E’ molto probabile che la Noha antica si estendesse nella piana tra il suffeudo di Pisanello e il fondo di Santu Totaru. La città Messapica giace sepolta nella terra, sottomessa come fu definitivamente da Roma nel 216 a.C., dopo l’ultima grande ribellione contro l’invasore (*). E’ probabile che quel centro Messapico avesse un altro nome, affatto diverso da quelli poi riportati nei testi storici e nei registri Parrocchiali: Noe, Noje, Novae, Nove, Noha. Per darle un legame più fantasioso ma anche in linea con il linguaggio di quel tempo, possiamo immaginare che si chiamasse proprio “ERQUANNA“ così come inciso sul Menhir ritrovato nei campi di Santu Totaru e celebrato negli scritti del nostro attento osservatore della storia di Noha, P. Francesco D’Acquarica.
Alcuni studiosi di Greco antico, con l’aiuto della nostra concittadina Maria Grazia Chittani, che vive in Grecia, hanno tradotto il testo inciso sulla superficie del nostro Menhir. Secondo le loro deduzioni si tratta di un nome femminile: Erthyanna (Giovanna).
Piuttosto articolato era il culto dei Messapi, rappresentato nelle prime fasi dal “culto aniconico (senza immagini) del pilastro-stele”, poi da cippi iscritti – a volte con nomi di individui – associati a depositi votivi che potevano assolvere ad una funzione religioso-cultuale, con valenza dedicatoria, votiva o funeraria. Ad una fase successiva risalgono i luoghi di culto caratterizzati da colonne sormontate da simulacri: celebre, a tal proposito, è il caso dello Zeus stilita adorato sull’acropoli di Ugento.
Nei tempi successivi al periodo Messapico, il Menhir di Noha è stato riutilizzato per altre funzioni, come si può dedurre dai vari incavi che gli antichi Romani usavano per incastrarvi altri elementi con il piombo fuso.
La dichiarazione seguente e la spiegazione analitica di ogni lettera della scritta ritrovata sul menhir di Noha, sono il risultato del lavoro eseguito dalla prof.ssa
Elena Deventzi e dall’insegnante di Greco antico Areti N. Kapralou.
Così conclude la nostra prof.ssa Elena Deventzi:
Sono Elena Deventzi, laureata in lettere classiche.
Secondo la nostra interpretazione, si suppone che la scritta
indichi un nome femminile: “Erthyanna”
Resta ancora il dubbio se la parola incisa sulla nostra pietra appartenga ad una devianza della lingua Messapica ancora poco conosciuta, oppure se possiamo annoverarla “tra le circa 350 iscrizioni di cui noi disponiamo” (*).
Se la presenza della lettera Y la esclude dall’essere considerata Messapica oppure se è uno dei rari esempi che potrebbero sovvertire uno dei punti fermi dichiarati dagli studiosi, secondo cui la lettera Y manca totalmente dal linguaggio scritto dei Messapi (*).
A noi piace l’idea che l’antico nome di Noha fosse Erthyanna (Giovanna), e dunque, alla luce del doppio senso dei nomi, e della corrispondenza tra le cose e i loro nomi (“Nomina sunt consequentia rerum”) che significasse Piena di Grazia, ovvero Dono degli Dei.
A questo proposito non possiamo non citare Dante Alighieri, il quale nel XII Canto del Paradiso, ai versi 78-80, fa esclamare a Bonaventura da Bagnoregio, a proposito di San Domenico:
Oh padre suo veramente Felice!
oh madre sua veramente Giovanna,
se interpretata val come si dice!
Se avesse fatto un salto a Noha prima, magari il Poeta avrebbe usato direttamente il vocabolo Erthyanna.
(*) Cfr. Cesare Daquino, I Messapi - Il Salento prima di Roma, Capone Editore, 1999, pag. 90.
Anche le immagini seguenti sono tratte dal succitato volume.
Marcello D’Acquarica