C’è qui un gruppo di ragazzi ai quali non importa la partita doppia.
La loro contabilità conosce solo il dare. All’avere preferiscono l’esserci. Per questo fanno a pugni con il destino.
Migranti in casa loro non si scoraggiano di fronte allo sfratto: ne hanno ormai il callo. La loro Bet Lèhem, casa del Pane, non riesce a trovare alloggio stabile: il suo destino sembra essere l’espulsione, l’allontanamento, una porta in faccia.
Fu così anche per la ragazza madre e per il padre putativo cui fu assegnato il compito di accogliere il Figlio dell’Uomo.
Sbaraccare con cortese sollecitudine è l’espressione che questi ragazzi non s’aspettano ma che arriva puntuale con cadenza periodica: ieri da una masseria, oggi dalle casette, domani da chissà dove.
C’è chi intende il diritto di proprietà come esclusivo, senza obiezioni o ragioni, e non immagina la nudità di chi rischia di perdere il suo alloggio e fissa il cielo della stanza temendo di trovarsi senza.
Così s’apparecchia il presepe vivo di Noha, partendo da uno sfratto, una rimozione, un rifiuto.
Nel parco con torre e ponte sfrattati dall’oblio, tra mura scrostate ricovero di immagini e di storie, il viandante troverà dimora ospitale, e potrà capitargli d’interrompere gli incontri mancati con quel Dio, si spera, pronto a riscattare gli sfrattati dal lavoro, dalla casa, dalla propria terra, dal letto coniugale, dalle amicizie credute vere, da un ospedale senza risorse, da una scuola che cade a pezzi, da una terra che trema.
Questo luogo diventa il domicilio del pane vivo disceso dal cielo, residenza di un Dio sfrattato dalle stelle.
Antonio Mellone