Se diamo uno sguardo ai beni culturali di Noha, e se dimostriamo appena un pizzico di sensibilità nei confronti del nostro patrimonio storico-artistico, non possiamo evitare di chiederci perché mai la sublime eredità che ci è stata consegnata dalla storia è costretta a fare l’ingloriosa fine che è sotto gli occhi di tutti (inclusi i ciechi, gli orbi ed i bendati).
Ebbene sì, ormai lo sanno anche le pietre che stiamo dando il colpo di grazia alla memoria dei nostri padri, alla bellezza della nostra terra, all’opera di chi ha costruito capolavori, innalzato cupole, issato menhir, eretto torri medievali di avvistamento e difesa nonché torri civiche con campanile ed orologio, incavato frantoi ipogei, miniaturizzato casiceddhre in pietra leccese, edificato pietra su pietra la stupenda casa rossa, fabbricato masserie antichissime, scavato trozze con tanto di puteali scolpiti in pethra aurea, architettato il palazzo baronale ed il suo bellissimo giardino d’aranci, realizzato la distilleria del Brandy Galluccio, e così via.
Ora per favore non mi si venga a dire con la prosopopea emblematica di chi non ha mai capito un cavolo né di diritto né di economia che “il privato è più efficiente del pubblico”. Ai giuristi de noantri ed agli economisti per caso vorrei sommessamente dire che a Noha c’è la lampante dimostrazione dell’esatto contrario.
Oddio, non è che qui il pubblico brilli per particolari virtù (anche perché a Noha il pubblico forse non è mai esistito, e se anche fosse – ipotetica del terzo tipo – lo sarebbe ancora una volta per sbaglio. Per averne un esempio basta osservare con quali efficienza-efficacia-economicità questo pubblico ha fatto ristrutturare la vecchia scuola elementare di Noha dissipando 1.300.000 euro – bruscolini - e scordandosi al contempo di pensare all’allaccio all’energia elettrica come dovuto, onde, ad oggi, nella suddetta struttura, non è possibile far funzionare nell’ordine: impianto fotovoltaico, ascensore, apparato di condizionamento dell’aria, varie ed eventuali. Ma questa è un’altra storia).
Dicevo dei privati. Ebbene sì, la maggioranza assoluta dei beni culturali nohani è in mano ai privati. I quali – forse ingrati, e in tutt’altre faccende affaccendati come con molte probabilità sono e saranno sempre stati - tutto hanno in mente di fare men che di prendersi cura dell’oro che hanno per le mani.
Non è un mistero doloroso il fatto che la torre con ponte levatoio, sì, quella medievale vecchia di sette secoli, si mantenga in piedi ormai quasi per quotidiano miracolo (ed i miracoli, si sa, non si ripetono all’infinito); che il palazzo baronale, meglio noto come il castello, ormai senza più anima viva al suo interno dopo la dipartita degli ultimi inquilini, stia andando incontro al suo inesorabile accartocciamento post-muffa; che il frantoio ipogeo ridotto a poco più che una cloaca a cielo chiuso verrà a breve attraversato da un bel canalone della fognatura bianca (una in più o una in meno, cosa cambia); che l’orologio svettante nella pubblica piazza è da quasi un decennio il più fermo del mondo in assoluto (roba da guiness dei primati: dove per primati stavolta bisogna intendere le scimmie); che le casiceddhre che ormai in tanti vengono a vedere anche da fuori paese (invece chi del posto dovrebbe appena alzare lo sguardo sembra affetto o da cataratta cronica o da cefalea letargica, nonostante la possibilità di accedere a prezzo di costo a numerosi antidoti farmacologici) si sta sfarinando per colpa del cancro della pietra leccese (e soprattutto per colpa di quello culturale che distrugge i residui neuroni degli umanoidi nostrani), mentre il grazioso campanile in miniatura è già venuto a mancare all’affetto dei suoi cari appena qualche mese addietro; che l’affascinante misteriosa casa rossa, la casa pedreira nohana, ha finalmente un motivo di attrazione in più dato alla luce di recente da una betoniera trovatasi per caso nelle sue immediate adiacenze: una neonata altèra casa bianca presidenziale.
Antonio Mellone