Secondo un mio personale sondaggio condotto con l’utilizzo di un “campione bernoulliano” (insomma ho posto la domanda soltanto ad alcuni candidati: agli altri era del tutto inutile, tanto scontata sarebbe stata la risposta), l’80% dei concorrenti alla poltrona di Sindaco e/o consigliere comunale non conosce il programma stilato dagli avversari, nemmeno i tratti più salienti, e quindi non sa cogliere le differenze (posto che esistano) con il suo. Anche perché il restante 20% di questo campione non conosce nemmeno le proposte della propria fazione.
Con questi dati alla mano, attraverso un banale processo di inferenza statistica, si può ragionevolmente dedurre che la percentuale di elettori che non padroneggia almeno due punti del programma dei propri beniamini s’aggira intorno al 150%.
La scelta dunque del sindaco ideale per il proprio comune diventa una vera e propria variabile aleatoria, ovvero stocastica, vale a dire ad minchiam: ergo con grandi probabilità di vittoria del peggiore e non del migliore [migliore che - a dispetto dello stucchevole luogo comune secondo il quale “sono tutti uguali” - per nostra fortuna in loco esiste eccome: basta saperlo individuare usando quell’organo che ha grandi potenzialità ma che sovente non utilizziamo appieno se non quando siamo all’acme dell’eccitazione ovvero al massimo del suo stimolo, vale a dire il cervello, ndr.].
Siccome stiamo discutendo del futuro del territorio, e di conseguenza del nostro e di quello dei nostri cari, mi permetto di dar qui di seguito a galatinesi e frazionesi qualche sollecitazione o qualche imbeccata sul metodo da utilizzare per selezionare chi avrà l’onore e soprattutto l’onere di diventare il nostro Primo Cittadino.
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La prima linea di demarcazione è quella del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso.
Bisognerebbe prestare molta attenzione e quindi scansare come la peste bubbonica i candidati e i loro accoliti che solo qualche mese fa hanno sostenuto fino allo spasimo (per fortuna perdendo rovinosamente) una cosiddetta riforma della Costituzione scritta con i piedi, anzi con l’artrite reumatoide dei piedi: una proposta di modifica della legge fondamentale dello Stato che ha provato a spaccare anziché unire il Paese, e che, oltretutto, con l’abolizione della “legislazione concorrente” e con la clausola di “supremazia statale”, avrebbe fatto contare i territori (tipo i Comuni) come il due di picche con briscola a denari, persino su argomenti essenziali alla loro stessa sopravvivenza (come: Tap, Trivelle, Ilva, Cerano, Ulivi, strade statali, inceneritori, per dire).
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Un altro elemento di scelta è il tema del giorno: “Laurea sì, laurea no”.
Ora. Chi scrive crede che la laurea non sia più un’attenuante (veramente non lo è mai stata) bensì un’aggravante per il “candidato laureato” che, con la spocchia del togato, continua a fare in pubblico e con nonchalance i suoi strafalcioni lessical-grammaticali, e - anziché vergognarsi e andarsi a rinchiudere in qualche comitato elettorale di periferia buttando via la chiave - addirittura se ne auto-compiace in un crescendo di ridicolaggine corroborata dagli applausi scroscianti dei suoi turiferari (i quali, ove possibile, son peggio di lui). Meglio dunque un candidato con la terza media fatta per bene, che un laureato più o meno fresco di toga grazie magari ai bignami, ai bigini, alle slide o ai riassunti gentilmente fornitigli dagli altri (onde il suo ultimo libro studiato approfonditamente fu il sussidiario delle elementari, ma soltanto perché costrettovi dalla scuola dell’obbligo).
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Un’altra selezione radicale dovrebbe avvenire in considerazione dei partiti che compongono certe coalizioni a sostegno di questo o quel candidato.
La prima da non toccare nemmeno con una canna da pesca telescopica è l’ormai tristemente famosa accozzaglia pigliatutto destra-sinistra [o meglio: sinistra-chiamatemi, ndr.] nata in diretta nel corso di una trasmissione televisiva di Telerama (la famosa Open, cioè Vucchiperti). Un trasversalismo mefitico e pestilenziale, cinico e politicamente foriero di ulteriori tremebonde schifezze: altro che “siamo tutti Fratelli d’Italia”.
La seconda coalizione intoccabile è quella composta dai mammasantissima dell’eterna destra locale sempre uguale a se stessa (ci manca giusto la Lega per fare l’en plein) i cui leader storici a livello nazionale potrebbero essere annoverati tra gli impresentabili. Me ne vengono in mente due, sufficienti per decidere di starne il più lontano possibile.
Il primo partito è quello il cui proprietario fu condannato poco tempo fa per frode fiscale, assegnato ai servizi sociali, prescritto nove volte per dei reati molto gravi, prosciolto invece in altri casi [non per non aver commesso il fatto, ma perché il fatto non è più reato, essendo nel frattempo arrivata –guarda un po’ - l’ennesima legge ad personam, ndr.]. E’ il tristemente famoso presidente delle olgettine, quello della nipote di Mubarak e della compravendita dei senatori, quello che ci ha fatto fare tante figure di merda anche a livello internazionale, e ultimamente, a beneficio di allocco, si fa pure ritrarre con gli agnellini in braccio, poverini [poverini gli agnellini, e i suoi seguaci, probabilmente appartenenti alla stessa razza ovina, ndr.].
Il secondo partito è quello che ha fatto più volte rivoltare nella tomba non dico Marx ed Engels, ma lo stesso Pietro Nenni. E’ il partito nato a sinistra e finito a destra, quello che ebbe quale segretario (poi addirittura presidente del consiglio) il famigerato politico corrotto morto latitante ad Hammamet. Pare che ci sia tuttora in giro per Galatina un nostalgico, per di più candidato nelle liste di codesto partitino, il quale sta cercando di darla da bere a noi altri attraverso un’operazione amnesia (o forse amnistia), con una serie di scritti pubblicati sul web un giorno sì e l’altro pure, conditi dai famosi racconti strappalacrime della “barberia” [evidentemente gli affiliati a questo partito saranno esperti in barba e capelli agli italiani, ndr.]. Sta di fatto che durante la permanenza al governo di questo giglio o meglio garofano di campo, vale a dire dal 1983 al 1986, il rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo passò dal 70% al 92% [ottime referenze, dunque, per il risanamento finanziario del comune di Galatina, ndr.].
Per la cronaca, il suddetto il politico corrotto (che alcuni vorrebbero santo subito) aveva intascato su conti esteri per sé (e non per il partito) tangenti per circa una quarantina di miliardi del vecchio conio. Certo, il partito ne aveva presi molti molti di più, però, come si dice, chi si contenta gode [ma chi gode si accontenta di più, ndr.].
Pare che i novelli adepti della suddetta consorteria continuino a chiamarsi tuttora “compagni”, e sembra che abbiano (come allora) un concetto molto elastico di legalità, tanto che per esempio chiamano “folklore” i manifesti abusivi attaccati un po’ dovunque. E’ proprio vero: “L’arte de lu tata è menza mparata” [il mestiere del padre (politico) è già imparato a metà, ndr.].
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Infine ci sarebbero da schivare [qui alla v si potrebbe sostituire la f, ndr.] i candidati diversamente politici; quelli che nei confronti pubblici fanno a gara a chi la spara più grossa menando il can per l’aia; quelli che nei comizi pensano (pensano, si fa per dire) e parlano (sbraitano sarebbe più azzeccato) come mangiano; quelli che manifestano a cento decibel la propria pochezza (o più frequentemente l’ochezza); quelli che ostentano più poster pubblicitari che idee politiche; quelli che aprono e chiudono le loro kermesse in piega con la sigla-tormentone “De Pascalis Karma”. Insomma quelli che, in caso di vittoria, sarebbero in grado di trasformare l’undici giugno nell’undici settembre della nostra povera piccola patria.
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Detto questo, non riesco a spiegarmi perché mai quando di recente ho formulato gli auguri per la sua elezione a Sindaco a quell’unico candidato degno di assumere una carica così importante, questi mi ha risposto risentito: “Ma Sindaco a chi? Sindaco, vallo a dire a tua sorella”.
Mah, vai a capire.
Antonio Mellone