La frequenza dei lidi più glamour del Salento non rientra tra le esperienze più formative del mio curriculum vitae. Le ore di sosta in codesti status in luogo da parte mia sono infatti così sporadiche e casuali che si contano sulle dita di una mano monca.
L'accidentale presenza del sottoscritto all’interno di certi recinti è dettata più dalla voglia di studiare l’omologante fenomeno antro-politico (una specie di stage in Sociologia a proprie spese) che da una forma di epicureismo applicato.
Io preferirei invece scogliere e spiagge – a trovarne in giro - senza stabilimenti balneari esclusivi che, appunto, mi escludono: anche perché certi stili di vita stanno allo scrivente come la crema pasticciera sulla pepata di cozze.
Mi piacerebbe che il demanio pubblico continuasse ad essere tale: cioè pubblico, inalienabile, imprescrittibile, e possibilmente salvaguardato dalle concessioni ai privati per un piatto di quattro salti in padella.
Prediligo francamente i sempre più rari litorali liberi da tubi, pali, chiodi, piattaforme, gradini, passamano, tettoie, tende, sbarre, ponticelli, paraventi, porte, cancelli, legno e ferro, e soprattutto da botteghini all’ingresso e parcheggiatori un po’ prima (che magari alla richiesta di rilascio di uno straccio di scontrino fiscale ti rispondono con un’unica emissione di voce molto simile a un muggito, quando non a un belato).
Io scelgo gli arenili senza lettini, sdraio, amache, poltrone, puffi, tavolini, cabine, ombrelloni e box-doccia. Oltretutto credo che sia più igienica la spiaggia rivoltata da vento e moto ondoso e sciacquata dall’acqua salata che il nylon della branda lavato a fine stagione “con la suca”.
Opto per le superstiti marine preservate dalla musica a palla, nefandezza culturale nonché cafonata molesta che ti costringe a sgolarti pure in riva al mare, anche solo per scambiare due chiacchiere con l’interlocutrice di turno. E’ che mi piacerebbe decidere da me quali, quando e a che volume ascoltare i brani della colonna sonora della mia vita. Son fatto così: tifoso accanito di quella pace che ‘il mondo irride ma che rapir non può’.
Adoro leggere i miei libri avvolto da sovrumani silenzi e profondissima quiete, o al più con il sottofondo de ‘lu rusciu de lu mare’. Ma questa forse l’ho già detta altrove.
Evito di prendere ordini dagli altri, specie se impartiti con l’altoparlante e per di più durante le ferie estive. Privilegio i lidi salvi da drink che a una certa ti fanno pure venire la malinconia ai neuroni (ognuno ha la sua reazione all’alcol, che volete), oltre a intasare i bidoni del pattume e gli stomaci dei già ventrazzamuniti pastasciuttisti.
Il concetto di ‘happy hour’ per me ha un significato completamente diverso da quello scribacchiato con gessetto colorato sulle lavagnette all’ingresso di certe balere, ma qui non è d'uopo ripeterlo. Frequento le ultime battigie scampate al cicaleccio e redente finalmente dai trenini delle feste de “La grande bellezza” che non vanno da nessuna parte (e ovviamente non ve ne svelerò mai l’ubicazione, né gli orari).
E, infine, quando sento parlare di Twiga (di cui apprezzo soltanto la variante anatomica in rima) penso subito all’acrostico VIP. Che potrebbe alternativamente significare: V’Imploro, Pietà; Veri Idioti Paganti; Volpi Immutato Pelo; Vi Inculcano Porcate.
All’ultimo verbo, a piacere, potreste omettere la seconda c.
Antonio Mellone