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Dal Gran Sasso a Wojityla attraverso il credulismo feticista
Di Redazione (del 21/02/2014 @ 22:37:54, in Un'altra chiesa, linkato 2649 volte)
Campeggia a tutta pagina, su uno dei maggiori quotidiani di oggi, il titolo a caratteri cubitali: "Presi i ladri ma la reliquia di Wojtyla non si trova". Come se il fatto fosse di interesse nazionale e di una gravità senza pari, tra i mille reali problemi che affliggono la vita sociale, politica ed economica di questo Paese. Di notte, dei ladri si sono introdotti nella chiesetta di san Pietro della Ienca, al Gran Sasso, trafugando un reliquiario ed un crocifisso.
Apriti cielo! Notizie sui giornali e sui telegiornali, locali e nazionali; interviste a Vescovi e sacerdoti; interrogativi sulle Messe nere e sedute spiritiche. In particolare, nell'ascoltare la notizia dal telegiornale della sera, mi sono sentito come un marziano catapultato in un mondo extra, incomprensibile e impossibile ad ogni comunicazione. Come prete avrei dovuto fremere di sdegno, stigmatizzando una società "senza più religione!" Avrei dovuto segnarmi col segno della croce e pronunciare giaculatorie riparatrici contro la vergognosa "profanazione". E invece sono rimasto freddamente indifferente dal fatto e fortemente disgustato dalla generale indignazione. Si è parlato e scritto di "alto valore", di "dissacrazione", di "pubblica ignominia", come se avessero sequestrato il padreterno, quando invece si trattava di un semplice pezzetto di stoffa macchiata di sangue.
Mi sono messo le mani ai capelli non perché scandalizzato dal fatto, ma perché scandalizzato dallo scandalo. Agli amici che con me ascoltavano la notizia ho chiesto: "Ma dove sta tutto questo grande valore? Un pezzo di stoffa è sempre un pezzo di stoffa".
Mi indigna, e fortemente, questa trasposizione dei valori dalle persone alle cose. È semplicemente scandalosa questa sacralizzazione degli oggetti, all'interno o, peggio ancora, in nome di una Fede, quella cristiana, che ha desacralizzato, nella figura del Gesù di Nazareth, anche il Dio della soprannaturalità. Sembra che Lutero e la rivoluzione protestante non abbiano insegnato nulla a noi cristiani del ventunesimo secolo, appiccicati al culto della personalità e intruppati nel culto delle reliquie a volta impossibili e spesso umilianti.
Presso la stragrande maggioranza della gente, credenti e non, fede e credulità sono sinonimi: anzi, questa è l'espressione evidente e chiara di quella. Così come si suol identificare la fede con la religiosità e questa con il cultualismo e questo con il ritualismo, in una progressiva e degradante reciproca contaminazione. Quando invece la fede evangelica si oppone alla religiosità in genere e al feticismo in particolare. Nella coscienza del cristiano fede e feticismo, credere e credulismo sono termini che indicano realtà antitetiche. E saper restare in piedi, da adulti, in una fede che non degradi in un rapporto mercantile con dio, non è da poco né facile per noi cristiani del ventunesimo secolo. Di fronte a questa urgenza, bisogna purtroppo constatare come nel mondo moderno, a dispetto del "progresso" e di ogni "disincanto", ci sia un rigurgito paganeggiante di una religiosità feticista e miracolista che acquieta gli animi, morfinizza le coscienze e gratifica le gerarchie. Uno spettacolo sottomesso a duro giudizio da Umberto Galimberti quando il 3 maggio 1999, in occasione della beatificazione di Padre Pio si chiedeva: "Che fede è quella che crede nel santo dei miracoli?"
Sappiamo tutti, infatti, che cosa la gente chiama miracolo: la fuoriuscita istantanea dal proprio dolore, o la soddisfazione immediata di un proprio desiderio. È questa la buona novella del Cristianesimo o è il suo più radicale fraintendimento? Alimentare nella gente quelle vane illusioni, farla sognare al limite del delirio io credo che non sia solo una cattiva educazione, ma produca anche quel mantenere le folle a uno stadio infantile. Spiace vedere il Cristianesimo ridotto a questi livelli. Credenti e non credenti si pensava che la fede proposta camminasse per sentieri più impegnativi, che la speranza rilanciata al di là del pessimismo si distinguesse dal gioco delle illusioni e che la carità predicata portasse fuori l'umanità da quella logica elementare amico/nemico che ancor oggi regola tragicamente i rapporti tra gli uomini.
Purtroppo, a cento anni di distanza, dobbiamo concludere con Chesterton che "Da quando gli uomini non credono più in Dio non è che non credono più a nulla; credono a tutto".
Magari addebitando ad una mai sufficientemente cresciuta natura umana quella malattia strana che Fëdor Dostoevskij descriveva nel suo grande capolavoro, "I fratelli Karamazov": "Dal momento che l'uomo non è in grado di rimanere privo di miracoli, egli si crea da sé miracoli nuovi, e si inginocchia dinanzi al miracolo del ciarlatano, alla magia della fattucchiera, pur rimanendo cento volte ribelle, eretico e miscredente".
Don Aldo Antonelli – parroco in Antrosano (AQ) - 31 gennaio 2014