Da quando sono al nord ho imparato a guardare alla mia terra d’origine con un amore e una misericordia che prima non conoscevo. Così, mentre quella volta la mia infanzia trascorreva senza tanti fronzoli, noncurante di ciò che avevo intorno, ora, da lontano, da molto lontano, osservo ogni foto che mi giunge attraverso questo scellerato monitor. Ne studio i dettagli, le riguardo per vedere se tra quelli immortalati c’è ancora qualcuno che conosco. Guardo i colori, le ombre. Anche se si tratta solo di un’immagine sullo schermo, cerco di capire se è cambiato qualcosa rispetto a come ricordo io le cose; i volti, gli sguardi, le strade, le case. Osservo la piazza del paese e mi chiedo se è la stessa piazza di quando avevo undici, dodici, tredici anni.
Faccio molta attenzione a tutto, ma ho sempre la stessa sensazione, come se qualcosa fosse cambiato inesorabilmente, e non capisco cosa. Forse è cambiato tutto o forse tutto è esattamente così come l’ho lasciato quella volta, e ad essere cambiato sono io, solo io, certamente in peggio. Allora corro subito a ripensare alle mie pasquette, alle mie cuccagne, alle mie settimane sante, e nei ricordi rivedo tantissima gente, una folla sterminata, come se Noha a quei tempi contasse centomila anime. Ora, invece, conteggio le persone per capire se, sulle dita, riuscirò a superare il numero dieci, e non ci arrivo. Allora mi sembra che i centomila ora siano solo nove a Nove, neanche dieci. Cosa c’è che non torna in quelle processioni fotografate? Cosa manca in quelle chiese del giovedì santo? Chi ha allestito? Chi ha addobbato? E le statue erano le stesse che ammiravo io, ammutolito per le loro apparenti immobilità?
Ricordo che quando ero ragazzo quelle forme di cartapesta si muovevano, anche se liturgicamente sconsigliato. Tutto il paese era in movimento. I colori erano diversi. Tutto era diverso. Allora finisco sempre col pentirmi: basta vivere di nostalgia e ricordi; è normale che il presente non sia come il passato, deve essere così; è tutto normale. Il presente è presente. Ma cosa volete che vi faccia: a me qualcosa non torna in questa faccenda.
Perciò mi sono fermato un paio di giorni per cercare di capire cosa c’è che non va in tutta questa storia; non può trattarsi solo di una stupida impressione. Ed ecco che ad un certo punto capisco, mentre mi accarezzo la fronte con due dita. C’è una differenza tra la Noha di ieri e quella di oggi: il voler far bene le cose, o almeno il provare a farle in un certo modo. Ed ecco che i ricordi si rianimano: rivedo la Cetta e la Concettina, due donne di accoglienza, sulla porta della chiesetta Madonna di Costantinopoli. Giuseppe è sulla scala che cerca di legare ai pali fantasma, dimenticati dall’amministrazione comunale, delle bandierine innocue. Lino, con il suo sciupato coltellino, recide le erbacce dai bordi dei marciapiedi. Sotto c’è Ezio. Piera sta incastrando i fiori come se volesse colorare il mondo intero. Ci sono tantissimi ragazzini che indossano tunichette sdrucite, credo che siano dei chierichetti. Le chiese, tutte le chiese sono pulite, profumate, in ordine. Le sedie allineate, i banchi lucidi, le tovaglie bianche. Ci sono molti sotto i diciott’anni, gruppi, file di donne, uomini con le mendule. Non ci sono più le foto di una volta! Cos’è successo alla mia Noha? E mentre penso a tutto questo, ritorno alla realtà.
- Di cosa stavamo parlando, don Gabriele?
- Dei ragazzi. Dello spettacolo.
- Ah sì, certo! Dicevi?
- Dicevo che ho insegnato ai ragazzi che quando si deve fare qualcosa per Gesù, la si deve fare bene. Bene! Altrimenti è meglio non far nulla.
- Credo che tu abbia ragione, don! Bisogna fare le cose per bene.
A Noha bisogna far le cose per bene. Allora riguardo le foto. Ci sono le transenne nello stesso posto non so più da quanti anni. Le sedie sono confuse. I banchi opachi. Non ci sono i gruppi, i ragazzi, le statue sono immobili, indifferenti anche verso quei pochi che ancora le guardano. Non ci sono le tunichette; c’è vento come c’era quella volta.
Bisogna far le cose per bene.
Quegli altari ricoperti di carta che sa di natale, del colore della roccia. Ed è il venerdì santo. Le strade incredule e ammutolite. Bisogna fare bene le cose. Eppure credo ancora che il bello possa piacere dappertutto.
Cosa hai fatto tutto questo tempo? Ho messo i fogli sui banchi, ho riagganciato la tenda, ho tolto i fiori secchi, ho ripensato a tutti quelli che ci mettevano del tempo, tanto tempo, per far le cose bene, per fare tutto in un certo modo, per tenere il bello vicino perché non voli via. Le mani di quelle donne e di quegli uomini, a furia di tenere il filo, si sono tagliate e hanno dovuto lasciare per sempre la presa. Altri poi, finalmente, hanno creduto di voler riafferrare lo spago e, dannazione, hanno finito col pensare che il bello, forse, è meglio che voli via, lontano lontano, più lontano anche dei più cocciuti ricordi.
Fabrizio Vincenti