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IL MITO
Di Marcello D'Acquarica (del 22/12/2017 @ 16:50:56, in NohaBlog, linkato 2299 volte)

A ovest, il muro di cinta della mia vecchia scuola confinava con i prati. Lo rasentava uno strettissimo sentiero che a nemmeno un metro di distanza, cedeva il piano ad una scarpata profonda quasi due metri.

La camminata sul battuto però era sicura, l’avevano calpestata centinaia di piedi. Quel sentiero era l’ultima strada a ovest che percorreva l’abitato da nord a sud e viceversa. Bisognava fare attenzione solo a qualche spuntone di pietra e pochi cespugli di piante spontanee e spinose. La campagna in quel tratto sembrava ai nostri occhi uno scalare di montagne immaginarie su piccolissimi dislivelli del terreno che con i monti nulla avevano a che fare, se non le rocce affioranti e bianche, macchiate dai colori dei muschi di stagione. A far temere il cammino dei nostri passi, stavano al fondo del precipizio, più o meno all’altezza del muro di cinta, due grandi fosse colme di reflui di liquame stallatico, che si dice le avessero scavate, le fosse, i soldati dell’armata del Reich in sosta a Noha nell’ultima guerra.

Dal quel sentiero in direzione sud, s’usciva dall’abitato attraversando una folta boscaglia di fichidindia. Da qui, dove ancora non c’erano case, aveva inizio il viale degli eucalipti. L’avevano impiantato quando tutti eravamo più poveri ma avevamo l’amor proprio, diremmo oggi: l’onestà intellettuale. Sempre da ovest, allineata con via Benevento, dritto dritto s’incrociava un altro sentiero stretto e lungo, che dopo aver superato in linea d’aria l’altezza del camposanto,  spariva fra gli ulivi di contrada Roncella. Il mito era ovunque: nei racconti dei vecchi, nelle fiabe di scuola o nelle visoni collettive dei nostri piccoli cervelli imbottiti di personaggi fantomatici o di anime di morti che attendevano al varco gli incauti viandanti non conformi all’avanzare della notte. Allora veniva facile imbattersi nel capitan Burrasca che brandendo la spada richiamava lo sguardo dei suoi fidi alla punta dei suoi baffi, oppure la piccola vedetta lombarda o l’uomo volante e addirittura il buon cappuccetto rosso. Troppa poca adrenalina? Eppure eravamo felici.

Il suono della campanella quella mattina tardava a farsi sentire. Marino, il nostro bidello, s’agitava visibilmente ed il suo andirivieni fra il cancello e la porta d’ingresso che sovrastava la scalinata d’accesso, era motivo per noi, diavoli educati a suon di mazzate, di inquietudine e alibi per fomentare il disordine.

L’ordine imposto dal buon bidello era visibilmente precario e il flusso della marea maschile tendeva a volte a  straripare all’esterno della cinta muraria e a volte tra le fila delle composte compagne  in grembiule a  quadretti bianchi e rosa.

Saltata la corrente e quindi a campanella ammutolita, tutto lasciava  presupporre un buon motivo per fuggire per le vie del paese, in direzione opposta a scuola e case, liberi e forsennati come dei piccoli pony imbizzarriti che hanno appena scavalcato il recinto che li imprigiona. All’orizzonte si parava il mistero. Una barriera grigio perla di ulivi attraversati necessariamente da antichi tratturi, le nostre carrare che appena larghe oltre il metro e mezzo si chiamavano vie. E così l’unica via era quella che portava alle due  Roncelle, la piccola e la grande, e l’altra più a nord che passando davanti alla masseria Colabaldi portava dentro le viscere di Galatina, come dire, l’ingresso di servizio. Il resto erano solo carrare, stretti sentieri tortuosi che scansando cozzi variopinti e fazzoletti di terra coltivati, si snodavano dolcemente in quella che era  la nostra bellissima campagna. Un mito, appunto.

Ora invece l’hanno ribattezzata  area artigianale. E tra montagne di pannelli fotovoltaici, muretti a secco sventrati o divelti del tutto, alberi secchi e bruciacchiati e distese di rifiuti di ogni genere, non ha più il sapore di campagna ma solo di una terra quasi morta. Come l’acqua sporca in fondo alla vecchia cisterna e l’aria che ad ogni girata di vento, puzza terribilmente di civiltà bruciata.

M. D’Acquarica