Stavolta non mi va di parlare del mio amico Antonio Antonaci, monsignore, professore universitario, scrittore, filosofo, giornalista e non so più cos’altro, citando quel libercolo che pubblicai in suo onore nel 2007.
Per chi proprio non riuscisse a farne a meno sappia che una delle sue copie si conserva nella biblioteca Pietro Siciliani di Galatina, con accluso lo strafalcione di un verbo impresso ormai nei secoli dei secoli a pagina 21. Potrei qui dire a mia discolpa che chi scrive e pubblica - nonostante ogni pagina passi sempre per un purgatorio di rifacimenti - si trova sovente a dover ingoiare, a stampa avvenuta, il rospo dei refusi, ma non mi crederebbe nessuno.
Ora, tenendo a bada la retorica (specialmente la preterizione: o, visto il contesto, la Prete Rizione), vorrei ricordare che Antonio Antonaci oggi compie 100 anni, ma non lo dimostra. E non lo dimostra non perché gli uffici dell’anagrafe galatinese del 1920 non fossero poi così fiscali, onde, come confermatomi da un uccellino, oggi 9 giugno 2020 il festeggiato ha qualche giorno in più del canonico secolo di vita, ma perché Antonio Antonaci è da considerarsi a tutti gli effetti un Classico: vale a dire uno che, essendosi dissetato alle fonti dell’elisir di lunga vita (i suoi funerali del 27 settembre 2011 sono soltanto un dettaglio di secondaria importanza), continua imperterrito, attraverso le sue opere, a fare quel che ha sempre fatto “prima”: vale a dire provare a insegnare agli altri l’immortalità.
Nelle nostre periodiche confessioni (nel senso che era il sottoscritto, laico e tutt’altro che clericale, ad ascoltare le confessioni di un prelato d’onore di sua santità), si parlava degli argomenti più disparati, ma soprattutto della voglia di conoscenza: sicché proiettandomi ben oltre il socratico “so di non sapere”, il professore m’ha fatto cogliere quanto invece io non sappia di non sapere. E pare che sia in buona compagnia. Avete presente l’effetto Dunning-Kruger? Ecco, quello. Con tutto ciò che ne consegue: tipo quella specie di danno legato al fatto che, da un lato, chi è incompetente non sente alcun bisogno di apprendere di più, ha fiducia in se stesso e, come suole, guarda il mondo dall’alto della sua “cattedra” verso il basso riempiendosi la bocca di “scienza”; dall’altro, l’esperto, proprio perché sa quanto possa essere complicata la realtà, non raggiunge mai il livello di fiducia nelle proprie capacità (che invece appartiene all’inetto).
Ed ecco spiegato icasticamente gran parte del diciamo dibattito attuale, al netto dell’anarchia grammaticale. Che il diversamente erudito chiamerebbe licenza poetica. Quando poi, come direbbe il novello centenario, basterebbe una buona licenza media.
Antonio Mellone