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Dignità in contumacia
Di Marcello D'Acquarica (del 07/06/2013 @ 23:56:40, in NohaBlog, linkato 2852 volte)

Non manca il silenzio sacro dell’alba che pur è necessario. Né un grido d’ovazione per il minimo decoro. Per chi di loro t’ama.

Né sono svaniti i testimoni e le profonde ferite mai guarite, dell’infausta illusione di un ventennio inebriato, ferito, velato. A monito di un disastro annunciato, è lì, per gli spiriti imbelli che ancora, purtroppo, s’aggirano per l’aria, per mare e per terra.

Fu poi tempo di leghe contadine e di capi di leghe, dove lo sdegno e la protesta contenevano la tracotanza del servo inoperoso, che mai cambia.

Grida, quelle delle leghe, che non stanno più di qua dalla balaustra, ma fuori, perché scacciati e respinti per sempre da un’ingannevole scelta del comodo e del lusso, dove ogni cosa si muove e muore pian piano, nella replica pedissequa di riti secolari che tutto vorrebbero cambiare per nulla mutare. Mistici  paramenti, relegati per sempre nell’io di un corpo che tracima di fuochi fatui, che si perdono nella monotonia del sé e dell’oblio di mezze messe, seppure cantate.

Giunse poi l’alba dell’ennesimo inganno, e l’ora morta e il tempo stramazzarono inermi in un rovinoso stallo.

Su quella torre impavida, circondata solo più dai voli pindarici di allegre rondinelle, le pietre languono scure mostrando le macchie del tempo: del dono, della perduta gloria, del “boia chi molla”, del turpe travaglio, delle ore suonate, del mezzogiorno, della rabbia, del malanno e del meschino inganno.

Intanto la grassa mano del vil servitore, argina con supponente ingratitudine ciò che è già di per sé, un nulla.  Sembriamo a volte un popolo che tace e mal sopporta  l’altro. Quello di servi, che ride e galleggia.

Due popoli gemelli, che quasi si sfiorano, si danno la mano e nascondono il cuore, perché incertezza e solitudine saltellano di qua e di là, senza alcuna pietà, e a volte perfino rancore.

Ora nulla più spera la piazza, la torre e l’ora. L’ultima, da lungi scoccata, non vede più l’ombra tronfia e straniera che divora e domina sull’ultimo luogo che mai fu suo, ma che è ancora pregno di odori e d’antichi amori.

Amori di bimbi, di piedi nudi, di giovani vesti, di pizzi e merletti, di pie donne e di canti, di sudori e di pianti, di uomini e di cavalli, di prati e di fiori, di notti stellate, di lune crociate, di baci segreti, di tocchi e rintocchi di un tempo voluto e da Dio assegnato e ora, ahimè, da molti deriso e derubato.

Marcello D’Acquarica