere a repentaglio tubature, smalto dei sanitari, splendore dei lavelli, lucido della mobilia ed estetica dei pavimenti. Mai e poi mai mi sarei sognato di chiederne info alla regina madre, ché quella mi avrebbe trascinato in una dissertazione più estenuante di un seminario in Dad della durata non inferiore al lasso temporale che va da qui fino all’ora della nostra morte amen.
Insomma, non è che la curiosità sul tema specifico mi stesse mangiando vivo, ma ho imparato più cose in questi giorni di cattività nohese che all’università, tipo che la polvere più o meno sottile non è un prodotto finito ma un processo continuo inesorabile e spietato.
Un altro dei misteri dolorosi, che credo rimarranno irrisolti in saecula saeculorum, è la quantità di peluria che si deposita su tutte le superfici. Ma quanta. Un discreto mucchietto ramazzato ogni santo giorno (credo di non aver mai scopato tanto in vita mia: sul pavimento dico), onde, sbalordendomi e non poco, arrivavo a dire allo specchio che se fosse tutta produzione autoctona a quest’ora dovrei essere completamente glabro (il che non è). Né potrebbe trattarsi dei rinomati peli sulla lingua, ché quelli dovrebbero esser metaforici e non letterali.
Alla fine della quarantena/quaresima, dopo aver sgobbato come un cavamonti per mantenere lindo il tutto, la regina madre nonché la bravissima signora che l’aiuta nelle faccende casalinghe, irrompono in casa mia (Dio ve ne scampi e liberi: meglio la Guardia di Finanza) entrambe con una mano al naso manco fossero atterrate da Mercurio direttamente in un impianto di compostaggio anaerobico, e con l’altra mano occupata rispettivamente dal Mastro Lindo concentrato e da uno strano strumento che avevo scambiato per la Vorwerk Folletto.
Nossignore, era un lanciafiamme. Per spegnere il focolaio.
Antonio Mellone
P.S. Nell’immagine misuro la temperatura.